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Everest

Mercoledì 30 Settembre 2015 08:52
Everest, lungometraggio scelto per aprire l’edizione 72 della Mostra del Cinema di Venezia, ha portato in   anticipo l’inverno sul Lido. 
Dopo gli scoppiettanti inizi delle due passate stagioni: Gravity di Alfonso Cuaron (Presidente di Giuria di questa edizione del Festival) e Birdman di Alejandro Gonzalez Inarritu, il film intimistico ed epico di Baltasar Kormákur (Contraband – 2012, Cani Sciolti - 2013), che parla della drammatica spedizione avvenuta sull’Everest nel 1996 da parte di due gruppi di escursionisti amanti dell’alpinismo estremo, non convince appieno e passa su Venezia come una tormenta di neve in piena estate. 
Il film è la riproposizione dei fatti descritti nel saggio Aria Sottile (1997) di Jon Krakauer. Non nuovo a best seller di genere avventuroso, in quanto autore del libro Nelle terre selvagge (1996), che diventò lo splendido film Into the Wild (2007) diretto da Sean Penn.
Girato alle pendici dell’Everest, sulle nostre Dolomiti, negli studi di Cinecittà a Roma e Pinewood a Londra, l’opera spiega essenzialmente la storia di un gruppo di persone qualunque che si cimenta con le imprevedibilità della montagna. 
Corale per diritto, nel cast sono presenti una serie di star hollywoodiane del calibro di: Jake Gyllenhaal (Donnie Darko - 2001), Josh Brolin (Non è un paese per Vecchi - 2007) e Jason Clarke (Apes Revolution - 2014). Coprotagonisti di questo film dove l’indiscussa protagonista è la Montagna. 8848 metri sul livello del mare. Il luogo più angusto che la natura ci potesse regalare. Figlia degli Dei e quindi proibita all’uomo.
Kormákur dirige con mano gelida ed un poco documentaristica. Sarà perché abituato al clima della sua terra, l’Islanda? Può darsi. 
La narrazione si concentra sulla ricerca di una realtà concreta e vera. La quotidianità della sua terra, così lunare, aiuta l’autore nell’unico vero fiore all’occhiello del film: l’esatta descrizione della natura a quelle altezze. Più si dà alla realtà, più tutto sembra reale. Da questo anche l’uso limitato della computer grafica. La storia del gruppo, meno approfondita, ne risente. Il risultato è un film che alterna le emozioni. Poco omogeno. Il senso di cameratismo, di unione davanti alla tragedia e l’approfondimento dei personaggi è solo abbozzato. Il dolore rientra nei soliti cliché di genere, manca quell’aspetto umano che aveva caratterizzato un film similare: Alive – Sopravvissuti (1993). Disastro aereo accaduto ad una squadra di rugby sulla catena montuosa delle Ande.
In sostanza, manca la figura metaforica del proprio Everest da scalare. Ogni essere umano ne ha uno, basso o alto che sia. Ci sarebbe piaciuto entrare con l’uomo scalatore dentro alla natura selvaggia e carpire cosa si prova nei momenti difficili, dove veramente si ha la percezione di se stessi. L’uomo nella natura ritrova la sua vera natura. Una guerra dentro ognuno di noi, piscologica ma anche fisica. Per rendere poi il ritorno alla normalità qualcosa di veramente speciale. In alcuni casi risolutrice o condizione preziosa per ripartire con una nuova vita.
La figura femminile è sostanzialmente rilegata a forma di supporto morale. Keira Knightley (Orgoglio e Pregiudizio – 2005) e Robin Wright (Forrest Gump – 1994) rappresentano quel coraggio spirituale che vacilla nei propri cari. Voglia di non mollare che torna agli alpinisti in difficoltà, attraverso sogni deliranti e telefonate intercontinentali.
Il materiale a disposizione del regista e degli sceneggiatori (Simon Beaufoy, William Nicholson) era molto corposo e vasto e lasciava presagire una riuscita ben diversa da quella messa su immagini. Perché, se l’intento era quello di spiegare la montagna e le sue peculiarità, l’obbligo era quello di introdurre nella descrizione la caratterizzazione del gruppo. Povera e rilegata a comparsa come descritto in precedenza.
Uomo e natura sono indivisibili e qui paiono figli di due universi lontani lontani.
 
