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Visualizza articoli per tag: david bowie
Il 22 marzo scorso è uscito Grief Is The Thing With Feathers di Teho Teardo. Otto intensissime tracce sulla scia dell’elaborazione di una perdita. L’idea nasce nel 2017 a seguito della lettura dell’omonimo libro di Max Porter (Il dolore è una cosa con le piume, edito in Italia da Guanda) alla quale, un mese dopo, si accoda il regista e scrittore Enda Walsh (tra i suoi lavori più importanti nella scrittura Lazarus con David Bowie e Hunger di Steve Mc Queen) che decide di farne uno spettacolo teatrale. Cillian Murphy ne è il protagonista, ora in scena al St. Ann’s Warehouse di New York fino a metà maggio e già sold out nel mese di aprile al Barbican di Londra.
L’album si fregia di validissimi musicisti oltre che di collaborazioni altisonanti del calibro di Joe Lally (Fugazi) al basso. Grazie ad un ascolto privato e riservato a pochi, ho potuto sentirlo in anteprima, nello studio dove è stato creato, e questa intervista è frutto di questo straordinario incontro. 
 
 
Per partorire questo album hai impiegato quasi 2 anni, quanto è cambiato dal 2017?
 
È cambiato un bel po’ c’erano delle cose che ad un certo punto non mi piacevano più e ho dovuto limare dei passaggi che in scena vanno benissimo ma non hanno lo stesso effetto dentro un disco.
Al 95% la musica è la stessa ma con alcune variazioni. Quando sei in uno spettacolo devi interagire con il luogo, con necessità degli attori e altre di scena e anche l’ascolto di un album ha necessità ben precise, ci sono altri livelli di dinamiche, altre durate. Per lo spettacolo importante è stato anche il buon rapporto con Cillian,con cui già mi ero trovato a lavorare. Lui di fatto è un musicista mancato, avendo iniziato la sua carriera nella musica ma poi, proprio grazie ad Enda, si è riscoperto attore.
 
 
 
È necessario un diverso approccio al cinema rispetto al lavoro per il teatro?
 
No, per me si tratta sempre di fare della musica che deve trovare una via per un progetto. Non  ho uno stile per il teatro, uno per il cinema, questo mi sembrerebbe una stronzata. 
Quando ero ragazzino andavo al cinema e sentivo delle colonne sonore, compravo il disco e talvolta succedeva che aveva tutt’altro effetto non funzionando più o viceversa, ad esempio con la colonna sonora di Paris Texas sono nati bambini anche di persone che conosco. Bisogna tenere presente però che la musica per il cinema o per il teatro deve essere più semplice avere meno elementi, in genere più è elaborata e più tende a sgonfiarsi.
 
Qual’è il tuo riferimento per la composizione nei film o nel teatro?
 
C’è un disco fondamentale che dovrebbe essere studiato ed è la colonna sonora di Sandokan dei De Angelis, quel lavoro ha i titoli che corrispondono alle sequenze del film e quando lo ascolti hai sempre quell’unico riferimento e inevitabilmente questo arresta tutta una serie di possibilità che si potrebbero avere. Se cristallizzi la musica in un punto preciso della narrazione riduci la potenzialità della musica stessa. La diversità del teatro è che comunque lo spettacolo ha un certo numero di repliche ma poi finisce rischiando di trasformare l’ascolto successivo in qualcosa di tendenzialmente nostalgico. 
Io perciò compongo basandomi unicamente sulla sceneggiatura e sui colloqui che ho col regista, questo mi garantisce maggiore libertà.
 
Noi in Italia abbiamo codificato un modo di fare musica per il cinema, penso ad esempio ad Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Morricone che raggiunge vette altissime. Quando ho iniziato a far questo lavoro mi sono domandato che tipo di impostazione volessi seguire, inserirmi in una scia che mi avrebbe portato dritto al piano bar oppure fare altro? Io vengo dal punk rock e ho ritenuto che ci potesse essere anche un altro modo per avvicinarsi ad un racconto. Facendo musica senza basarmi unicamente sulle immagini hai musica svincolata ma legata alla storia, entrando in un gioco che dà vita anche ad una serie di contraddizioni, in una ricerca di connessioni tra quello che ti lancia la musica e quello che evocano le immagini. Si creano così infinite possibilità perché l’immagine ha un perimetro ben definito mentre la musica ha un raggio molto più vasto.
 
 
Hai un compositore di riferimento?
 
