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Come un tuono

Sabato 06 Aprile 2013 14:44 Pubblicato in Recensioni

Tennessee Williams non si chiamava davvero Tennessee Williams. Il nome con il quale lo conosciamo tutti era lo pseudonimo di Thomas Lanier Williams.

Così la sua America, filtrata dalla lente del natio Mississipi, profuma di distillati clandestini e fieno, di drammi complessi e compressi all'interno famiglie allargate, di figlioli improdighi, di sesso, consumato in fretta, per sbaglio, per forza. Nulla è mai ciò che dovrebbe essere, per convenzione, imposizione sociale, opportunità. Ognuno rincorre ciò che non sa e fugge dalla stessa cosa, in un gioco impari con una gravitazione cinica e beffarda.

Resiste una traccia indelebile del suo melodramma non sentimentale nelle viscere più profonde dell'America contemporanea, quella dei nipoti privilegiati, segnati tuttavia dalla stessa primigenia condanna, vagabonda e disperata.Cianfrance, un passo prima del suo meraviglioso “Blue Valentine”, con l'acceleratore della moto truccata, premuto sulle corde del patetismo senza lacrime – vale l'unica straziante eccezione di Gosling – narra, in fondo, un'angoscia putrida, sudata, analoga a quella del drammaturgo di Columbus.

Un'unica sorte, oltre i pini, per chi è condannato dalla storia dei padri a correre più veloce del destino, a innalzare Dioniso sopra Apollo: epilogo infausto per gangster romantici e impavidi fuorilegge. Eppure lo sprovveduto, fragile stuntman Luke, Luke il Bello, come Johnny, ma senza vendetta, solo la voglia di garantire al proprio figlio un futuro migliore del suo, non è un nemico pubblico n.1. E' uno sbandato qualunque, in un vicolo qualunque dell'America del ventunesimo secolo, in una casa uguale a mille altre, con la cornetta del telefono, stretta nella mano sbagliata.

Allora, come adesso, conta chi spara per primo o chi ha la fortuna di dichiarare l'ordine più comodo, accettabile, delle cose, ma la tragedia è soltanto una chiazza di sangue dietro la testa, da pulire presto, da dimenticare, ancora prima, in qualche scaffale polveroso di un dipartimento di polizia di provincia. Allora, come adesso, lo spettro di Banquo, del senso di colpa, affiora impietoso per vittime e carnefici (quali, poi?), dentro la cornice perfetta di un ritratto in uniforme o nel ritaglio fotografico di una felicità particellare, custodito come la reliquia di un malum culpae non emendabile.

L'ordine (in)naturale del potere costituito che tutto sovrintende, corrotto e ipocrita, resta il solo possibile perno di una ciclicità bara, sembra dirci, con amarezza, il regista statunitense. I figli viziati, ma forse parimenti soli, sul podio di una vittoria annunciata, quelli orfani, abbandonati anzitempo, di nuovo in sella a una moto, a cercare un destino che non potranno che trovare, di nuovo e sempre, al di là dei pini.

 

Ilaria Mainardi 

 

Le lesbiche non esistono

Venerdì 05 Aprile 2013 20:39 Pubblicato in Recensioni

Esistono almeno sei o sette modi diversi, in italiano, di appellare un uomo per il suo orientamento sessuale. Alcuni semplicemente descrittivi – gay, omosessuale – altri con connotazione dichiaratamente dispregiativa - recchione, checca, frocio… Se pensiamo, invece, alle varianti, anche offensive, che potremmo utilizzare per una donna omossessuale, rimaniamo a corto di parole alternative al canonico “lesbica”.

Convinte che l’omofobia inizi in questo caso con la negazione, le filmakers toscane Laura Landi e Giovanna Selis imbastiscono un documentario che intende fare breccia nel muro di invisibilità che ancora circonda il lesbismo; un’invisibilità che si presenta come forma di discriminazione più subdola e potente di molti falsi stereotipi. Infatti, se l’omosessualità maschile è ancora vittima di aggressività verbale e fisica, quella femminile spesso semplicemente non esiste (da qui il titolo provocatorio che collega ciò che è invisibile a ciò che non è).

