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Visualizza articoli per tag: ilaria mainardi

Come un tuono

Sabato 06 Aprile 2013 14:44

Tennessee Williams non si chiamava davvero Tennessee Williams. Il nome con il quale lo conosciamo tutti era lo pseudonimo di Thomas Lanier Williams.

Così la sua America, filtrata dalla lente del natio Mississipi, profuma di distillati clandestini e fieno, di drammi complessi e compressi all'interno famiglie allargate, di figlioli improdighi, di sesso, consumato in fretta, per sbaglio, per forza. Nulla è mai ciò che dovrebbe essere, per convenzione, imposizione sociale, opportunità. Ognuno rincorre ciò che non sa e fugge dalla stessa cosa, in un gioco impari con una gravitazione cinica e beffarda.

Resiste una traccia indelebile del suo melodramma non sentimentale nelle viscere più profonde dell'America contemporanea, quella dei nipoti privilegiati, segnati tuttavia dalla stessa primigenia condanna, vagabonda e disperata.Cianfrance, un passo prima del suo meraviglioso “Blue Valentine”, con l'acceleratore della moto truccata, premuto sulle corde del patetismo senza lacrime – vale l'unica straziante eccezione di Gosling – narra, in fondo, un'angoscia putrida, sudata, analoga a quella del drammaturgo di Columbus.

Un'unica sorte, oltre i pini, per chi è condannato dalla storia dei padri a correre più veloce del destino, a innalzare Dioniso sopra Apollo: epilogo infausto per gangster romantici e impavidi fuorilegge. Eppure lo sprovveduto, fragile stuntman Luke, Luke il Bello, come Johnny, ma senza vendetta, solo la voglia di garantire al proprio figlio un futuro migliore del suo, non è un nemico pubblico n.1. E' uno sbandato qualunque, in un vicolo qualunque dell'America del ventunesimo secolo, in una casa uguale a mille altre, con la cornetta del telefono, stretta nella mano sbagliata.

Allora, come adesso, conta chi spara per primo o chi ha la fortuna di dichiarare l'ordine più comodo, accettabile, delle cose, ma la tragedia è soltanto una chiazza di sangue dietro la testa, da pulire presto, da dimenticare, ancora prima, in qualche scaffale polveroso di un dipartimento di polizia di provincia. Allora, come adesso, lo spettro di Banquo, del senso di colpa, affiora impietoso per vittime e carnefici (quali, poi?), dentro la cornice perfetta di un ritratto in uniforme o nel ritaglio fotografico di una felicità particellare, custodito come la reliquia di un malum culpae non emendabile.

L'ordine (in)naturale del potere costituito che tutto sovrintende, corrotto e ipocrita, resta il solo possibile perno di una ciclicità bara, sembra dirci, con amarezza, il regista statunitense. I figli viziati, ma forse parimenti soli, sul podio di una vittoria annunciata, quelli orfani, abbandonati anzitempo, di nuovo in sella a una moto, a cercare un destino che non potranno che trovare, di nuovo e sempre, al di là dei pini.

 

Ilaria Mainardi 

 