David Siena
 

Looking For Grace. Anteprima Venezia 72

Giovedì 10 Settembre 2015 09:46
Nel panorama dei Festival contemporanei, Looking for Grace, diretto e scritto dall’australiana Sue Brooks (al Festival di Venezia nel 2003 col bellissimo Japanese Story), per molti addetti ai lavori potrebbe passare inosservato.  Certamente non brilla in originalità, ma a dispetto di polpettoni dilatati e tediosi, nella drammaticità del film troviamo un insolito umorismo, che funziona e stempera i disastri legati al destino ineluttabile di una famiglia qualunque.
L’ironia (tipicamente australiana?) tiene a galla il film diviso in diversi capitoli legati ai personaggi principali. Questi, incrociandosi, formano un puzzle figlio del caso. Dalla vicenda principale, la fuga di Grace (Odessa Young, presente alla Mostra di Venezia 72 con un altro titolo: The Daughter), teenager in erba alle prese con le problematiche tipiche delle sua generazione, scaturiscono avvenimenti imprevisti. Segreti, bugie e ansie, chiusi per troppo tempo nella monotonia quotidiana, esplodono coinvolgendo tutta la famiglia e non solo. La ragazzina verrà a contatto con la realtà, fino ad allora nascosta dai genitori. Le mancanze del padre (Richard Roxburgh, Moulin Rouge – 2001) e della madre (Radha Mitchell, Silent Hill – 2006) creano asprezze ed evidenziano le incomprensioni che trovano i ragazzi d’oggi nel rapporto con gli adulti.
Looking for Grace, non solo è diretto da una donna, ma è un film realizzato quasi completamente da donne (dalla direttrice della fotografia ad un trio di produttrici) per le donne. Un cinema al femminile che parla al gentil sesso contemporaneo, accumunato ed impantanato, ancora nostro malgrado, ad un folle conformismo.
Il titolo del film, non è solo riferito alla ricerca di Grace, ma soprattutto alla ricerca da parte dei personaggi di se stessi e della grazia. Vera sfuggevole condizione, che ogni essere umano ricerca spasmodicamente per dare un senso alla propria vita. Caccia al tesoro o estenuante partita nella quale tutti cercano il pallone. Come bambini spinti dalla voglia di arrivare prima di altri per segnare un goal strepitoso e portare la propria squadra verso la vittoria. Molte volte la grazia risiede nei gesti comuni, come vedere i propri genitori che si allacciano le scarpe. Attimi che ci ricorderanno quella persona per sempre e ci conforteranno nei momenti difficili. Luce in uno scenario di tenebra. 
Se fossimo tutti più comunicativi (a parole) e meno legati al caos mediatico (cellulari e social media), la pace sarebbe più a portata di mano. Pace intrinseca alla zona geografica nella quale è ambientato il film: la Cintura del grano. Meravigliosa regione dell’Australia occidentale caratterizzata da ampi spazi aperti, che assume una forte e naturale valenza simbolica di semplicità in contrasto con le problematiche caotiche e personali dei protagonisti. La regista con questo mette anche in contrasto la vastità del mondo con i piccoli momenti intimi ripresi nel film: primi piani ad oggetti e parti del corpo. Esplora e studia la complessità dell’esistenza.
Looking for Grace attraverso il suo viaggio on the road ci parla d’amore, di legami d’amicizia e famigliari e di crescite e cadute personali. Compresa la morte alla fine della strada. Insomma di persone normali legate all’unica vera cosa dalla quale non si può sfuggire: il fato. Realtà oggettiva e tarlo ossessivo della regista. 
 
Il film è ancora in attesa di una distribuzione Italiana. 
 
David Siena
 

Ti Guardo. Desde Alla'

Giovedì 10 Settembre 2015 11:02
Ti Guardo, titolo italiano di Desde Alla’, vincitore del Leone D’oro alla Mostra del Cinema di Venezia edizione 72, è un film complesso, che porta in sé una tematica forte. Nel suo dna ci sono segni di grande autoralità ed anche piccoli cali di stile, ma non possiamo che complimentarci con gli autori della storia: Guillermo Arriaga (Amores Perros - 2000, 21 Grammi – 2003, tra i suoi lavori più riusciti) e Lorenzo Vigas, per aver costruito un’opera intensa, partendo da situazioni di dolore personale ed intimo per poi allargare la visione ad un dolore universale, che accomuna tutto il genere umano.
 
Armando (Alfredo Castro, Post Mortem - 2010), uomo sulla cinquantina, lavora in proprio. Nel suo laboratorio costruisce e ripara protesi dentali. Meticoloso e preciso, il suo modo di vivere va in contrasto con la città in cui risiede, una Caracas degradata, caotica e colma di delinquenza. In questo mondo al contrario, lui riesce a mimetizzarsi perfettamente. Porta nel suo cuore tremende ferite, figlie di un’esistenza che ha molto in comune con la contemporaneità pazza e deviata. Sfoga le sue ansie e paure guardando dei ragazzotti spogliarsi nella sua casa. Voyeurismo come vizio, che lo porta ad incontrare Elder (Luis Silva, all’esordio cinematografico), giovane ladruncolo che lavora in uno sfasciacarrozze. In un primo momento la loro unione stenta ad ingranare, in quanto il ragazzo, dichiaratamente omofobo, lo sfrutta solo per il denaro e le comodità che hanno un deciso sapore paterno. 
Questa situazione umana al limite, resa più fastidiosa dall’entrata in scena del padre di Armando, portatore di nefasti ricordi, trova un punto d’unione inaspettato. Forte e debole allo stesso tempo. Armando e Elder intraprendono un rapporto umano e curativo. L’uno cerca di guarire l’altro dal proprio disagio personale e la componente fisica avrà anch’essa un ruolo fondamentale nella storia.
 
Al timone della pellicola troviamo il neofita Lorenzo Vigas, che fa uso esclusivo dei primi piani. L’obbiettivo si fissa sui due personaggi principali, lasciando i dialoghi fuori campo. Quando il primo piano è su Armando tutto il resto non è a fuoco, come la sua vita, un sorta di mondo tra le nubi. Intimità morbosa, che in alcuni tratti però rallenta il ritmo del film. Staticità, che suo malgrado non rovina la splendida sceneggiatura e la potenza del messaggio. Sicuramente un po’ più di frenesia con la macchina da presa, per intenderci una regia alla A.G. Inarritu (Babel – 2006), avrebbe reso il film memorabile, al limite del capolavoro. 
 
La narrazione si sviluppa in modo lineare, non intrecciandosi com’è solito fare nei suoi lavori Guillermo Arriaga. Lo scrittore messicano lavora con egregia maestria sulla sensibilità ed imbastisce una relazione impossibile, che colpisce al cuore e fa riflettere sulla natura dell’essere umano. Osserva vite segnate dalla sofferenza, che percorrono un binario che devia inaspettatamente la propria via per poi riprendere il sentiero delle proprie origini. Destino segnato, che sembra essere un macigno inscalfibile. Figlio dell’esperienza del dolore, che non si può cancellare. Analisi spietata di matematica precisione. Memorabile è l’attimo nel quale il fato, linea retta, si spezza. Non è un baratro, ma un soffio di vento impercettibile che pulisce l’anima. Unione pacifica e riparatrice tra Armando e Elder, che esplode in una composta gioia di vivere. Dura pochissimo, ma è presente ed Arriaga è superbo a portarci lì, dentro quell’emozione.
 
