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Il mondo di Mad

Mercoledì 09 Ottobre 2013 11:43 Pubblicato in Recensioni

“Il mondo di Mad” è variopinto, è un modo fatto di colori e di simpatiche figure longilinee, un mondo caldo e coinvolgente.

Anna Di Francisca porta in scena un documentario incentrato sulla figura di Mad, alias Maddalena Sisto, celebre pittrice, scrittrice e giornalista di moda. 
La regista milanese compie un lavoro attento e sorprendente su un personaggio straordinario - troppo spesso trascurato - una donna che con il suo estro riuscì a cambiare e stravolgere il “modo” di parlare di moda e di donna. 
Siamo agli inizi degli anni ’70, gli anni dei grandi cambiamenti culturali, dei movimenti di protesta giovanile, gli anni delle grandi firme, gli anni in cui Milano diventa una delle Capitali della moda più note al mondo. 
E’ proprio da qui che ha inizio la storia di Maddalena: inviata “in prima linea” alle sfilate più chic della città. 
I suoi articoli escono sulle pagine di Sette (inserto del Corriere della Sera), Vogue e Elle: a caratterizzare il suo lavoro l’abitudine di disegnare sul suo blocco schizzi colorati dei capi.
I suoi disegni/appunti sembrano parlare: le modelle appaiono sempre altissime, magre e con piedi enormi.
Nonostante ad una prima occhiata risultino piuttosto buffe, le “donne”di Mad riescono a trasmettere fedelmente i particolari e le caratteristiche di una nuova collezione, sono testimoni del cambiamento. 
In poco tempo Maddalena riceve riconoscimenti dalla maggior parte degli stilisti italiani e dal mondo della moda in generale.  
Di Francisca ripercorre passo dopo passo, intervista dopo intervista, tutto il percorso artistico di Mad, dagli anni ‘70 al 2000: la sua opera diventa un manifesto della donna contemporanea, del suo modo di affrontare la vita e della sua lotta per l’affermazione professionale.
Grazie ad una grande quantità di materiale – 12.000 disegni autentici – alle interviste di personaggi come Missoni e Fiorucci e ad un’animazione realizzata ad hoc, “Il mondo di Mad” ci catapulta in una sorta di universo parallelo, dalle “tinte” rivoluzionarie, forti, indipendenti. 
Nonostante la sua morte (avvenuta prematuramente a causa di una malattia), Maddelana Sisto sembra non invecchiare mai, le sue opere sembrano provenire da una sorta di ‘Isola che non c’è’.
La regista milanese ce la presenta come una Amelie tutta italiana, un Peter Pan al femminile…
Nel “Mondo di Mad” la fantasia può avvolgere, cambiare e far parlare il mondo. 
 
Silvia Marinucci
 

La seconda natura

Mercoledì 09 Ottobre 2013 11:24 Pubblicato in Recensioni

Marcello Sannino porta in scena la storia dell’avvocato, mecenate e umanista Gerardo Marotta. 

Il suo ritratto cinematografico è un insegnamento di vita.
 