Gone Girl - L'amore bugiardo

Domenica 21 Dicembre 2014 12:42
In principio fu il dubbio, e, caso fortuito, un paio di enormi dubbi danno avvio a Gone Girl – L’amore bugiardo, il cui titolo italiano, lo stesso del libro di Flynn Gillian dal quale la sceneggiatura è tratta, rischia di spiegare troppo e, allo stesso tempo, di fuorviare lo spettatore.  
Infatti, quando ho cominciato a leggere, nel post-visione romano, per i fortunati che poterono assistervi, che stavamo parlando di un capolavoro senza pari, il miglior Fincher di sempre, le cui intricate vette drammatiche lo rendevano assimilabile addirittura a Vertigo, mi sono irrigidita un bel po’, a causa di una certa tendenza critica contemporanea a bollare come masterpiece una quantità statisticamente troppo alta di lavori.
Ferma sull’irrigidimento di cui sopra, ho deciso di leggere il libro dal quale il film di Fincher è tratto e l’ho trovato letterariamente non eccelso, per quanto assai godibile, come lettura disimpegnata. Lo spunto è interessante, curioso, ma accompagnato da una scrittura a tratti psicologicamente semplicistica, con alcuni personaggi e snodi, o troppo manichei o schiacciati dalla mera funzionalità narrativa: un nodo scorsoio che si stringe sempre di più intorno al collo di Nick, almeno fino al repentino, troppo, colpo di scena. 
Poteva Fincher fare il miracolo? Poteva far diventare una storia di provincia a tinte fosche un saggio, invece, sulla foschia dell’anima, americana o meno che sia? Amy la stronza poteva diventare altro da uno stereotipo e Nick, lo scemo fedifrago che si dichiara – non qui, per fortuna – innamorato di una che lui stesso definisce, quasi testualmente, una bambola gonfiabile vivente, pure? Ebbene sì, a mio avviso David Fincher ha fatto il miracolo, realizzando quello che ritengo il più bel film dell’anno insieme a Maps to the Stars.
Gone Girl è (bello) come Millennium, altro “thriller” umanista che della trama thriller, in senso stretto, se ne frega ben presto.
E sfaterei anche subito l’accusa di misoginia, da più parti mossa, riguardo gran parte della produzione dell'autore statunitense.
Il fatto, per come la vedo io, è che siamo nella zona di The Truman Show, e gli attanti sono Barbie e Ken. Ma non Barbie e Ken perché bambolotti disumanizzati, tutt’altro. Amy e Nick sono umanissimi, veri e concreti, ma filtrati dalle tinte pastello o rosso sangue di uno show che ingloba tutto e tutti. E lo sono sempre, prima, durante e dopo i fatti, in una creazione straniantemente biomeccanica: nelle immagini leziose di Mitica Amy, sublimazioni di una nevrosi, nella casetta rosa antico (e celestina, quella del padre di lui), negli amplessi di legno e con gli abiti addosso, nella gestualità flessuosa, da ballerina carillon, di lei, o incespicante e rigida, da gaffeur quale in effetti è, di lui. Sono l’uomo e la donna per i quali i quindici minuti di celebrità sono diventati paradigma di vita, non per scelta, almeno in parte, ma in quanto esseri partoriti nella e dalla società dello spettacolo: finta, malevola, esteriore, manipolatoria. Come Amy, come loro. 
I coniugi e i personaggi che contornano le loro esistenze in salsa cocktail entrano e escono dall’inquadratura, spesso, come se si trovassero su un palcoscenico teatrale, in lotta per contendersi una battuta più lunga, da declamare sul proscenio, restii a tornare dietro le quinte, a meno che non lo possano fare in uno scroscio di applausi: “Elvis ha lasciato il Missouri”.
Costantemente consapevoli di essere inquadrati o ascoltati, solo talvolta capaci di usare l’immagine per inventare mondi, costruirsi alibi, apparire migliori di quanto non siano. E se invece fosse l’immagine a usarci, sempre?
Amy sembra conoscere la risposta, ma solo al suo livello di cerebrale calcolatrice, e infatti nulla può contro la sete di sangue degli squali-ladri che incontra durante la latitanza forzata. Invece la risposta la sa Nick che le mani se le sporca meno, in senso proprio, ma non è meno infido, violento, anche, in un finale che nel libro assume quasi i toni di un armistizio moralista, prima, e di una dichiarazione di vittoria su tutti i fronti di Amy, nelle ultime battute. Qui no, qui i mostri non si giudicano e non vincono, piuttosto si alleano, creandone altri, scovandoli nella loro bonaria apparenza provinciale. Nello splendido lavoro di Fincher, il cui contributo alla sceneggiatura della stessa autrice Flynn è sostanziale, almeno nell’esito, l’ultima parola spetta a Nick, nel nero dell’immagine, solo apparentemente già svanita, ed è una dichiarazione esplicita di complicità: finché morte non li separi.
 
A margine: splendida Rosamund Pike, nel ruolo mattatore, o così il suo personaggio crede che sia, ma, tenuto conto dei limiti performativi che più volte sono stati osservati, la mia sorpresa è stata Affleck, sfumato, dolcemente goffo, mascalzone e ironico al punto giusto, capace di lavorare, cosa non facile, in senso anche metacinematografico  (cosa il pubblico vuole vedere, da sempre, in Ben Affleck se non il bisteccone bonazzo e un po’ impacciato, al di là dei notevolissimi meriti di regista e sceneggiatore?). Per me, è quasi amore.
 
Ilaria Mainardi

American Sniper

Sabato 03 Gennaio 2015 14:00

Philip Zimbardo è un ricercatore, ormai anziano, che, nel 1971 mise in piedi un esperimento psicologico, presso l’Università di Stanford, divenuto infatti celebre come l’esperimento di Stanford.