Desde alla’ è un recipiente traboccante di scene iconografiche, alle quali non si può rimanere indifferenti. Scaldano il nostro spirito in profondità e portano il calore fino sulla nostra pelle. Lo scoglio che non può arginare il mare è il desiderio sessuale di Armando nei confronti di Elder, che non può essere completamente sopito. La vettura acquistata da Elder e sistemata da lui stesso con cura. Macchina, che non potrà mai tornare come nuova, trova il suo riflesso nella condizione malfamata del ragazzo.
Poderosa è anche la speculare inquadratura, pressoché identica, tra amore etero e omosessuale. La mia preferita ha come soggetto una semplice statuina di ceramica. Intrinseco a quell’oggetto sono riassunte tre situazioni focali e cariche di sentimento della pellicola: il furto, la rabbia e la voglia di un legame duraturo.
 
Dal punto di vista artistico i due attori protagonisti entrano nella parte con realismo. Si avvicinano troppo e non mancano di farcelo vedere e sentire in ogni fotogramma. Soprattutto la dedizione di Alfredo Castro, attore feticcio dell’eccellente regista cileno Pablo Larrain (No. I giorni dell’arcobaleno - 2012), al suo concavo personaggio è stupefacente.
 
Il film di Lorenzo Vigas, ci insegna come sia impossibile sfuggire alla propria natura e come ci si possa avvicinare a sconfiggere il dolore senza però mai metterlo a tacere. Urla che tornano nell’intimo e che nostro malgrado ognuno di noi ha sentito riecheggiare, almeno una volta, nella propria anima. Perché se viviamo, dobbiamo essere pronti a convivere con le problematiche figlie dell’esistenza: lutto, molestie, situazioni disagiate, mancanza di un vero amore, difficoltà nel dichiararsi diversi, problematiche famigliari, di integrazione e malattie incurabili. Desde alla’ racconta con tatto ed amore le conseguenze di tutto questo. Leone d’Oro meritato.
 
David Siena

Il Caso Spotlight

Sabato 12 Settembre 2015 16:35

Il Caso Spotlight di Tom McCarthy (L’Ospite Inatteso – 2007), presentato Fuori Concorso alla Mostra del cinema di Venezia edizione 72, è un film legato indissolubilmente al cinema hollywoodiano degli anni Settanta. In quegli anni, nella Mecca del cinema, vengono abbandonati i lustrini del divismo e dell’intrattenimento ad ogni costo. Il testimone passa ad un cinema di denuncia, a pellicole che hanno il coraggio di osare. Film che mettono in mostra la parte sporca della società, le problematiche generazionali e i disagi delle guerre. Ecco, Spotlight rientra in questo modo di interpretare la settima arte, attraverso un cinema investigativo. Con coraggio porta sullo schermo la pedofilia nella Chiesa, che un team di giornalisti del Boston Globe ha la forza e l’ardore di smascherare.

La frangia più estremista del quotidiano si chiama Spotlight ed è diretta da Walter 'Robby' Robinson (Michael Keaton, Birdman - 2014). Insieme a lui, un gruppo di giornalisti, capitanati da Mike Rezendes (Marc Ruffalo, Tutto può cambiare - 2013), vincitore del Premio Pulizer per il servizio pubblico nel 2003, combattono contro un mostro sacro: l’Arcivescovo Bernard Francis Law (Len Cariou, Prisoners – 2013). Le indagini, scomode e complicate, aprono una falda profonda, che vede la Chiesa Americana soccombere sotto le accuse di abusi fisici e crimini diabolici contro degli innocenti. Il Churchgate del 2002, non solo è sinonimo di tradimento della fede, ma anche una delle pagine più nere per l’umanità. L’inchiesta ha riguardato 90 sacerdoti appartenenti alla diocesi di Boston e dei suoi dintorni.
Il regista, che è anche co-sceneggiatore, affiancato da  Josh Singer (Il Quinto potere – 2013), ha dichiarato di essersi ispirato al cinema del compianto Sidney Lumet. Egregio cineasta, che ha dato il meglio di sé proprio negli anni Settanta con film del calibro di: Rapina record a New York - 1971, Serpico - 1973, Quel pomeriggio di un giorno da cani - 1975 e Quinto potere -1976. Tom McCarthy ha messo in scena, con freddezza chirurgica, la spietata cronaca e con una ferrea attenzione nel ricostruire gli eventi ha realisticamente inquadrato l’attualità dell’epoca. Ha indagato sul confine tra crimine e legalità, evidenziando le macchinazioni del potere e l’audacia nel combatterlo da parte di un giornalismo investigativo concentrato sulla ricerca della verità. Completamente riuscita è l’intensificazione drammatica degli episodi di cronaca e della storia. Resa coinvolgente dal ritmo senza pause del montaggio. Efficace il lavoro eseguito con gli attori. Cinema corale, che ha giovato delle intense interpretazioni di, compresi quelli già sopra nominati: Rachel McAdams (Questione di Tempo – 2013), Stanley Tucci (Il Diavolo veste Prada – 2006), Liev Schreiber (Wolverine Le origini – 2009) e John Slattery (Serie Tv Mad Men – dal 2007 al 2015). Cast al servizio di una sceneggiatura supportata da una grande quantità di documenti d’epoca. Cinema vicino e similare ad un post-moderno come David Fincher ed il suo Zodiac (2007). Per la tematica, Spotlight, ricorda anche Sleepers (1996) di Barry Levinson. Mancano i sentimenti, presenti in Dentro la Notizia di James L. Brooks (1987), film che per assonanza nel titolo è facile accostare al soggetto di Spotlight.
Dalla libera comunicazione si è potuto usufruire in quegli anni di un giornalismo investigativo, che ha dato i suoi frutti. L’uso della carta stampata ha aperto gli occhi al mondo, lo ha ripulito dalla feccia. Ora gli Stati trovano enormi difficoltà ad avere un giornalismo sicuro, pulito ed edificante. Giornalisti investigatori agiscono tramite il web. Piattaforma, non sempre legale, che comunque aiuta a far venire a galla la notizia scomoda e fastidiosa. 
Attendiamo ora l’uscita nella sale di Spotlight e la reazione da parte della Chiesa e di Papa Bergoglio, primo promotore nella lotta contro la pedofilia.  Ancora oggi l’Arcivescovo Law, cacciato da Boston, vive al Vaticano all’età di 84 anni.
 