Su che cosa si basa oggi lo Stato Sociale? Pensando al nostro Bel Paese, soprattutto in questo periodo di incertezze e turbamenti, non vengono in mente capisaldi, né correnti ideologiche alle quali appigliarsi o dalle quali ripartire. Le speranze svaniscono in un fiume in piena che porta via tutto, quello dell’ignoranza, della poca curiosità, della sdrucita formazione scolastica. 
Eppure da qualche parte c’è ancora qualcuno che crede nella cultura, nelle libere correnti di pensiero, qualcuno che ancora “combatte”.  
Non parliamo di gruppi di attivisti organizzati, né di coalizioni politiche, ma di un uomo: una persona che ogni giorno porta a termine la sua battaglia a colpi di libri. 
E’ Gerardo Marotta il protagonista assoluto de “La seconda natura”, il nuovo documentario di Marcello Sannino, un ritratto cinematografico, un omaggio, ma soprattutto un regalo. 
Il regista segue il suo uomo nella quotidianità, ripercorrendone la vita dalla fondazione dell’Associazione “Cultura Nuova” alla creazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, punto di riferimento per gli studiosi di tutto il mondo.  
Marotta è dunque un avvocato, un mecenate, un filosofo, un umanista in guerra da sempre per l’affermazione della cultura come strumento di giustizia sociale.  
“Non c‘è pace senza cultura”, afferma; è necessario risvegliare le tradizioni culturali addormentate dalla burocrazia: le idee sono morte e il popolo è rassegnato.
Guardando e ascoltando la voce di questo anziano e gracile omino non si può fare a meno di rimanere ammaliati, “La seconda natura” è un’occasione più unica che rara per aprire la propria mente: una lezione di storia, filosofia e politica che non si trova di certo sui libri. 
Sannino rievoca alla mente un passato lontano, grazie ai racconti del suo protagonista e al montaggio di straordinarie immagini di repertorio: seppure il suo documentario sia un pugno nello stomaco per animi e coscienze, riesce a contagiare gli spiriti e a riaccendere le speranze. 
L’avvocato napoletano fa venire i brividi nella parte finale, si chiede (ci chiede) dove sono finiti i giovani come Gramsci pronti a fare la rivoluzione,  quella che non ha niente a che fare con la presa della Bastiglia. Marotta parla di quella rivoluzione che pianta nel cuore un principio, un demone in grado di ardere, crescere e mantenere un giovane vivo, non morto. 
Noi non abbiamo saputo rispondergli. 
 
Silvia Marinucci
 

The Grandmaster

Mercoledì 09 Ottobre 2013 11:07 Pubblicato in Recensioni

“Kung fu, due parole, orizzontale e verticale”