Per riportarla alla luce il documentario racconta, con il metodo classico dell’intervista con intervistatore nascosto, le vite di alcune lesbiche italiane che rivendicano la propria sessualità senza forzare troppo l’azione di definizione e differenziazione, semplicemente offrendo frammenti di esperienze che testimoniano le loro storie, a partire dal nucleo familiare di provenienza fino all’impatto sulla società che le circonda. Dai pensieri incrociati che il montaggio ci restituisce – e che le registe hanno cercato di realizzare evitando accuratamente di far sentire la loro mano - emerge un mondo fatto di donne reali che studiano, lavorano, convivono, e che con assoluta naturalezza hanno deciso di raccontarsi per regalare una visione altra e realistica di cosa significhi essere donne e omosessuali oggi in Italia, con tutte le problematiche che la nostra società chiusa ed eteronormativa può presentare. Perché, sostengono le autrici, per le donne sussiste un fattore di difficoltà in più : essere state per certi versi più “accettate” o semplicemente meno prese in considerazione ha portato alla convinzione che il silenzio protegga, quando invece nega, rende invisibili, cancella.

Al di là degli aspetti contenutistici, l’interesse che il documentario suscita riguarda anche e soprattutto le modalità di finanziamento e produzione. Stando alle regole dell’industria cinematografica un documentario dovrebbe essere venduto ancor prima dell’inizio della sua realizzazione; ciò implica la presenza di un finanziatore che crede fermamente nel progetto e, pertanto, è disposto a rischiare i propri soldi. I progetti che si discostano dalle produzioni collaudate del mercato comportano un rischio troppo grande che quasi nessuno, soprattutto in tempi di crisi, è disposto ad assumere. Per questo le registe hanno deciso di rivolgersi alla produzione del basso (vedi www.produzionidalbasso.com ) piattaforma gratuita di crowdfunding che permette agli utenti finali di contribuire ai costi di produzione di qualsiasi tipo di progetto – materiale ed immateriale - partecipando con una piccola quota (nel caso del documentario in oggetto tale quota era stata fissata a 10 euro) e diventandone a tutti gli effetti i produttori. Grazie a questa innovativa modalità di sottoscrizione popolare il documentario ha potuto vedere la luce riscuotendo gli apprezzamenti della critica del Florence Queer Festival dove è stato in prima battuta presentato e continuando la sua diffusione nei festival di genere e non. La modalità della produzione dal basso - ecco un’altra sua potenzialità - ha infatti permesso al pubblico di assumere un ruolo attivo e consapevole, sganciandosi dalla semplice figura di fruitore. Al tempo stesso, si è potuto evitare un coinvolgimento a senso unico delle sole associazioni Lgbt – che hanno comunque sostenuto il progetto –  per parlare ad uno spettatore “queer” che si interessa trasversalmente alle tematiche di genere di cui cerca di decostruirne le modalità preconfezionate di rappresentazione. Le registe rivelano infatti come molti dei finanziatori non siano omosessuali e non appartengano a nessuna associazione che si occupa di diritti delle persone Lgbt bensì persone interessate e sensibili alla tematica, che hanno creduto nel valore e nella forza dell’idea originaria.

Nella sua totalità il documentario, impreziosito da un’efficace animazione iniziale, realizzata dall’illustratrice Francesca Bolis e da frammenti dello spettacolo teatrale “La metafisica dell’amore” (Le Brugole) che creano le giuste pause fra un’intervista e l’altra, è un mediometraggio ben riuscito sia sul versante formale che su quello sostanziale, capace di raggiungere gli obbiettivi che si era posto: dar voce alle variegate vite che hanno voluto raccontarsi, operando un passaggio fondamentale che dal privato giunge al pubblico, o meglio al politico (“il privato è politico”), e  decostruendo al contempo il supposto “prototipo lesbo”, a dimostrazione che non esiste un solo modo di vivere la sessualità 

L’interrogativo fondamentale in relazione al suo spunto iniziale resta tuttavia aperto: le lesbiche sono veramente invisibili oppure, a fronte di un generale silenzio, si può supporre che godano di una maggiore accettazione da parte della società? Ma soprattutto: c’è ancora bisogno di identificarsi e raccontarsi per esistere?