David Siena 
 
 
 
 

 

Fuocoammare

Lunedì 22 Febbraio 2016 13:31

Dopo un anno e mezzo di riprese e documentazioni sul luogo nasce Fuocoammare, scaturito proprio “dall'esigenza di fare da eco alla tragedia dei profughi di Lampedusa”,  quello che secondo Gianfranco Rosi, recentissimo Orso d'Oro a Berlino proprio per questo lavoro, “è un film politico a prescindere” in quanto tale materia è la sostanza di cui si nutre e dalla quale prende le mosse l'esigenza alla base del film.

Sembrerebbe un'ottima frase di lancio se poi tutto non riconducesse ad un film asettico diviso nettamente in due parti, inframezzate dai racconti di un medico responsabile dei soccorsi, che si occupa con grande umanità di tutti i casi che l'isola accoglie.
Un senso critico nasce spontaneo, quello che ci fa chiedere cos'è la politica e qual è davvero la funzione di un film documentario e, forse, esperti del settore fomentati a parte, è anche ciò che diversi spettatori si sono chiesti vedendo questo lavoro.
Fin da quasi subito si avverte preponderante il senso di un'urgenza narrativa vuota, che non viene esplicitata nella gravità degli accadimenti, per un film che non entra nel merito della vicenda che sceglie di raccontare, o meglio ne tratta una parte che potrebbe tranquillamente essere considerata marginale. Ci si chiede qual è il doveroso confine tra realtà e finzione, come in passato mi accadde davanti alla visione di Sacro GRA, opera precedente del regista che gli valse il Leone d'oro nel 2013 alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. 
Davanti ai lavori di Rosi, mi approccio con un certo sconcerto, sentendomi privata di qualcosa, come se il diritto di vedere e sapere mi sia stato negato,  rimpiazzandolo con una farsa ben architettata, questo quello che ho provato davanti al Leone d'Oro, questo quello che ho riprovato davanti a Fuocoammare. Perché c'è la necessità di fare un lavoro così poco coraggioso? Probabilmente perché mantenendo i piedi entro un certo confine, che sia per tutti inequivocabilmente politically correct, non c'è il rischio di non compiacere la grande massa di spettatori e la grande massa di addetti ai lavori che sposano un certo tipo di cinematografia che poco osa, mai sull'orlo, che nulla dice e che nulla toglie, ma che concettualmente impoverisce negandoci il diritto di sapere. Rosi sembra osare poco, anzi per nulla, indugiando su elementi totalmente spettacolarizzanti, come una lacrima di sangue che solca il viso di un disgraziato vivo per miracolo dopo la traversata, un tempo troppo lungo, per poi negarci completamente ciò che sarebbe lecito sapere, mostrandoci i morti ammassati nella stiva di una carretta del mare solo per la lungimiranza di uno dei soccorritori che spiega al Maestro quanto sia importante vedere ciò che realmente accade, l'impatto dirompente di un avvenimento storico di portata mondiale e che ci tocca così da vicino. Rosi ci priva e si dilunga su tutta una parte fondamentalmente inutile e appesantita di racconti infarciti della noia di un'isola dove non accade niente, dove si vive di mare e attraverso i profughi che quello stesso mare a volte restituisce alla terra, altre inghiotte. Non vi è nemmeno l'elemento di forte contrasto tra piani narrativi, dato da una vita routinaria e tranquilla e la disperazione di chi giunge sulle nostre coste, perché c'è sempre un filtro patinato, l'occhio del regista che tutto mitiga e tutto alleggerisce, sospendendo nel tempo e nello spazio tutto ciò che ci scorre davanti.
Rosi mette in bocca ai protagonisti frasi, suggerisce scene, fa spiegare in camera, da quello che dovrebbe essere uno dei mentori della vicenda, quanto sia terribile ciò che accade, filtrando il  tutto e non avvicinandosi mai abbastanza alla tragedia e alla vita sottratta a causa di sordide politiche internazionali, di leggi oscene, di guerre scellerate, di paesi resi schiavi, cosa che invece qualche anno prima aveva fatto, molto meglio e molto più esplicitamente, “Mare Chiuso” (2012) di Stefano Liberti e Andrea Segre, affidando la narrazione per brevi tratti ad immagini potenti come un pugno nello stomaco, quelle dei telefonini degli stessi naufraghi sui barconi. Il non osare diventa una mancanza di onestà intellettuale per un mondo che, come l'occhio pigro del suo protagonista lampedusano, si rifiuta di vedere. Quell'occhio pigro coincide con lo sguardo del regista. E ora che la tragedia è stata massmedializzata, vincendo pure un premio internazionale, infarcita di curate immagini atte solo a rievocarla, quasi da farla sembrare irreale, stiamo tutti molto meglio? Probabilmente questo film mette in pace gli animi, come fece un po' Bertolucci con The Dreamers raccontandoci che tre ragazzotti che giocavano alla politica erano il 68' francese, magari lui lo fece con un po' più di disincanto e soprattutto si trattava di una storia di finzione, ma un documentario dovrebbe assumersi anche il dovere di cronaca, perché il cinema non è solo un bel gioco ma, in alcune occasioni, dovrebbe essere impegno civile. 
 
Chiara Nucera
 
 
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Fuocoammare, unico film italiano in concorso al Festival di Berlino 2016, è nientemeno che un documentario sulla problematica e scomoda situazione che vive giornalmente l’isola di Lampedusa nel Mar Mediterraneo. Migliaia di profughi cercano la salvezza, rifugiandosi su questa piccola isola. A bordo di improbabili navi o traghetti, famiglie in fuga dal proprio paese di origine spendono cifre assurde per cercare di sfuggire a morte certa, ignare del fatto, che una probabile e mascherata dipartita è proprio lì davanti a loro. Meraviglioso e lucente mare, che ha la doppia valenza di portatore di vita e di tragedia. Blu profondo, luogo nefasto e tomba di speranzosi esseri umani alla mercé dei mercanti di uomini. 
 