Gli sperimentatori misero un annuncio sul giornale per reclutare volontari. Fra tutti coloro che risposero all’annuncio venne selezionato un gruppo di 24 ragazzi, tutti maschi, quelli ritenuti maggiormente equilibrati e meno inclini a comportamenti aggressivi. Vennero collocati in un ambiente che riproduceva quello di una galera e divisi, in modo casuale, in due gruppi: detenuti e guardie, ciascuno con una propria divisa.
L’esperimento andò ben oltre ciò che Zimbardo e i suoi volevano dimostrare (il processo di deindividuazione) e dovette essere interrotto, dopo alcuni giorni, per la brutalità di alcune guardie, in particolare una di queste, soprannominata John Wayne.
La guerra, per Clint Eastwood, è affine, in fondo, all’approccio situazionale di Zimbardo, quello secondo il quale il contesto è tutto e l’uomo, con la sua presunta autonomia decisionale, nulla, o quasi. Lo stato eteronomico in cui versano i combattenti, in un ambiente caratterizzato praticamente solo dalla presenza della guerra, senza che vi sia nulla di riconoscibile al di fuori del campo di battaglia, è indotto da dinamiche di gruppo che la psicologia conosce benissimo. 
Specialmente in situazioni estreme, come quelle belliche, è il gruppo a definire regole alle quali attenersi e modalità: la sicurezza, la coesione come alibi della responsabilità individuale, la scarica elettrica permanente.
E dunque, senza prestare troppo il fianco a critiche ideologiche, quasi sempre un po’ pretestuose, Clint prende un bovaro che si crede cowboy, lo piazza un po’ davanti alla tv con tutta la sua diretta perenne, la sua retorica patriottica ecc. ecc. e lo fa volare, dopo doveroso addestramento, non tanto diverso da quello ricevuto dal padre, nel pieno della guerra irachena. E comincia il videogioco, dove fa più punti chi fa saltare in aria il maggior numero di persone, mentre qualcun altro, dal quartier generale, controlla, con il joystick, le operazioni e si rammarica il giusto se qualche pedone va perduto. L’importante è sempre e solo il punteggio finale. E infatti i pedoni marciano, senza naturalmente sapere dove e perché, con in tasca un telefono rudimentale o un anello sul quale si è riusciti a spuntare un buon prezzo, procedono in ordine crescente di importanza, alcuni più sacrificabili di altri, tutti riuniti in una rivoltante famiglia che non ha ragione di esistere senza un nemico oggettivo. 
I nemici, dal canto loro, sembrano invece non esistere: la loro voce non c’è o deve essere tradotta per rendersi comprensibile. I nemici sono i cattivi che, nel videogioco, vanno semplicemente abbattuti in una gara di machismo (chi piscia – o spara, fuor di metafora – più lontano) che fa basire circa le possibilità di sopravvivenza della nostra specie. 
Qualcuno muore, carne da macello, di qui e di là, con soldati che sanno sempre meno cosa stiano cercando e bambini ai quali va di lusso se riescono a posare per tempo i lanciarazzi. 
Poi si spegne la playstation e il rumore sordo degli scoppi risuona negli orecchi dei reduci che vedono, nella tv ormai spenta, solo il riflesso del proprio volto anonimo, uguale a quello di tutti gli altri, anche dei presunti nemici. Allora ci si accorge che l’unico nemico sta nell’insensatezza di ogni guerra, nelle macerie umane che lascia in giro, grumi dolorosi e silenti che, incapaci di comprendere/reagire, cercano, nella retorica del macabro amarcord, una via di salvezza, oppure sparano, nel buio della coscienza post-traumatica.
E come sempre, in questi casi, le bandiere servono solo ad avvolgere le bare. 
 
Se dal punto di vista strettamente cinematografico, Eastwood involve in una narrazione troppo frammentaria (e con un montaggio discutibile), il messaggio, filtrato attraverso la coralità delle voci dei commilitoni, e non delegato al solo protagonista, piuttosto rozzo e miope, poco autoconsapevole, se non in rari momenti, resta fieramente antibellico, come la scena della tempesta di sabbia, con la sua indotta cecità, esemplifica: una mano è una mano.
Si sarebbe potuto dire di più e dirlo meglio.
Si sarebbero potuti costruire caratteri meno granitici, soprattutto quelli che restano, che attendono, specchi ancora più impotenti: penso alla moglie del protagonista, le cui uniche linee di comunicazione sono il pianto o la battutaccia. Si sarebbe potuta creare una sinfonia di racconti che non rimandassero unicamente all’american dream infranto in un nightmare a occhi aperti, nel quale dio non si sa dove sia (certo non nella bibbia, tenuta sul petto, neppure utile a fermare un proiettile), la patria ti manda a crepare e la famiglia, anche se amorevole, non basta a salvarti. Si sarebbe potuto evitare il bullet time, abbastanza straniante o, per meglio dire, fuori luogo, in un contesto simile, a meno di non tenere davvero per buona l’estetica da videogame a cui accennavo prima, nel qual caso troverebbe il suo perfetto significato. Si sarebbe potuto, sì.
Tuttavia, al netto delle ipotesi, American Sniper resta un’opera dolorosa e affatto conciliante, più complessa della sua apparenza nazionalistica, da metabolizzare. 
 
Ilaria Mainardi

Ex Machina

Lunedì 03 Agosto 2015 14:27
Caleb, giovane e brillante programmatore, vince la possibilità di trascorrere una settimana nel laboratorio del fondatore dell'azienda per la quale lavora, Nathan, un ex bambino prodigio, creatore, in tenera età, del più frequentato motore di ricerca del web e adesso impegnato in un progetto semisegreto sulle intelligenze artificiali.
Quando giunge in questa sorta di rifugio antiatomico, asettico bunker isolato nella tundra norvegese, privo di finestre e con porte che possono essere aperte a seconda del “grado di expertise”, o meglio, in base ai privilegi di cui si dispone, Caleb scopre, via via con sempre maggiore consapevolezza, di essere il soggetto prescelto per una versione rivista e corretta del test di Turing: concretamente, interagirà con una donna-macchina, la splendida Alicia Vikander, che lui sa essere tale e che, col suo sembiante ibrido, glielo ricorda continuamente, contraddetta però da un atteggiamento che è umano, o che lo sembra. Il giovane informatico manterrà la consapevolezza di stare dialogando con una donna androide oppure meccanica e vis umana, filosoficamente sempre più convergenti, si confonderanno l'una con l'altra fino alla completa inestricabilità concettuale?
Mano a mano che la storia procede, come in un gioco di specchi, diegetici e allegorici, i rapporti tra i tre (più uno) protagonisti si complicano e le intenzioni di ognuno, reali, presunte, simulate, si disvelano. Forse...
 