Era da anni che Wong Kar-wai aveva annunciato di volere realizzare un film di arti marziali come quelli tanto popolari in estremo oriente; un modo per discostarsi dai suoi ultimi lavori ed evitare l'accusa di regista manierato, mossagli dai detrattori. Un film dedicato alla figura di Ip Man, leggendario insegnante di kung fu, famoso anche per essere stato maestro di un giovanissimo Bruce Lee. Dato che i suoi tempi di lavorazione sono notoriamente lunghi, a Hong Kong hanno fatto in tempo ad uscire altre pellicole su questo personaggio prima che “The Grandmaster” fosse pronto. Fortunatamente “Ip Man” e “Ip Man 2”  di Wilson Yip con Donnie Yen nel ruolo del protagonista, ai quali vanno aggiunti “The Legend is born” con Yu-hang To (dedicato agli anni giovanili) e “Ip Man: The Final Fight”, con un bravissimo Anthony Wong (riguardante invece gli anni della maturità), entrambi diretti da Herman Yau, non hanno stancato il pubblico, evidentemente affezionato al maestro del Wing Chun; arrivato in sala, “The Grandmaster” ha incassato molto, divenendo, fra i film del maestro di “In the Mood for Love” e “2046”, quello più fortunato al botteghino. Dopo avere aperto fuori concorso il festival di Berlino (dove Wong era presidente di giuria), “The Grandmaster” è stato anche scelto per rappresentare il cinema di Hong Kong ai prossimi Oscar; una bella soddisfazione per il regista nativo di Shanghai, anche se l'Academy in passato non si è dimostrata troppo attenta nei suoi riguardi.
Contrariamente a quanto Wong aveva dichiarato, “The Grandmaster” non si segnala per una trama particolarmente lineare e piuttosto di raccontare la biografia di Ip Man in maniera convenzionale, come avevano fatto i precedenti film, preferisce mostrarcelo alle prese con alcuni incontri che hanno segnato la sua esistenza. Conoscendo le varie scuole di kung fu, Ip Man arriva alla conclusione, e noi con lui, che non esiste un solo grande maestro, ma più di uno (e anche la distribuzione internazionale è stata per un po' incerta su questo aspetto, visto che era stato pensato di distribuirlo col titolo al plurale, “The Grandmasters”).
A inizio film siamo nel 1936 e un Ip Man quarantenne vive sereno coi propri familiari a Foshan. Appartenente ad una famiglia agiata, ha potuto praticare le arti marziali per tutta la vita senza doversi preoccupare d'altro. Già la frenetica sequenza di combattimento iniziale (le coreografie sono di Yuen Woo-ping, maestro che ha fornito il suo impareggiabile contributo a film come “La tigre e il dragone”, “Matrix” e “Kill Bill”) ci fa capire com'è la sua vita, fatta di duelli ma anche di serate nei locali più eleganti della città in compagnia della moglie o disquisizioni con altri maestri di kung fu. 
L'incontro più importante è quello con Gong Er, orgogliosa figlia di Gong Dobei, un avversario sconfitto. Decisa a vendicare l'onore del padre, che poi verrà ucciso da un allievo traditore, la ragazza sfida Ip Man: più che un duello all'ultimo sangue il loro è una sorta di tira e molla destinato a durare anni, un legame indissolubile ma allo stesso tempo destinato a rimanere sospeso, come spesso lo sono nel cinema di Wong Kar-wai. Sarà la guerra a cambiare tutto e Ip Man sarà costretto ad affrontare anni difficili: dovrà rinunciare al suo stile di vita, sarà costretto a trasferirsi ad Hong Kong, a cercare un lavoro (naturalmente insegnante di arti marziali) e ad abbandonare la sua famiglia. 
Il film è assolutamente spettacolare a livello visivo, magnifico nella fotografia di Philippe Le Sourd e Song Xiaofei (ma è un peccato che il sodalizio tra Wong e l'australiano Christopher Doyle si sia interrotto). Irrinunciabile anche il contributo di William Chang, che ha creato scenografie e costumi curatissimi, oltre ad avere partecipato al montaggio. Molto suggestivo il commento musicale di Shigeru Umebayashi e Nathaniel Méchaly (con la “Stabat Mater” di Stefano Lentini), dagli echi morriconiani (e il film per la sua riflessione sul valore della memoria è stato accostato a “C'era una volta in America”, ma è pur vero che quello è una tematica ricorrente nel cinema di Wong). Tony Leung, attore feticcio del regista, è un Ip Man molto fascinoso ma è Zhang Ziyi, nei panni di Gong Er, credibile e intensa nelle scene d'azione come in quelle drammatiche, a lasciare un segno indelebile. La moglie del protagonista è interpretata dall'attrice coreana Song Hye-kyo (attesa nel prossimo lavoro di John Woo) ma il suo ruolo è piuttosto ridotto (come del resto negli altri film su Ip-Man); Chang Chen fa qualche fugace apparizione nei panni del personaggio denominato il Rasoio, un altro maestro la cui strada sfiora quella dei protagonisti, senza però diventare mai parte integrante della trama, risultato forse di alcuni aggiustamenti durante il montaggio.
Uscito in patria nella versione da 130 minuti, “The Grandmaster” arriva in Italia in quella da 108 che è stata distribuita in America. Molti hanno imputato a questi tagli una certa fumosità nella trama, dimenticando il metodo di lavoro di questo maestro: cinema di atmosfera e suggestioni, il suo, dove fortunatamente certi didascalismi hanno poco spazio.
 
                                                                                          
Mirko Salvini

La prima neve

Mercoledì 09 Ottobre 2013 10:48 Pubblicato in Recensioni

È abbastanza evidente, pur non conoscendo la sua traiettoria cinematografica, che dietro la macchina da presa di “La prima neve” non c’è solo un bravo regista, ma anche un sociologo, esperto di comunicazione sociale, personalmente impegnato nei temi della cooperazione internazionale. Approdato alla fiction con “Io sono li”, dopo aver girato documentari che narrano i mondi albanesi, africani, zingari, Andrea Segre si è imposto all’attenzione di critica e pubblico per la sua capacità di raccontare storie di persone e luoghi attraverso una cifra stilistica assolutamente personale, riconoscibile. La sua umanità è sempre costituita da quei soggetti marginali che, più di altri, vivono sulla propria pelle le contraddizioni di un capitalismo cieco e di uno stravolgimento del senso di comunità. Che si tratti di documentari o di fiction – in Segre, rintracciando quasi intuitivamente una tendenza fortunata del cinema contemporaneo,  il confine non è molto netto – lo spettatore sperimenta immediatamente quella sorta di straniamento rispetto alla sua realtà, a cui segue una totale immersione nella realtà raccontata ed un ritorno alla propria, arricchito da una serie di spunti alla riflessione che non possono fermarsi ai titoli di coda. Si potrebbe in un certo senso affermare che le sue storie accompagnano lo spettatore oltre lo spettacolo (ammesso che ci sia ancora spazio per un’autenticità non fagocitata all’interno dell’industria del tempo libero)