Di tutto questo, Gianfranco Rosi ha deciso di farne un documentario. Accolto con il favore della critica della Berlinale, è stato decretato il vincitore di questa sessantaseiesima edizione. Di contro, a mio parere, il risultato dell’opera filmica è riuscito solo in parte. A differenza del premiato Sacro GRA (Leone d’oro a Venezia nel 2013), dove l’umanità nell’analizzare la vita delle persone ai margini era palpabile e creava vere emozioni, in Fuocoammare questo non è presente. Porta l’occhio dello spettatore su quello che non conta. Lo obbliga a focalizzarsi su immagini che non creano una vera empatia, ma ti costringono ad assistere ad un dolore vissuto solo in superficie e non nelle viscere.
 
Rosi ha curato anche la sceneggiatura e la fotografia di questo singolo, ma globale dramma. Quello che vediamo sullo schermo è la testimonianza di una sciagura accaduta a 20 miglia dalla costa Libica e il normale ritmo della vita di ogni giorno di una famiglia di lampedusani. Occhio puntato su un ragazzino (Samuele Pucillo, che interpreta se stesso), che comincia l’avventura della sua vita immerso in un mondo incontaminato e lucente. Impara i primi armamenti del pescatore, che sarà il mestiere che farà da grande, senza non poche difficoltà legate alla sua giovane età. 
I bambini, in questo paradiso, giocano e guardano al mondo senza pensare a quelle acque, che hanno davanti tutti i giorni, come ad un luogo di morte. Ci sparano contro con dei simbolici movimenti delle braccia senza sapere che c’è un filo diretto, che unisce quei giocosi spari e il fuoco che scaturisce in alto mare.
Samuele oltretutto ha un occhio pigro. Metafora perfetta, che ci porta a pensare al nostro modo di vedere la situazione di Lampedusa.
 
Parallela alla vita di Samuele troviamo quella della comunità, che prende il suo completo giovamento dal mare. Ci si aspetta tutto da quelle acque. Ci si immerge e si lascia che la vita marina venga all’uomo, senza quasi costringerla a farlo. In antitesi con quello che per i profughi significa e procura: un sudore tannico di corpi aggrovigliati su di una bagnarola decadente prossima alla caduta. Questi due mondi non sono pressoché mai a contatto, lì separa una voragine che porta il disequilibrio in quest’opera. Vi è estenuate massimizzazione nel dividere vita e morte, che sono le due facce opposte della stessa moneta. Non possono essere scisse. I mondi appena descritti sembrano far parte di due universi lontani lontani. L’unione è obbligatoria e fondamentale e qui latita. Solo nella figura del Dottor Pietro Bartolo, il medico che soccorre i profughi disidratati, ustionati e quasi morti, troviamo i veri momenti significativi di Fuocoammare, vera soggettiva e punto di unione tra gli isolani e i profughi. 
 
Fuocoammare, che è politico a prescindere e dove non ci sembra il caso di addentrarci, ha comunque il pregio di mostrarci la realtà complessa che vive l’isola di Lampedusa. Le immagini sono ben curate attraverso una fotografia sempre oscura e filtrante nei momenti che contano. 
Una scena che mi pone una domanda frequente nella mia mente è questa: il ricucire o il rammendare i corpi e le menti è veramente così semplice come riesce ai due ragazzotti quando giocano a fare la guerra ai dei malcapitati fichi d’India? Perché distruggiamo per poi metterci una pezza? E’ l’assurdo gioco che porta una sopravvivenza sterile ai sopravvissuti e anche ai noi, che proprio non mi dà pace.
 
David Siena
 

Midnight Special. Berlinale 66

Venerdì 26 Febbraio 2016 10:55
Midnight Special è la storia di un ragazzino fuori dal comune. L’estraneità del suo essere e quello che potrebbe significare fa gola ad una setta religiosa ed ai detective del governo. Nasce così un road movie, incentrato sulla fuga, che vede il padre Roy (Michael Shannon, L’uomo d’Acciao – 2013) proteggere il figlio Alton ( Jaden Lieberher, St. Vincent - 2014) e i suoi super poteri da queste incombenti minacce. Con l’aiuto dell’amico Lucas (Joel Edgerton, Warrior – 2011) e dell’ex moglie Sarah (Kirsten Dunst, Melancholia – 2011) porteranno il bambino in luoghi sicuri in attesa che qualcosa di speciale dia un senso all’intera vicenda. 
 
Il primo film non indipendente realizzato da Jeff Nichols sbarca alla Berlinale 2016 convincendo critica e pubblico. Si fa notare anche per essere l’unico lungometraggio di vero ed americano intrattenimento. Dichiaratamente ispirato ad un filone di film anni 70’ ed 80’: Starman di John Carpenter, Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T. l'extra-terrestre di Steven Spielberg. A mio parere simile in molti aspetti anche al The Abyss (1989) di James Cameron, nel suo saper istintivamente incantare.
 
Midnight Special è parente stretto, nonché l’evoluzione e la maturazione, dei precedenti lavori di Nichols: Take Shelter e Mud. Racconto semplice dai toni mai esagerati. Nella coerenza narrativa il suo asso vincente. Sceneggiato dallo stesso regista, che non rinuncia proprio nel proporci un cinema misterioso, ancora una volta azzeccando pienamente l’atmosfera, nella quale lo spettatore aspetta trepidante l’evoluzione degli avvenimenti. La pellicola ha una propria integrità drammatica ed emotiva di genere.   Attraverso contaminazioni shyamalaniane, l’autore ci fornisce solo le scorze del frutto di una storia già in movimento. Insufficienti granelli di sabbia che non riescono a comporre il castello. Ci offre qualcosa in ogni sequenza per poi essere in grado di entrare nell’altra, senza mai decifrarle completamente. Indubbio talento di Nichols per la suspense. Nel suo essere indecifrabile il film ha dei piccoli punti deboli nella collocazione dei personaggi, forse troppo figlia del caso e in qualche déjà vu legati a film del passato.
 