E' vastissima la letteratura, anche cinematografica, sugli androidi e sulle intelligenze artificiali, tanto che se Alex Garland, esordiente dietro la macchina da presa, già sceneggiatore e romanziere, avesse voluto misurarsi con una “semplice” disamina sul rapporti uomo-umanoide, avrebbe dovuto senza dubbio fare i conti con celebri precedenti, talvolta iconicamente difficili da eguagliare.
Per fortuna dunque la strada scelta è stata un'altra, non meno impervia – a ciò si possono imputare le piccole sbavature della pellicola -  ma in un certo senso inedita, senza dubbio disturbante.
Più interessato a sondare i confini etici di un supposto postumanesimo scientifico che simula, per eccesso di ybris, la mistica cristiana del creazionismo, arrivando a proclamarsi esso stesso divino, più che alla fantascienza in senso stretto, il regista imbastisce un feroce gioco al massacro, caro al teatro novecentesco. Stringe i suoi interpreti, tre, come i superstiti nella stazione orbitante che fluttua su Solaris, apparenti emblemi della tripartizione platonica dell'anima, come pure delle istanze intrapsichiche freudiane e delle Critiche kantiane, ma in realtà tanto mossi e imprendibili da simboleggiare sovente nulla più che loro stessi, meravigliosamente veri, anche quando recitano il copione di una caccia tra gatti e topi che continuamente mutano apparenza ed essenza, in una struttura asfissiante e claustrofobica, contrapposta al fuori, un altrove verde, dal respiro quasi infinito, inafferrabile nella sua interezza.
Li fa muovere e parlare, osservandoli, anche durante i blackout elettrici, come Skinner con i suoi ratti, dà loro rinforzi positivi, elargisce punizioni, ciascuno operante, ma allo stesso tempo burattino di un gioco che trascende la possibilità umana di dominio. Colui che si erge a “deus” è la vittima designata di una debolezza umanissima che si chiama solitudine, il soldatino semplice che solo lo è sempre stato – e Nathan lo sa – dopo aver temuto o sperato, con noi, di poter divenire epidermicamente affine al proprio desiderio, tenta l'emulazione su un piano strettamente razionale, soccombendo per una ingenuità nella programmazione.
Il portato di sola, autentica umanità, diviene dunque, in apparente paradosso, la macchina, l'androide, la donna, colei che, potendo essere assemblata e dissemblata a piacimento da un dio-carceriere che non riconosce e che le imputa una colpa atavica, rivendica fino in fondo il diritto alla propria libertà, di arbitrio e non soltanto. Ava/Eva sceglie la pelle che vuole essere, fonde Anima e Animus, logos e eros, parla una lingua che è emozionale, infonde la vita, non più la meccanica esistenza, a un'altra come lei, una sorta di ombra che si aggira per il laboratorio di Nathan, geisha ballerina e serviente, che solo sul finire del film nasce nella comunione col proprio simile. In una scena che è foriera di morte e di vita allo stesso tempo, costretta in un claustrofobico corridoio, fotografato di bianco accecante, che rimanda a Tarkovskij, a Kubrick, Kyoko chiede e merita una compassione finalmente umana, in una lotta coreografata come in un macabro teatro dell'assurdo. Di fronte ai suoi occhi, Winnie si disseppellisce, la Prima Donna, che sempre è stata nuda, sceglie di vestirsi per uscire nell'Eden che è stato creato per lei. Se lo riprende senza bisogno di emendare alcun peccato originale. 
Mente, simula, si adatta. 
Si pensa libera e dunque lo diviene. 
Ma gli androidi sognano pecore elettriche? No, piuttosto incroci affollati (di ombre, diverse e identiche).
 
 
A margine: un trio di spettacolari interpreti impreziosiscono l'opera di Garland, scritta con eleganza e intelligenza. Oscar Isaac è uno dei più camaleontici interpreti della nuova generazione, tra i due, al massimo tre capaci di rendersi realmente irriconoscibili da una performance all'altra. Senza l'ombra del divismo maledetto e ostentato, recita, balla, canta, brutalizza, seduce a livelli difficilissimi da trovare. Chapeau. 
 
