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Solo Dio Perdona

Venerdì 31 Maggio 2013 11:46

Se esista una poietica cinematografica della mente umana, attraverso complessi edipici e squarci di sapienza shakespeariana, il cinema sonda dalla sua nascita, nel sodalizio tra Bunuel e Dalì, nell’onirismo lynchiano, nella schizofrenia deterministica di David Cronenberg.

In questo “Only God Forgives”, lontanissimo dai lidi di “Drive”, più assimilabile al precedente, bellissimo, “Valhalla Rising”, Nicolas Winding Refn dà il suo prezioso contributo all’indagine epistemologica.

La riflessione del regista danese inserisce di tutto, traslando però il limite di sovrabbondanza rococò (ciò che, incredibilmente, gli si imputa) in virtù di sintesi espressiva e concettuale, filosofica e letteraria.

Non altrimenti si spiegherebbe la performance incredibile di Gosling, nuovamente diretto da Refn, dopo l’exploit del 2011: follia pura parlare di fissità espressiva quando ci si trova di fronte a un interprete che, con coraggio e adesione molto poco calcolata, in termini di marketing divistico, accetta un ruolo tanto rarefatto e silenzioso. I mondi di Macbeth e di Edipo, ma anche di Elettra, nel suo acutissimo femminino, attraversano lo sguardo struggente, doloroso, intenso dell’attore canadese che, quando la mdp gli si inchioda in faccia, parla con le pieghe del collo, col sudore, col ritmo del respiro.

Julian non esiste, per questo non parla quasi mai, lo fa la mente (o l’animo, l’anima) che attraverso i suoi occhi noi scorgiamo, lacerata e divisa. Il senso di colpa noi vediamo, demiurgo, trasfigurato in un vendicatore kurosawiano, che punisce per l’uccisione incolpevole, destinata di Laio, e non può che tormentare in eterno colui che, sembra suggerire la madre/consorte, Kristin Scott Thomas: “Ma non mi fido (né comprendo) della tua natura: troppo latte d'umana tenerezza ci scorre, perché tu sappia seguire la via più breve.”

Una strada che è già scritta, come negli eroi sofoclei, da un fato imperscrutabile, che sfugge il controllo degli stessi dei olimpici. Ma anche la fortuna in senso shakesperaniano e nietzschiano, una ruota che, girando, bilancia impulsi dionisiaci e apollinei, eros e thanatos, e che turba il protagonista: egli sa, come Macbeth, che il fatto, una volta fatto, non esaurirà nell’azione le proprie nefaste conseguenze, né sembra suggerircelo l’imago mortis scenografico che lo circonda.

Ma non vi è una prospettiva soteriologica in “Only God Forgives”, se non attraverso l’ironia beffarda del titolo: la macchia del peccato non potrà trovare redenzione ultraterrena. La metafisica del silenzio non assurge perciò a strumento di autoconsolazione dell’individuo nei confronti delle proprie azioni: nella penetrazione della madre, sangue nel sangue, con le mani colpevoli che ella stessa aveva mosso, si realizza piuttosto la nota massima di Wittgenstein, “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. E che la profezia della sfinge, dunque, si compia: gli occhi che hanno guardato siano resi ciechi da spilli acuminati, i pugni lordi, si alzino consapevoli, martoriati, per l’ultima volta, sotto il peso della colpa atavica.

 

Ilaria Mainardi

The Neon Demon

Mercoledì 08 Giugno 2016 21:54
Io penso che il mistero in un film ci deve sempre essere, infatti mi abbinano sempre a David Lynch forse per questa cosa che non si capisce mai cosa succede.
Lory Del Santo
 
Jesse (Elle Fanning) , sedicenne di provincia, si trasferisce a Los Angeles per fare della sua straordinaria bellezza un lavoro, ma si troverà a contatto con un ambiente spregiudicato che non le perdonerà un tale dono. 
The Neon Demon, ultima fatica del regista danese Nicolas Winding Refn, è una dura critica al mondo della moda con moltissimi spunti di riflessione, un'opera che l'autore stesso dichiara matura, un punto d'arrivo di tutto il suo percorso precedente. Refn riversa qui tutte le influenze del cinema di cui si è nutrito, mostrandolo come un baluardo ma al tempo stesso volendosene distaccare, prendendone le distanze in nome di una personale presunta originalità. Ci parla di concetti filosofici, di bellezza, inoltrandosi nel suo profondo significato, del mondo dell'effimero che conduce facilmente alla perdizione, di una dura e cinica materialità che contrasta con i sani principi morali.
In the Neon Demon troviamo tutto. Ad iniziare da Bava, Argento per poi passare a De Palma, Lynch, tutto ma proprio tutto. Lo troviamo nelle inquadrature, nell'indugiare con lo sguardo sui personaggi, nei movimenti di macchina, come se studiare i grandi maestri fosse stato un lavoro certosino. La pecca purtroppo sta proprio nel non riuscire a trovare una propria identità decadendo ad una mera copia sbiadita di tutto ciò che c'ha sbattuto al muro prendendoci di peso dalla poltrona.
Elle Fanning, giovane e brava protagonista, si mostra candida e insidiosa al tempo stesso, in lei c'è tutta l'ambiguità e la malattia dei contrasti lynchani, c'è anche la Carrie di De Palma (la scena d'apertura sembrerebbe un mix tra Omicidio a luci rosse e  Carrie lo sguardo di Satana) e poi tutto ciò che turba i nostri sonni, gli infiniti ossimori tra bene/male, provincia/città, giorno/notte, castità/sesso, realtà/allucinazione divengono, senza bisogno di essere annunciati, altrettanti infiniti richiami all'autore di Twin Peaks, a quella Laura Palmer che dovrà essere uccisa, alla Mulholland Drive inghiottita da una scatola blu tra eros e thanatos. É un gioco di specchi e di rimandi, specchi fisici che riflettono le immagini e le amplificano, obiettivi fotografici che immortalano in una sovraesposizione mediatica pericolosissima, ammiccando anche un po' all' Holy Motors di Carax, per due ore di pellicola che forse sono più ostiche delle tematiche affrontate.
Il grosso gap generazionale che accusa Refn è insito proprio nel non riuscire ad essere qualcosa di più di un richiamo, nel diventare noioso a tal punto che per spegnere la monotonia bisogna virare precipitosamente sullo splatter con sbudellamenti vari e cannibalismi al seguito secondo la migliore tradizione cinematografica.
Refn vuole a tutti i costi fare l'esoterico. Dichiara di essersi avvalso delle letture di tarocchi di Alejandro Jodorowsky, delle lunghe chiacchierate quotidiane via Skype con il maestro, tanto da riversare tutta la sua influenza nel loghetto col triangolino che campeggia su locandina e in varie scene del film, un po' insomma come pensare che ingellarsi i capelli alla Elvis equivalga a far rivivere Elvis stesso.
Lui si difende dicendo che chi non ammette di aver “rubato” da qualcuno sta mentendo, in effetti in questo non c'è nulla di male, ma il contrasto rispetto al passato sta nell'apparire acerbo e compiaciuto, come se per comprendere Tarantino ci dimenticassimo di Fernando Di Leo o di Enzo Castellari. Del resto, soprattutto le nuove generazioni di spettatori, Di Leo non sanno neppure chi sia come può accadere che di Refn lo si faccia passare per un talento visionario con buona pace di De Palma e compagnia bella.
 
Chiara Nucera