Intrigante è l’uso di toni mitologici. Attraverso la visione idealizzata e messianica del bambino, legata sia alla religione che alle presenze aliene, l’autore evidenzia la sua propensione a credere in qualcosa che ci salvi e che ci porti beneficio. Verso una salvezza.
Il tema dell’avvicinamento e dell’attesa ricorda proprio Incontri ravvicinati del terzo tipo. Un film, improntato anche, sulla fuga dall’opprimente realtà del quotidiano e dalle sue paure. Midnight Special incontra anche una parte di E.T., non quella legata all’infanzia, ma quella dei legami.
 
Jeff Nichols, che ha trovato in Michael Shannon il suo attore feticcio, lo omaggia dandogli il nome di Roy, che fu di Richard Dreyfuss proprio negli “Incontri ravvicinati” di Spielberg. La prova dell’attore statunitense risulta credibile e resa vigorosa da quelle espressioni di cuoio, caratteristica dei suoi personaggi. Anche l’intero parco attoriale sopra menzionato non sfigura, garantendo e confermando il mood del film.
 
Consigliato agli amanti del thriller e non solo. Tra le righe troviamo amore e senso della famiglia, che d’altronde sono i capi saldi della cinematografia di Nichols, qui completamente realizzati. In più, analizzando la sua maniera di fare cinema e di riflesso la sua psicologia, possiamo affermare che il regista dell’Arkansas ha paura quando di avvicina la notte, momento dove tutte le sue paure vengono a galla. Timori reconditi dell’ignoto e del buio assoluto. Il mondo in cui viviamo non è un luogo sicuro. Deve esorcizzare queste paure e lo fa attraverso i suoi film, deliberatamente dando forza alle unioni tra gamme, tra consanguinei. Sicurezze che lo aiutano a credere in qualcosa di buono oltre il grande salto. E questo ignoto distintamente buonista se lo immagina svilupparsi in un giorno qualunque, in una speciale mezzanotte, dove quelle paure svaniscono concretizzandosi in una speranza.
 
David Siena

L'avenir. Berlinale66

Domenica 21 Febbraio 2016 14:23
L’Avenir racconta la storia di Nathalie (Isabelle Huppert, La Pianista – 2001), donna affermata che insegna filosofia in una scuola di Parigi. La sua passione la porta a vivere una vita piena e movimentata. E’ sempre indaffarata tra i suoi libri, che sapientemente costruisce assaporando il piacere di trasmettere la voglia di riflettere, e la sua bella famiglia, composta dal marito Heinz (André Marcon, Marguerite – 2015) e da due splendidi figli. Ha spazio anche per consigliare un suo ex-alunno e per accudire l’eccentrica e depressa madre (Edith Scob, Holy Motors – 2012), che in ogni momento la chiama con delle richieste bizzarre. Il trascorrere del tempo è impostato sulla modalità mezz’età=raggiungimento della serenità ed il matrimonio sembra essere l’unica cosa non in movimento nella sua vita. Come si può interrompere la quotidianità? Con la scoperta che il marito la tradisce e che è pronto per lasciarla. Ora, dopo questo crack, Nathalie deve rimettere mano alla sua vita, ritrovando un’inaspettata libertà, che non sempre è sinonimo di felicità.
 
Things to Come, titolo in inglese stampato sulla locandina, racconta proprio i mutamenti della vita, quello che cambia ed il modo in cui noi esseri umani riusciamo ad adeguarci. 
Diretto dalla promettente regista francese Mia Hansen-Løve, l’Avenir si porta a casa dalla Berlinale 2016  l’Orso d’Argento per la miglior regia. La giovane autrice d’oltralpe cura anche la sceneggiatura ed aiutata dalla ferrea maturità della sua protagonista Isabelle Huppert, confeziona un film intimista sulle assenze e sull’auto consenso. 
Movimenti di macchina inquieti e vivaci, come la sua protagonista, sia alternano a riprese più morbide e lineari. Tecniche che rendono il senso di apatia e lo spirito di rivalsa leggibile allo spettatore. Si cammina sempre su un selciato che sta in mezzo tra questi due stati d’animo. Lo si percorre con rigore narrativo, equilibrando il tutto con una deliziosa ironia.
Viviamo tante vite nella vita stessa, la regista riesce a farle salire in superficie e a farle affondare senza mai cadere nella retorica.
 
Insegnamenti, rivoluzioni ed elaborazioni del lutto fisico, ma anche sentimentale attraversano l’immaterialità del tempo e sanciscono la crescita della protagonista. 
Che rinasce quando diventa nonna, sprofonda davanti ai libri condivisi con il compagno di una vita ed assapora un’inaspettata pienezza quando redarguisce il suo ex-allievo Fabien (Roman Kolinka). Il giovane vede nell’anarchia la via della rivoluzione. Nathalie afferma che la vera rivoluzione è allevare dei figli e sapergli dare le coordinate per la giusta via. 
Lascia andare anche il gatto della madre morta da poco, eliminando così affanni e sensi di colpa, lanciando metaforicamente lo spirito della madre verso una libertà, che non ha mai avuto.
 
L’Avenir è senza dubbio un esempio di come il cinema francese non rimane mai al palo. Legge perfettamente i tempi e grazie alla sua grande versatilità ed apertura al mondo offre un prodotto di alto livello. La Francia dopo i due attentati terroristici subiti, vive un clima particolare. E’ ferita, ma capace nella tragedia di tirar fuori la sua anima, senza mai arrendersi. Un po’ come la nostra protagonista, una gigantesca Isabelle Huppert, colonna vertebrale della pellicola.
 