Ilaria Mainardi
 

Spectre

Venerdì 13 Novembre 2015 14:38
“Spectre” non è la copia-carbone di “Skyfall” e questo è un bene.
Il film procede sui binari del più marcato classicismo, senza però diventare mai stantio, prova ne è il primo lungo piano-sequenza a Città del Messico, durante El Dia de los Muertos.
I morti sono vivi, come recita la didascalia, e festanti calacas danzano, ignari del loro ruolo di preludio tragico.
Anche Bond è mascherato, e naturalmente accompagnato da gentil donzella, ma il suo volto scheletrito, dal quale emerge l'azzurro intenso degli occhi, è quello di un uomo che non ha bisogno di celarsi per banchettare con la morte.
I riferimenti ai Bond passati, ormai rivisti e corretti, piaccia o meno, nella faccia segnata e intensa, e nel fisico massiccio di Craig, rappresentano probabilmente il tentativo di riallacciarsi alla tradizione dell'agente con licenza di uccidere.
Dopo l'azzardo freudiano di Skyfall, film con una prima parte strepitosa e una seconda senz'altro potente, ma troppo debitrice, complice la fotografia cupissima di Deakins, qui sostituito da Van Hoytema, capace di tratteggiare con naturalismo il caldissimo e il freddissimo della luce, all'immaginario nolaniano dell'uomo pipistrello, Spectre rimette i tasselli al loro posto, non senza qualche intralcio narrativo o caduta di ritmo.
Bond, incredibile fenice, vero man of steel senza tema di kryptonite, deve vedersela con i tentacoli piovreschi della Spectre, guidata dall'enigmatico Franz Oberhauser aka Ernst Stavro Blofeld, uno che ha qualche conticino in sospeso con l'agente segreto, fin dalla più tenera età.
Lo interpreta Christoph Waltz in modo a tratti struggente, per il breve tempo scenico che gli è concesso. 
La cadenza leggermente enfatica della voce, in alcuni momenti della versione italiana, non inficia affatto la calibrata tensione del suo sguardo, quello di un uomo, non quello di un villain, termine banale e schematico che infatti l'attore austriaco detesta.
Ma, come Lynch ci ha insegnato, i gufi non sono quello che sembrano, e qualche insospettabile (o quasi) fa il gioco sporco anche nei pressi dell'MI6, capitanato, dopo la morte della M come Madre, dal Mallory di Ralph Fiennes, misurato e perfettamente in parte.
Tornano anche Q (Ben Whishaw, uno dei talenti più prodigiosi della sua generazione e non solo) e la deliziosa Naomie Harris, nel ruolo di Miss Moneypenny, più solerti a esaudire le richieste di James che quelle del loro diretto superiore.
E naturalmente ci sono le donne, diverse, almeno per un particolare che non si può svelare senza dire troppo della trama del film, da quelle alle quali l'immaginario bondesco ci ha abituati: Monica, basta la parola, fa fatica a doppiarsi – migliore infatti in inglese - ma è ugualmente una figura divina.
Il suo breve intermezzo, carezzato da una fotografia che, per contrapposizione tra gli scuri e i gialli-arancio, rimanda a un'Antonia Zarate di Goya e sottolineato, lentamente, dalla cura estatica che la M.d.P. tributa soltanto alle dive, segue la parte romana del film, una grande bellezza action che affresca di amore e rispetto mai cartolineschi la città. Lucia, questo il nome del personaggio, è statuaria, è pura presenza, appena scalfita dalla passionalità di Bond che la inchioda, la sfiora con le labbra, la indaga, nella pelle candida, e poi la contempla, bellissima e eterna, probabilmente salvifica.
La seconda figura femminile introdotta da “Spectre” gioca invece una partita completamente diversa e non potrebbe non essere così. 
Siamo dalle parti di Eva Green, la prima cosiddetta Bond girl dell'era Craig, l'unica realmente amata dall'uomo, più incline, come da tradizione, a intrattenersi fugacemente nelle alcove delle moltissime splendide fanciulle che incontra, che ai sentimentalismi. 
Si può pregustare persino, come già era successo con la Vesper Lynd di Casinò Royale, un retrogusto malevolo nella giovane dottoressa, dal nome proustiano, tutt'altro che succube al fascino da sciupafemmine dell'agente segreto. 
All'insegna delle omissioni è caratterizzata infatti la recitazione di Lea Seydoux, provocante, ma ambigua, magari complice: e se l'identità del vero deus ex machina della Spectre subisse un ribaltamento di genere?
O forse sono solo suggestioni, chissà.
Naturalmente, pur con tutti gli svecchiamenti, per lo zoccolo duro dei fan della prima ora, talvolta quasi eretici, che si vogliono, al centro dell'azione drammatica resta Daniel Craig, a conti fatti e al di là di ogni pregiudizio iniziale, il miglior Bond dai tempi di Sean Connery, sempre più alla ricerca di un'umanità oltre i simboli – non c'è verso che riesca a bersi in pace un vodka martini – qui finalmente ironico, quale sa benissimo essere, granitico e seducente, umbratile, ma non scontroso: l'attore dimostra che la calaca è solo una maschera e, se dietro c'è il fior fiore della tecnica Guildhall, gli stereotipi vanno buttati nel gabinetto, per saltare un passaggio, stessa sorte che l'agente auspica per il frullato probiotico che vorrebbero appioppargli e che non fa in tempo neppure ad assaggiare, per cause di forza maggiore, ma un po' anche per difendere la propria integrità!
Del resto lui è Bond, James Bond (e speriamo lo resti per un altro film!).
 