I miei compositori di riferimento sono i Cramps, il rock’n roll primitivo e brutale, essenzialmente elementare, perché ci sono talmente pochi elementi che o funzionano oppure no, non c’è scampo. Con la tecnologia, i mezzi, un’orchestra, si può in qualche modo confondere le acque per far passare degli andamenti come delle composizioni invece spesso è soltanto aria fritta. Mi piace quel tipo di musica che poi deriva dal blues degli anni 20/30 dove c’era soltanto un uomo con una chitarra e per allargare le cose usava un collo di bottiglia, erano a quel tempo gli archi dei poveri perché, non potendo permettersi altro, davano in questo modo una distorsione. Amo il concetto di ultraeconomia che con pochissimo devi trovare una soluzione. Molta musica che arriva dal cinema non è così e a me stanca tanto. Le cose che mi colpiscono del cinema sono poche, penso ad esempio al lavoro che ha fatto Sakamoto che però non veniva dal cinema, o Trent Reznor che è un gigante ma arriva da un altro ambito musicale, e secondo me è necessario che dopo cento anni di colonne sonore si cambino un po’ le cose. 
 
Una cosa fighissima dei compositori italiani è che di solito hanno sempre il budget più basso rispetto a tutti. Morricone faceva 50 film in un anno, adesso nell’ipotesi migliore uno ne fa tre, quattro, all’epoca lui aveva molto meno tempo per lavorarci il che vuol dire che tutta una serie di cose non le poteva fare e doveva operare delle scelte, questo modo di lavorare continua ad intrigarmi molto. 
 
Sembra tu abbia un marchio ben chiaro oltre che una forte vicinanza a Londra.. 
 
Sono diversi anni che lavoro assieme ad un certo team e Londra è sempre la base dell’operazione e per me è diventato un luogo di riferimento importante e di conseguenza lo è per la mia musica. Mi fa piacere che si senta che c’è un marchio perché quello che faccio è tentare sempre di cancellarlo per poi immancabilmente ritrovarlo. Uno dei miei gruppi preferiti sono i Ramones che hanno un sound ben codificato che si riconosce nell’immediato. È importante avere uno stile preciso che cambia e si trasforma nel tempo ma che faccia sempre riferimento a ciò che precede e ciò che verrà.
 
 
Qual’è il messaggio che vorresti lanciare e c’è un’evoluzione personale all’interno di questo album? 
 
Non ho messaggi politici palesi, però se penso alle persone che hanno suonato in questo disco, al tipo di circuitazione che ha questa musica è già un tipo di messaggio evidente del mio modo di pensare. È interessante anche vedere che queste idee possano poi avere una diffusione ultramainstream come al Barbican di Londra, però arrivano da un altro punto di inizio e questo è già un messaggio. È comunque una questione talmente privata da diventare politica. Non sono assolutamente in sintonia con l’andamento politico di questo paese e credo che questa musica lo manifesti pienamente. È una musica che non è allineata in alcun modo con gli standard estetici che, sia in modo mainstream che underground, sono imperanti, è un no evidente a tutto questo. PJ Harvey diceva che non serve fare delle gran critiche basta fare dei pezzi e non serve nemmeno fare delle interviste per dirlo, basta fare musica. 
In Italia che musica esce? Ok c’è tutto quello che sappiamo ma c’è anche questo e poi tu le cose le metti tutte lì vicine e le cose parlano da sole, dipende anche da chi vuole ascoltare e da come vuole ascoltare.
 
È una musica che però ritrova le sue basi nel passato e che quindi dovremmo già aver metabolizzato, secondo te rimane ancora solo un ascolto di nicchia? Cosa è successo, ci siamo  arrestati? 
 
Cosa io penso degli ultimi 20 anni di questo paese è che ha iniziato a guardarsi l’ombelico sempre più spesso fino a non vedere più niente. C’è stata un’invenzione del rock italiano che in realtà era rock anglosassone ma solo cantato in italiano e questo secondo me è un problema serio. 
Io ad esempio suono perché a 17 anni un mio amico m’ha portato a vedere James Brown a Pordenone e quando l’ho visto sono rimasto folgorato capendo che volevo fare veramente musica nella vita, essere una presenza sul palco che dice delle cose, io volevo far qualcosa: è come un processo di impollinazione dove c’è un seme nell’aria che ti feconda. Se tu metti in un sistema delle cose sterili non fecondano niente ed è evidente. La musica rock è scomparsa ed è strano che sia letteralmente sparita nelle nuove generazioni. Anche in altri ambiti non c’è tutto questo gran fermento e ho la certezza che all’inizio degli anni ‘90 si sia fatta questa invenzione del rock italiano che abbia distrutto una buona fetta di musica e soprattutto anche un pubblico di ascoltatori. Io sono italiano ma non rappresento l’Italia quando suono, è importante non essere ascrivibili ad una precisa nazione perché non facciamo musica etnica, noi suoniamo per tutti. Negli anni ‘90 sono comparsi una serie di imitatori italiani a rifare quello che facevano gli stranieri. C’è stato un atteggiamento di autoreferenzialità imbarazzante, nonostante vi siano un sacco di artisti talentuosi costretti a tagliare la corda. 
Un esempio di tutto ciò può essere dato da Joe Lally, un bassista impressionante, veniva spesso da me perché ha abitato 8 anni a Roma e siamo molto amici, non l’ha mai chiamato nessuno a suonare nel periodo che ha passato qui. È un fuoriclasse, oltre ad essere un uomo che ha avuto un’esperienza clamorosa nella musica, avrebbero potuto contattarlo prima di fare ritorno a Washington 2 anni fa, invece non sapevano nemmeno chi fosse, questa è una cosa davvero significativa.
 
