Tratto da uno dei libri più importanti del Novecento, la genesi di un film su Il Maestro e Margherita è sempre stata travagliata come l’originale.
La famosa vicenda dell’arrivo di Satana a Mosca condizionò la vita dell’autore Bulgakov per i suoi contenuti pericolosi e sovversivi nei confronti del regime proletario, ma nonostante l’uscita postuma e censurata, la potenza e la magia nella scrittura consegnarono questo lavoro alla storia.
Cambiano le epoche e le situazioni, ma avere a che fare con materiale di questo tipo richiede sempre una certa delicatezza, sia tecnicamente con la sua difficile trasposizione, che nel maneggiarne i messaggi politici sotto autorità più oppressive.
Durante la produzione il COVID ha causato ritardi, e la successiva posizione del regista Michail Lokšin sulla guerra tra Russia e Ucraina, ha generato una serie di boicottaggi in patria che ha tuttavia contribuito alla chiacchiera attorno al film.
Ma al di là delle questioni esterne alla produzione, come se la cava al confronto con questo peso massimo della letteratura?
Salta subito all’occhio il lavoro fatto in termini di riadattamento delle sequenze narrative, perché le linee temporali del racconto originale si prestavano poco ad una fruizione sul grande schermo. Il rimescolamento dell’intreccio funziona bene nel tenere coesa la ricostruzione del processo di Gesù con le peripezie di Satana e del suo entourage nella vita culturale di Mosca, in uno scorrere fluido dove l’unica modifica sostanziale è il ruolo più centrale dei due protagonisti, il Maestro (Evgenij C’īgardovič) e Margherita (Julija Snigir).
Per il resto, il materiale originale rimane una base di qualità assoluta per tratteggiare l’emblematico personaggio di Woland (August Diehl), cioè Satana sotto mentite spoglie, che con le sue parole taglienti e sfuggenti riempie conversazioni e situazioni ammalianti.
Purtroppo meno riusciti sono invece i suoi sottoposti, tra cui i vari demoni Baphomet, Fagotto e Azazello, tratteggiati con un’enfasi giocosa e circense che dal vivo banalizza l’efficacia delle situazioni originali. Artefici di incanti soprannaturali e numeri di magia, il loro istrionismo eccede ogni tanto fino a sfiorare il patetico, soprattutto quando non c’è il loro superiore a mettere un freno.
È una certa alternanza tra un registro elegante e affascinante contro uno meno d’effetto che segna il principale problema della pellicola. Se i dialoghi scorrono come un fiume, lo stesso non si può dire della messa in scena, complice un budget che in alcuni effetti speciali tradisce un certo limite.
I temi che attraversano le vicende rimangono sostanzialmente intatti, vengono solamente resi più immediati in alcuni momenti un po’ più didascalici, di cui si poteva anche fare tranquillamente a meno, ma tutta la graffiante critica sociale mantiene la sua efficacia.
Questa sensazione che i meriti del film si poggino solo sul fatto di essere tratto da una fonte talmente cristallina, continuano a restare in superficie, facendo fatica a trovare quale sia il contributo del trasferimento dalla carta stampata allo schermo.
Dove il reale si scontra con l’immaginazione sembra spesso che il primo paghi dazio, al di là della menzione sulla parte del ballo di mezzanotte, inscenata con grazia e maestria per l’ottima scelta di costumi e scenografie.
Non è un film venuto male, intendiamoci, ma alla conta dei fatti non aggiunge nulla alla fiaba memorabile dell’autore russo; rimane da elogiare la cura con cui si è cercato di preservare il contenuto, ma sostanzialmente era un’operazione che meritava uno sforzo ancora più certosino, e se non altro dei mezzi tecnici più adeguati per rappresentare certe sequenze d’impatto.
Nel caso in cui lo spettatore rimanga colpito dalla particolarità delle situazioni durante la visione del film, il consiglio è quello di recuperare assolutamente anche la lettura dell’opera originale, stratificata ed emblematica, mai come oggi attuale e intatta nella sua straordinaria forza comunicativa.
Omar Mourad Agha