Ilaria Mainardi
 

Mon Roi

Sabato 12 Dicembre 2015 11:52
“Bella, che c'importa del mondo?”. 
Richiama il primo verso di una delle più belle canzoni d'amore che la musica italiana possa annoverare il poster dell'ultimo lavoro di Maïwenn Le Besco, in arte, solo Maïwenn, presentato in concorso al Festival di Cannes 2015 e fruttato alla protagonista, Emmanuelle Bercot, la palma d'oro ex aequo per la migliore interpretazione femminile.
Il bacio sulla bocca che suggella gli amanti aggrovigliati come un tutt'uno, Giorgio e Marie Antoinette, due nomi regali, solo il secondo abbreviato in un confidenziale e meno altisonante Tony, dapprima mai stanchi di abbeverarsi alle labbra l'uno dell'altra, felici, curiosi, indomiti come fa essere l'amore quando non si sa cosa sia e lo si strappa al tempo perché non sia lui a strapparlo da noi.
Finché si può, perché non dura, non dura probabilmente mai, come l'infanzia che cede il passo all'adolescenza e poi all'età adulta, e anche se provi a ritrovare quegli occhi, se li cerchi dove sei sicura di averli lasciati, ti accorgi che non ci sono più, che non c'erano più già quando per la prima volta sentivi di fermare sulla retina un ricordo: tempus fugit e vince sempre. 
Appena lo pensiamo è già passato, non esiste più.
Muta il nostro sguardo, come le stagioni della vita, come l'amore, soprattutto quello vero che è tanto più vero se si smarrisce a noi stessi, alla nostra possibilità di dargli quel nome: amore. Già, ma cos'è l'amore?
Per Tony la stabilità di un rapporto di coppia, di un figlio molto amato, ma concepito, senza farla tanto lunga sul sacro fuoco della maternità, per assecondare un capriccio del partner, la maturità di un rapporto adulto.
Giorgio invece, il re degli stronzi, come si definisce da solo, è il re pazzo, libero – forse libero – non ipocrita (“perché vuoi che sia come vuoi tu se mi hai voluto perché sono come sono?” dice a un certo punto, a crisi già in corso), guascone e irresistibile.
Ma chi siano davvero Giorgio e Tony, cosa vogliano e cosa pensino, Maïwenn non ce lo racconta. L'apparente banalità di una storia come tante trova linfa nella scelta di non psicanalizzare i due protagonisti: (si) scelgono, fanno, disfanno, ma chi siano non lo sappiamo e non dovremmo neppure chiedercelo. 
Il re regna, con la fierezza dura e allo stesso tempo indulgente di un sovrano machiavellico, e nel gioco delle parti, Tony accusa tutto: i tradimenti, l'immaturità affettiva, l'impossibilità che le cose siano come le aveva predeterminate.
Il ginocchio contiene due parole, sostiene, con un azzardo da rivista di costume, apparentemente risibile, la dottoressa che incontra Tony, in seguito all'infortunio – allegoria evidente, ma strumentale, non capziosa - che le farà ripensare, a ritroso, alla sua storia d'amore: occhio e io, anche se Tony ancora non lo sa e preferisce sottolineare il superalcolico prefisso!
E' in realtà una dichiarazione d'intenti: saranno gli occhi e un Io reale, non più Ideale, a far muovere la donna in una direzione che non tiene conto dei limiti articolari.
In una sorta di rebirth che va di pari passo con la riabilitazione dei legamenti strappati di netto (come poteva essere altrimenti?), Tony re-impara a sentirsi, a toccarsi, a conoscersi – fondamentale il lavoro e il sentire sui corpi, sulla fisicità, nel lavoro della regista francese - a muoversi senza farsi troppo male, a usare un antidolorifico, se accade, a ridere per una sciocchezza, a guardare gli altri con gli occhi di una donna che non deve essere altro da quello che vuole, da quello che, in quell'istante, e quello solo, è.
Tony impara a provare compassione per se stessa, a perdonarsi, a vedersi con gli occhi indulgenti che sovente le donne si negano, e il suo re, divenuto infine, al suo sguardo, più mansueto, docile, può essere finalmente accarezzato con gli occhi/M.d.P da vicino, senza paura di sbagliare, senza il timore di vedere che ciò che si ha di fronte è diverso dalla propria innamorata proiezione, quasi senza reti. 
Il re, il meraviglioso, sensualissimo e fragile Vincent Cassel, in un ruolo cucito sulle sue corde attoriali, può essere finalmente anche ri-amato, con un sorriso, forse la natura profonda del più insondabile e impalpabile dei sentimenti. 
 