David Siena
 

Cannes69. Toni Erdmann

Mercoledì 25 Maggio 2016 09:47
Tedesco di nascita, ma non per questo freddo come un ghiacciolo, Toni Erdmann scalda come una fiamma ardente, la stessa che porta calore, allegria e un po’ di sana bontà sulla Croisette. Sempre pressoché privo di comicità, il palinsesto del concorso ufficiale, accoglie il film di Maren Ade a braccia aperte, uscendo così dalle convenzioni, proprio come il personaggio che presta il nome alla pellicola. Il modo di vedere il mondo di Toni Erdmann è alla base dell’interpretazione del film.
 
La regista e sceneggiatrice Maren Ade, che aveva curato il lodevole Alle Anderen, Orso d’Argento alla Berlinale 2009, ambienta questo lungometraggio in una Bucarest lavorativa. Il colletto bianco Ines Conradi (Sandra Hüller) è alle prese con un grosso affare. Impegnatissima in questo progetto ha poco tempo per gli affetti e la famiglia. Il padre Winfried (Peter Simonischek), agisce pesantemente da genitore, ma con un fare anticonformista al quadrato si trasforma in Toni Erdmann, cercando così di distrarla portando il suo grado di stress a livelli accettabili. Questa specie di Patch Adams teutonico (che è la versione ironica di Mr. Hyde) si trasferisce per un mese nella capitale rumena e nel momento che l’affare della figlia prende una brutta piega, il suo essere ed il suo agire virerà dal parallelo del disturbo al meridiano del conforto psicologico. Nasce così un sentito ritratto di famiglia fuori da ogni schema, che diverte con scene veramente esilaranti.
 
Di film che ci mostrano come si possa vivere sbattendosene delle convezioni né abbiamo già visti parecchi. Quello della regista tedesca ha quel qualcosa di speciale che è riassumibile proprio nel mostrare gradatamente, con un chiaro andamento imperfetto della narrazione, come la scorrettezza (del padre) possa agire da propulsione per abbattere le paure e le ansie (della figlia). Timori di accentuata diversità chiusi nell’infondata convinzione di dover per forza qualcosa a qualcuno. Di solito quel qualcuno fa parte della propria stirpe, qui assistiamo all’originale snaturamento di quella filosofia psicoterapeutica che costringerebbe i figli ad uccidere la figura dei genitori. Il fare del padre demolisce positivamente questa teoria e la povera Ines ne trova quell’inaspettato giovamento che le cambierà il modo di vedere il mondo. Se in un primo momento lei fa di tutto per far parte della società, adeguandosi ad essa, poi uniformerà il suo pensiero a quello di Toni, mai pronto a sottostare a filosofie ingannatrici e portatrici di obblighi morali.
 
Accostabile per certi versi ad Idiots di Lars von Trier, il lungometraggio trova il suo trascinate profitto nei due attori protagonisti. I 162 minuti del film forse risultano essere eccessivi. Il burlone Erdamm si rende conto molto prima di non aver bisogno di una figlia sostitutiva. I due sono capaci di condividere anche una serata a base di droga. Primo vero punto di condivisione attiva tra padre e figlia. Riflessione imposta allo spettatore che non ne rimane indignato, ma che ne percepisce la forza glorificando così la potenza del gesto.
 
Toni Erdmann potrebbe uscire dall’edizione 69 del Festival di Cannes con qualche prestigioso premio perché è un film di sentimento, nel vero senso della parola, buono come una fetta di pane con sopra la nutella. Costruito per rendere indistruttibile l’enorme importanza della famiglia. Attraverso degli scherzi “bulgari” riesce a modificare radicalmente l’iniziale atmosfera di bizzarria trasformandola in una concreta consapevolezza del viver bene.
 
David Siena
 

Ma Loute

Sabato 21 Maggio 2016 21:53
Nella baia dove il fiume Slack incontra il mare della Channel Coast vive una famiglia dedita alla pesca di molluschi: i Bréfort (Caroline Carbonnier, Thierry Lavieville). Durante le estati devono condividere questo splendido luogo con degli aristocratici: i Van Peteghem (Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrice Luchini, Jean-Luc Vincent). Quest’ultimi soggiornano in una decadente villa, che sovrasta dall’alto tutta la baia. Siamo precisamente nel 1910 quando una serie di illustri sparizioni sconvolgono la vita di questa ridente località marina. Gli ispettori Machin e Malfoy arrivano sul posto per investigare sulla scomparsa dei turisti. Trovano una buona accoglienza da parte della comunità del luogo, disponibile a collaborare. Ma Loute (Brandon Lavieville), primogenito dei Bréfort e Billie (Raph), la giovane ragazza dei Van Pateghem, istaurano un rapporto d’amore, che sembra spezzare ogni vincolo sociale. Insieme aiutano gli investigatori   in modo da ridare alla baia quella tranquillità ormai perduta.
 
Con un impianto da black-comedy, l’ultimo lavoro di Bruno Dumont (Humanité e L’età inquieta tra i suoi film più riusciti) sbarca sulla Croisette strappando copiose risate in linea con il consenso. Ma Loute ha un sceneggiatura originale scritta dallo stesso regista. Insolito abbinare il nome di Dumont ad un lavoro che non sia un adattamento. L’autore francese predilige trasporre dai romanzi, usandoli come base per poi riadattarli a proprio piacimento. La sua peculiarità sta nel donare alla narrazione una propria anima artistica. Anche Ma Loute ha un cuore che batte di arte propria. Prendendo i fondamenti dell’arte dei primi del novecento: eliminazione della prospettiva, modifica del senso di ordine e proporzione e uso di immagini fantastiche che scavallano nel grottesco e nell’assurdo, dirige un film che si allontana da qualsiasi tipo di realtà. Realizza così una versione aggiornata di quei principi, usando una new Famiglia Addams (I Bréfort) abbinandola ai personaggi di Dark Shadows (I Van Pateghem). Così facendo ripropone ed attualizza l’arte dell’epoca, donando al lungometraggio delle figure anti convenzionali, che gridano la loro diversità in salsa pop. Il fine ultimo non è giudicare, ma raffigurare con calda schiettezza la vita dei suoi strambi personaggi, anche quando sono mostri che mangiano (letteralmente) altri mostri.
 