 

Elisa Fiorucci

Il Cacciatore di Giganti

Martedì 02 Aprile 2013 12:20 Pubblicato in Recensioni

Fantastico non è sinonimo di fantasioso. L'originalità e l'imprevedibilità, figlie della creatività e dell'imponderabilità del reale, si possono rintracciare nell'ambito della finzione, del verosimile, del fantastico o del documentario, questo lo sappiamo e rientra nelle stesso genere di livella divina che fa si che un contadino muoia proprio come un re. 

Il cacciatore di giganti ne è un esempio calzante, targato Warner Bros, 3D, kolossal tra l'avventura ed il fantastico è ricchissimo di effetti speciali ma povero di sorprese, tanto da risultare prevedibile dall'inizio alla fine, sia nelle soluzioni narrative di sceneggiatura che di regia. Nei passaggi offerti dalla storia in cui la narrazione potrebbe sfuggire ai suoi previsti risvolti o a dinamiche prestabilite per permettersi qualche intuizione più affascinante, soprattuto nel costruire una dimensione del mondo dei giganti, ci si perde ancora di più, impoverendo la coerenza interna di questo realtà altra. Ad esempio, se l'abito non fa il monaco in Gigantiland la corona fa il re, è la regola decisiva da queste parti, ma la cruciale mossa diegetica non è supportata da una logica nel racconto e risulta una forzatura. Spesso si ricorre ai dialoghi, a tratti veri e propri monologhi, per darci ogni genere d'informazione. I personaggi sembrano rivolgersi direttamente allo spettatore, spiegandoci nella maniera più diretta, quindi elementare, ciò che si dovrebbe mostrare o almeno costruire con un po' più di grazia, risultando alienanti e fuori luogo. Naturalmente c'è l'amore, che però questa volta non è impossibile perché interraziale come in Avatar, ma, conformemente ai codici della favole che ci hanno svezzato da piccoli, semplicemente intersociale, una principessa e un contadino uniti da quell'indole da sognatori prerogativa, che tutto può, della gioventù. I Golia in questione hanno una grafica tra il videogioco, anche qui il film non rischia di eccedere per personalità, e il primitivo, sono di una rozzezza impareggiabile, ma, come sembrerebbe tutti nel medioevo, parlano un linguaggio ricercato. 

Bisogna anche spezzare una lancia a favore di questa bidimensionale razza animalesca gigante caratterizzata da un'aggressività patologica dovuta probabilmente alla mancanza di donne all'altezza, e non in senso figurato, di questi bestioni, il che può costituire una grave fonte di stress. Dulcis in fundo, si finisce con la possibilità che la storia riparta da capo, aspetto che può far sorridere, ma che segue il più classico dei paradigmi, visto in infiniti cortometraggi. Gli attori ci vanno tutti di mestiere portando a casa la pagnotta, giusto Stanley Tucci sembra divertirsi un po' più degli altri sull'onda della perfidia. Insomma manca una miscela di scienza e creatività per rendere questa storia pienamente accattivante.

Impariamo che i frati hanno la testa rasata affinché Dio possa leggere più facilmente nelle loro teste ed un infallibile metodo per sconfiggere la paura: immaginare una fetta di torta fluttuante davanti a sé nei momenti critici. Detto questo resta il fatto che è una favola, nel senso meno magico del termine, ma che comunque scorre senza intoppi, non rischia di annoiare e risulta gradevole e leggera per tutta la durata del film. Tuttavia, forse, si punta troppo su prodotti innovativi, effetto delle possibilità dei tempi a scapito della sostanza e del fascino della storia. Forse, spesso, si rischia poco, quasi come se la semplice ambientazione fantastica o il 3D siano sufficienti a far si che il racconto funzioni.

Alla fine si creano film mediocri che non vanno al di là di una piatta fruibilità, con buona pace di tutti e, comunque, garanzia di riscontro al botteghino. Finita l'eccitazione per la novità, magari si comincerà a fare della tecnologia anche un uso più intelligente, privandola della centralità di cui oggi gode per tramutarla in un ottimo strumento a disposizione dell'espressività.