Ilaria Mainardi

Batman v Superman: Dawn of Justice

Venerdì 25 Marzo 2016 22:01

Batman e Superman creati rispettivamente nel 1939 e nel 1933, sono i pilastri della DC Comics. Sono gli "eroi" dei "supereroi" ancora prima che la concorrenza prendesse il nome di Casa Marvel come la conosciamo oggi. Senza di loro il nostro mondo, la nostra stessa cultura occidentale sarebbe diversa. Sfido chiunque a trovare una persona in casa che non li abbia mai sentiti nominare. Per questo, a distanza di decenni, il cinema sente il bisogno richiamarli, di innalzare il batsegnale nel cielo e di invocare il salvatore Kal-El di Krypton come fosse un dio. Lo stesso fanno gli abitanti di Metropolis nell'ultimo lavoro di Zack Snyder, ormai famoso nel campo dei cinemacomics . L'idea di mettere i due l'uno contro l'altro sulla carta stampata dei fumetti  era già stata sviluppata moltissime volte (Kingdom Come e The Dark Night Returns per citare  due titoli famosi), Snyder lo fa però in maniera diversa. Dopo vent'anni di scontri, in cui Clark Kent (Henry Cavill) si trova a dover togliere gli occhiali neri da giornalista sfigato terrestre, per vestire i panni di Superman e andare in soccorso della amata Lois Lane (Amy Adams), l'umanità si interroga sul bisogno di avere un eroe e conta i morti che inconsapevole si porta sulle spalle l'uomo d'acciaio solo per essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel buio della ricca e ultramoderna Bat Caverna, Bruce Wayne (Ben Afleck), l'uomo pipistrello affiancato dal fido maggiordomo Alfred (questa volta Jeremy irons!)  vuole vederci chiaro e sfidare l'alieno che ritiene responsabile per le catastrofi di cui è spettatore. Alle loro spalle ride (come il Joker)  Alexander (Jesse Eisenberg), il rampollo milionario di casa Luthor, che si fa chiamare come il padre Lex. Egli passa i giorni a trovare il modo di infangare e uccidere Superman, vuole battere il nuovo "dio" e mettere le mani sulla Kryptonite, l'unica materia in grado di sconfiggerlo. Seguono un'ora di flashback e interrogativi, incomprensioni e apparizioni a sorpresa, confusione e filosofia per giungere al fatidico scontro del titolo (dove Batman, fateci caso, sradica un lavandino per colpire l'avversario, sanitario che suppongo sia di Kryptonite perché non si sbriciola). Debole come la sua prova d'attore è l'antagonista. Si fa chiamare Lex Luthor ma non è Lex "padre". E' caratterizzato come il clown di Gotham, per cercare forse una eco che mescoli il tutto. Non fa paura, non genera inquietudine é un ragazzino che pesta i piedi e fa i capricci come oggi chiede il pubblico di adolescenti. Diversamente il tanto criticato Affleck ci regala un Batman da manuale. Il budget utilizzato per creare la messinscena si vede ma visivamente ci si chiede se il mostro Doomsday (altro alfiere nella scacchiera dei protagonisti) poteva essere più simile all'immagine dei comics e ricordare meno un incrocio digitale tra il Troll di caverna de Il Signore Degli Anelli e Abominio del tanto odiato reboot su Hulk. Se le battute comiche dei film Marvel sono spesso criticate e non troppo riuscite, qui sono decisamente fuori luogo. Annunciato come il film che farà la storia del cinema al Comi-Con di San Diego, sta riscuotendo pareri discordanti: non si trova un equilibrio tra i fan entusiasti che gridano al miracolo e i delusi che ne vedono i difetti più evidenti e chiedono giustizia per i due eroi. Lento e prevedibile, cattivo e celebrativo, fanatico e commerciale, genera confusione e divide come i due protagonisti.