Anche con “La prima neve”, secondo lungometraggio dell’autore veneto presentato a Venezia ’70 nella sezione Orizzonti, Segre ci restituisce un mondo lontano dai riflettori mediatici in cui i personaggi si incontrano dentro ad un territorio che molto spesso divide anziché unire. Il paesaggio ostico e affascinante di questo piccolo comune del Trentino, ai piedi della Val de Mocheni, narra la storia di Deni, fuggito dal Togo e poi dalla Libia, approdato in Italia e rimasto vedovo, padre di una bambina di cui non riesce a prendersi cura perché ha lo stesso volto della donna da cui si è dovuto tragicamente separare. Nello spazio dell’attesa dei tempi lunghi della burocrazia che gli permetterà di raggiungere Parigi, Deni lavora per un anziano apicoltore, nonno di Michele, ragazzo “problematico”, anche lui segnato da una distacco improvviso da un padre che ha perso la vita proprio in quelle montagne innevate. L’empatia non può che far nascere un rapporto di mutuo rispetto e condivisione: Deni e Michele si riconoscono l’uno nell’altro in quanto soggetti mutilati dell’affetto più forte, entrambi in collisione con coloro che rappresentano i reduci di quell’affetto (la figlia di Deni, la madre di Michele) e che impongono loro di fare i conti con una realtà che non può essere accettata. Quest’incontro fra due solitudini stabilisce un dialogo altrimenti impossibile, un dialogo che apre possibilità nuove per entrambi. “Fare cinema è – per Segre - concedere spazio allo sguardo, per rendere possibile l’incontro che è contaminazione” L’incontro fra differenze – non macchiato, come nel precedente “Io sono li”, dal razzismo identitario dei locals - è detonatore di un nuovo rapporto, sia con gli altri esseri umani che con la natura. 
I luoghi diventano personaggi, veri e propri attori con cui lo stesso regista entra in rapporto per scoprire come possono interagire emotivamente nel racconto. L’impianto narrativo de “La prima neve” è, infatti, indissolubilmente legato ai suoi boschi, al suo popolo, e in particolare ai bambini. “Avevo bisogno di bambini ancora capaci di vivere e giocare nei boschi, di arrampicarsi sugli alberi, di lanciarsi in discesa lungo prati e pendii, e sono loro che mi hanno guidato nella valle. È seguendo loro che ho imparato a conoscerla”. 
A tratti pericolosamente didascalico, “La prima neve” poggia su di una struttura che rivela, passo dopo passo, il vissuto e la complessità di persone piuttosto che personaggi, di modo che una vitale autenticità degli esseri umani al centro del racconto ci impedisce quasi di percepire il meccanismo illusorio del cinema che trasforma un attore in un personaggio. Il confine fra documento e finzione si fa labilissimo, caratteristica che, se da un lato trattiene lo spettatore dall’immersione emotiva nelle maglie del racconto, d’altro lato lo previene da facili retoriche piagnucolanti. La sensazione che ci lascia, a tratti amara, a tratti straripante di umanità, non è mai disgiunta da una certa attività del pensiero che ci costringe a fare i conti con quelle persone e con quel territorio.
Resta da capire se la scarsa attenzione ricevuta a Venezia sia totalmente amputabile a canonici aggiustamenti in seno alla giuria (con il Leone d’oro a Rosi e la Coppa Volpi a Elena Cotta non c’era spazio per un altro film italiano) o ad una riflessione che ha coinvolto pubblico e critica in un paragone dal quale “Io sono li” è uscito vincente.
 
Elisa Fiorucci