 

Kami Fares

 

L'Asian Film Festival spegne 11 candeline

Martedì 02 Aprile 2013 12:05 Pubblicato in News

 

Arriva a Reggio Emilia, dal 6 all'11 aprile, l'Asian Film Festival, manifestazione giunta alla sua 11esima edizione per gli appassionati di cinema asiatico.

 

Un momento fondamentale di conoscenza e apertura al dialogo non limitato al cinema, ma aperto alla cultura e alla conoscenza reciproca tra realtà italiana e paesi asiatici.

Quest'anno Asian Film Festival punta l'attenzione su Emily TANG, una regista indipendente capace di illuminare con il suo sguardo attento le molteplici sfumature della Cina contemporanea. Emily Tang sarà ospite del festival. Sarà l'occasione per un incontro con il pubblico e per presentare tutti i suoi film: Conjugation (2001), Perfect Life (2008) e, in anteprima italiana, il nuovo All Apologies.

Insieme a Emily Tang, arriverà in Italia anche il produttore Chow Keung che ha collaborato numerose volte con la Tang ed è stato anche tra i produttori di Still Life, Leone d'Oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 2006. La sua Xstream Pictures ha prodotto Memories Look at Me di SONG Fang, ritratto di famiglia che interseca documentario e ricerca tra quotidianità e ricordi, che verrà presentato nel corso della manifestazione.

Il paese su cui punterà l'Asian per questa edizione è il MYANMAR, cui sarà dedicato un INEDITO FOCUS. Al pubblico di Reggio Emilia sarà presentato Kayan Beauties, di Aung Ko Latt, storia della lotta di alcune donne di etnia kayan – dai caratteristici anelli di bronzo intorno al collo – per liberare una di loro dalle mani di trafficanti di schiave. Kayan Beauties è solo il primo titolo a venir svelato, ma sarà accompagnato da altri tre film in grado di raccontare il Myanmar, un paese ricco di misteri, contraddizioni e curiosità strabilianti.

Nella sezione Concorso saranno presentati dodici film inediti in Italia o Europa, tra cui trovano posto alcuni nomi noti e molto apprezzati anche da noi, come Takeshi KITANO con Outrage Beyond, nuova incursione nel mondo della malavita organizzata giapponese; il nuovo film di Brillante MENDOZA, Thy Womb, coraggiosa storia etnografica con un'intensissima attrice protagonista; il film di Masahiro KOBAYASHI, Japan's Tragedy, commovente riflessione sul dopo-tsunami che ha colpito il Giappone nel 2011. Nel Concorso trovano posto anche film di registi meno noti è il caso del ritorno del veterano YIM Ho con Floating City, viaggio appassionante in cinquant'anni di storia di Hong Kong da colonia britannica al ritorno alla madrepatria cinese, della sbalorditiva Miwa NISHIKAWA con Dreams for Sale, storia di una coppia in crisi economica che dopo un incidente architetta un piano molto cinico per rifarsi, o del sorprendente YANG Ya-che, che con Gf*Bf regala un dolce triangolo amoroso tra due ragazzi e una ragazza nel corso di alcuni decenni di travagliata storia taiwanese.

Nella sezione Fuori Concorso troveremo Takashi MIIKE, che con Ace Attorney offre una fantasmagorica trasposizione da un famoso videogioco di Capcom. E WANG Bing, di cui saranno presentati – per la prima volta insieme – due documentari inestricabilmente legati tra loro, Three Sisters e Alone, storia di tre piccole sorelle in un villaggio montano dello Yunnan.

Nella sezione Newcomers, sguardo privilegiato su registi alla prima o seconda opera con una visione rinnovata di cinema compariranno il coreano Sunshine Boys, storia del breve incontro tra tre amici, uno dei quali impegnato nel servizio di leva, il giapponese The Town of Whales, racconto di formazione dai toni soffusi con una ragazza alla ricerca del fratello scomparso, e il già citato cinese Memories Look at Me.

Maggiori informazioni consultando www.asianfilmfestival.it