 
Francesca Tulli 
 
 
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Cantami, oh diva, dell'orfano Bruce l'ira funesta...
Batman v Superman, in fin dei conti, è una sorta di lunghissima elaborazione di un lutto quasi atavico, di un ritorno, via via più consapevole, fondativo, alla tragedia, intesa nella sua ineluttabile necessità di far convivere spirito apollineo e spirito dionisiaco, istinto vitale e pulsione di morte. 
È da quando, da Socrate in poi, l'uomo ha tentato di riportare il caos a un impossibile senso ultimo che, secondo Nietzsche, l'umanità inganna se stessa, imbastendo la trappola più letale nella ricerca di un'entità natura superiore che ordini il disordine: Dio, qui incarnato nell'alieno/altro che fluttua nell'aria con i suoi tratti vagamente inquietanti, capace di gesti eroici e di furie da vecchio testamento, poiché come sostiene Lex Luthor, senz'altro ludi magister sinistro e “jokeresco”, ma dosato in modo intelligente, nell'essenza stessa dell'onnipotenza è racchiusa anche la crudeltà.
Nella contesa fra le tensioni dell'animo, fra l'uomo che volle frasi (semi)dio e dio che volle farsi uomo, è chiaramente quest'ultimo a dover suggellare il passaggio definitivo (ma fino a quanto/quando?) dalla sostanza eterea alla carne. Ma è il percorso che conta e questo vede l'uomo, Bruce, molto più rilevante, col suo dolore e la sua rabbia cieca, molto umana, del proprio alter-ego mascherato, scagliare Dio, con la quale, per allegoria, condivide la “madre”, giù dallo scranno, portarlo a fare i conti con le proprie responsabilità ontologiche, come se davvero si trattasse di un Dio biblico, di una qualunque concezione di Dio.
È il percorso umano, inverso, per un certo senso, ma anche assimilabile a quello alieno/divino, che fa scaturire una più ampia riflessione sulla responsabilità, individuale, prima di tutto, e collettiva, in seguito: “cosa posso fare io?” di fronte all'ignoto, a ciò che mi sembra ostile, a ciò che, banalmente, mi rifiuto di indagare per paura, ma anche di fronte alla realtà quotidiana, con il suo carico, ineliminabile, poiché vitale e necessario, di “indiscreta alterità” culturale, religiosa, sociale. 
Nel film di Snyder, con una prima e un'ultima parte folgoranti, qualche digressione di troppo e vari intoppi, tutto sommato perdonabili, nella lunga parte centrale, “bene” e “male” non sono concetti manichei e il regista dimostra uno sguardo lucido e visionario, al tempo stesso. Non c'è nessuna presenza ultraterrena che sgravi l'essere umano dalla necessità di scegliere fino a che punto spingersi per quello a cui tiene, per quello a cui crede o anche per ciò che brama, questioni queste che sottendono una letteratura che pare non avere nulla a che fare con i fumetti, ma che si rivelano basilari per una riflessione post-umanista sensata, mai così importante, tra l'altro, come risulta essere in questi poco umani(sti) tempi. 
Interessante, parimenti, la dicotomia solo apparente fra passato e futuro. 
I ruderi di casa Wayne si intravedono, quasi totemici, in mezzo agli arbusti del parco all'interno del quale è edificata la nuova casa del milionario di Gotham City, casa questa volta di vetro, ispirata a villa Farnsworth (ringrazio l'architetto lucchese Leonardo Benedetti per la consulenza), completamente trasparente, alla mercé degli sguardi come l'animo scoperchiato del supereroe che fu, e che, adesso, è qualcosa di molto diverso: un uomo disincantato, furibondo e violento, tormentato da visioni che hanno l'aspetto di tremendi incubi.
Non è dall'oblio del passato che è possibile rinascere. Il passato è piuttosto una traccia mnestica sulla quale l'uomo nuovo, un Bruce nuovo, finalmente pacificato coi propri demoni interiori, coi propri lutti, può ri-edificare il proprio futuro e, per estensione, un futuro tout court.
Dopo il lavoro esemplare di Christopher Nolan, con la raffinatezza e la precisione tecnica di Bale, come Bruce, e con la creazione filmica di alcuni caratteri memorabili, non era facile portare a casa il risultato. Zack Snyder ce la fa, grazie anche al suo nuovo eroe, il molto osteggiato, ai tempi del casting, Ben Affleck, perfettamente in parte e valore aggiunto del film. Per merito dell'attore di Berckley, Bruce Wayne acquisisce infatti un'inedita maturità, intesa anche come desiderio introspettivo, e uno charme dalle venature sensuali, presagio di un cambiamento che, mi auguro, si delineerà con maggiore chiarezza nei lavori a venire. 
 
Ilaria Mainardi
Per Les Flâneurs Edizioni esce il 20 aprile Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks, saggio di Ilaria Mainardi su uno dei lavori più dibattuti del maestro David Lynch.
 
«In che anno siamo e cosa è successo davvero in questa storia che tende
i margini del quadro fino a straripare nel non visibile?»
 
Is it the future or is it the past? Con David Lynch non ne siamo mai certi: i bordi si sfumano, le maglie si allargano, lo spaziotempo e ogni sua logica esplodono in un Big Bang di intuizioni e suggestioni. Raccontare tale caos primigenio come se fosse un sogno è l’obiettivo di questa disamina del terzo capitolo dell’iconico Twin Peaks, una lettura metaforica che ne esplora il simbolismo con l’ausilio della critica cinematografica e della filosofia, della religione e della psicologia. Provando a fare ordine, a comprenderlo quanto più possibile senza
annullarne del tutto il mistero. Perché forse è proprio lì, nella sua perturbante indeterminatezza, che si annida il fascino visionario del regista di Missoula.
 
 
«Mainardi, tra le nebbie di Twin Peaks, prova a indovinarne i contorni – confrontando pareri, equiparando testi – e, fidandosi del suo intuito e della conoscenza della geografia lynchiana, ne dipinge un ritratto sorprendente.»
(dalla prefazione di Luca Pacilio)
 
 
Ilaria Mainardi risiede a Pisa, sua città d’origine. Qui ha visto maturare l’amore per il cinema, scrutato col rispetto e la sospensione incredula che si deve a ciò che è al tempo stesso familiare e misterioso. Con Les Flâneurs Edizioni ha pubblicato il romanzo La quarta dimensione del tempo (2020). Collabora con il sito di critica cinematografica www.spietati.it.