Ma Loute, che ha già un’uscita italiana, esattamente il 25 agosto, gioca e si mette inizialmente dalla parte della classe operaia. I benestanti cedono ai colpi inflitti dalla bizzarra famiglia di pescatori, che si prendono gioco di ogni istituzione possibile. Arriva però anche un punto di unione: il rapporto che galleggia in acque tempestose tra Ma Loute e Billie, che vede dei moderni Montecchi e Capuleti obbligati a dialogare ed aiutarsi per sopravvivere. Il tutto si chiude e si riallinea quando la provvidenza eleva (materialmente) i Van Pateghem verso un’esoterica e grottesca grazia divina. 
E’ qui che Dumont calca la mano e allunga (di minutaggio) il suo lavoro, con un’esasperazione nella caratterizzazione dei suoi personaggi, facendo così ridondare dei concetti ormai chiari.
 
In splendida forma Fabrice Luchini, fresco vincitore della Coppa Volpi all’ultimo Festiva di Venezia per la sua prova nell’Hermine, ci regala un protagonista, che ad ogni battuta non smette di stupire con il suo scanzonato e borghese atteggiamento tendente al ridicolo. Anche il resto del cast è diretto con passione e non manca di divertire con esilaranti “comiche”.
 
Peccato proprio per il perseverare ad ingrandire, da parte del regista d’oltralpe, un già delineato universo. Palesemente compiaciuto davanti allo specchio delle sue creazioni, Dumont non vede che il proprio riflesso riempie ogni centimetro dello schermo rendendo il tutto troppo ingombrante.
 
David Siena
 

Berlinale66.While the women are sleeping

Venerdì 19 Febbraio 2016 10:55
Alla lavorazione di While the women are sleeping prendono parte figure provenienti da parti del mondo completamente opposte. Non solo geograficamente, ma soprattutto ideologicamente. Le diverse mentalità e culture è possibile pensare che siano complicate da far collimare o amalgamare in un modo tale da realizzare un opera narrativamente e stilisticamente efficace. Tratto dal libro del visionario scrittore spagnolo Javier Marias, diretto dal talentuoso regista cinese con istruzione americana Wayne Wang (Orso D’Argento nel 1995 per Smoke) ed interpretato dal magnetico artista giapponese Takeshi Kitano (Zatoichi – 2003), la pellicola è un cocktail dai sapori forti e speziati, che arriva dove non si pensava potesse arrivare. Riesce a portare in superficie tutte le sue dissimili anime. Il risultato è un film anomalo e sperimentale che trasporta verso il finale, forse l’unica parte meno riuscita, intrigando lo spettatore che vive nella drammatica suspense svariate viscerali emozioni tutte d’un fiato. Morboso, intrigante, voyerista, infedele e perverso, il film di un rinato Wayne Wang, si presenta alla Berlinale 2016 nella categoria Panorama sorprendendo con i suoi esseri umani evasivi e quasi imprendibili, alle prese con competizioni avverse, inquietanti ed anche un po’ maligne.
 
Durante un periodo di vacanza in una località marina, lo scrittore in crisi di risultati Kenji (Hidetoshi Nishijima, a Berlino anche con il malvagio Creepy di Kiyoshi Kurosawa) e la moglie Aya (Sayuri Oyamada) incontrano nel resort dove alloggiano una strana coppia. La cosa che salta subito all’occhio è la notevole differenza di età tra Sahara (Kitano) e la sua giovane compagna (Shioli Kutsuna, vista in The Assassin di Hou Hsiao-hsien – 2015). L’incontro avviene ai bordi della piscina dell’albergo, dove gli sguardi di Kenji diventano sempre più insistenti. Questa curiosità lo porta a fare delle ricerche in città per scoprire qualcosa in più su questo insolito legame. In un ritmo cinematografico tipicamente orientale, dove i fatti vengono descritti come lo sciogliersi di una candela, prende vita l’ipotesi che l’indecifrabile Sahara sia frutto della mente del romanziere. Sagace pretesto per creare una situazione che sia in grado di rinvigorire il rapporto con la moglie, che sembra essere in una fase di stanca. 
 
Wayne Wang, che deve il suo nome al grande John Wayne, ci regala una versione moderna del mito di Lolita. E lo fa addentrandosi in un mondo oscuro, come aveva già precedentemente raccontato nel suo The Center of the World del 2001. La drammaturgia, scandita in episodi giornalieri, vira lentamente le sue intenzioni erotiche portandosi su atmosfere thriller ad effetto. Peccato, come già accennato in precedenza, che il finale non ci consente di avere una somma chiarezza degli avvenimenti. Questo interrompe bruscamente la visione di un ottimo film, che nei suoi punti di forza ha un’accurata messa in scena. L’aspetto dell’immaginare ad occhi aperti qualcosa che non è reale è formalmente ben concepito, tanto da riuscire a non farci percepire il passaggio dal mondo reale a quello immaginario. Non vengono usati particolari artifici, ma una forma compatta, sorretta da un’elegante estetica. 
 
Il trascinatore di quest’opera stravagante è l’indomabile Takeshi 'Beat' Kitano. La sua ultima comparsa da attore risale a 12 anni fa. Qui ci regala un’interpretazione da maestro, mettendo sullo schermo un ambiguo protagonista. Il suo saper essere borderline, in un misto tra normalità e pazzia è stupefacente. Una sorta di Virgilio per il regista, che gli permette di valorizzare al meglio le ossessioni ed i desideri repressi, elementi focali della narrazione.
 
Fulmine a ciel sereno nel Panorama festivaliero di Berlino, While the women are sleeping rivela la sostanziale differenza tra amore e devozione, con l’aiuto di un suo dell’immagine molto stiloso. Venerazione che si spinge oltre ogni limite, in grado di creare universi onirici figli di terremoti interiori. Consigliato a chi ama il Wayne Wang più dark rispetto a quello dolce e filosofeggiante.
 
David Siena
 
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