 
Max Porter parlando del tuo album dice: è difficile ascoltare la musica senza sentirsi tristi ma anche pieni di speranza, sei d’accordo?
 
Sì sono d’accordo nel senso che la mia musica è nel dark side delle cose che è un punto di osservazione, il che non significa che io abbia uno sguardo pessimista ma che guardo da un’altra angolazione per vedere la realtà. 
 
Mi è venuta in mente una bella intervista a Jim Jarmusch, in occasione di un suo film dove ho lavorato, nella quale diceva che l’hanno ispirato i cani nel guardare, perché i cani quando osservano inclinano la testa per capire meglio. Nello stesso film c’è Blixa che dice io per capire una cosa devo rovesciarla e, sempre in questo film, c’è Bowie che dice io per mettere bene a fuoco una cosa devo farla saltare per aria. Sono tutte espressioni abbastanza forti, quasi negative, ma in realtà è il contrario. Qui c’è un punto d’osservazione che parte dall’oscurità ma poi guarda verso una possibilità. Credo che questo sia il mio lavoro più oscuro e che sia anche il disco dove la maggior parte degli elementi dentro spingono per venire alla luce. 
 
Sembra un percorso di elaborazione del lutto anche in base alla scaletta che hai scelto, questa rottura dell’abitudine fino all’ultima traccia dove si ha una sensazione quasi di lasciare andare dopo aver raschiato il fondale, di risalire per riprendere aria.. 
 
Il tema principale è tutto giocato sulla scia del ricordo e sull’elaborazione della perdita. Poco tempo fa se n’è andata la mamma di Enda e volevamo qualcosa che servisse a rievocarla, sia una voce quindi che una sonorità ricercata e adatta a questo scopo, la voce di Susanna Buffa non ha un testo sono solo dei vocalizzi e anche la melodia è molto contenuta, è quasi un ectoplasma sonoro che arriva ad un certo punto e poi se ne va.
 
 
Ma come si può musicare una perdita? 
 
Evocare qualcuno che non c’è è un modo per raccontare una perdita, mi allungo così tanto verso te per cercarti ma nel buio non ti trovo. Questa voce questo fa, si appoggia a tutta una serie di passaggi di pizzicato di violoncello e viola che non portano da nessuna parte e ad un certo punto si srotola verso una parte musicale più melodica, ma la voce gira intorno a se stessa ed è come se brancolassimo un po’ nel buio. 
Uno dei modi per approcciarci a questo lavoro con Enda è stato parlare delle nostre rispettive madri domandandoci dove fossero adesso, come qualcosa che era presente nei detriti dei nostri discorsi. 
Si evoca qualcuno che non c’è più forse per prendersi cura di quelli che sono rimasti. Molti di noi hanno avuto dei vuoti difficili da colmare e nella musica io ho trovato uno dei modi per farmela passare.
 
Significativa è stata anche la collaborazione passata di Enda con Bowie per Lazarus. Bowie, quando seppe della sua malattia, lo contattò dicendogli è l’ultima cosa che faccio e vorrei farla con te, Enda ebbe un infarto per il carico di responsabilità. E a proposito di perdite ci sono montagne di provini che Bowie mandava tutte le mattine ad Enda tramite pc, perché per un periodo lavoravano a distanza. Un giorno Enda dimenticò questo computer in aereo e tutto quel materiale è andato perso per sempre.
 
 
Chiara Nucera

30 anni di Labyrinth con un dvd speciale

Venerdì 16 Settembre 2016 13:52
Il capolavoro fantasy con David Bowie e Jennifer Connely compie 30 anni.
In occasione dell'anniversario il film diretto da Jim Henson ritorna in versione deluxe con inediti contenuti extra
 
 
“Buffo, arguto e spiritoso. Un’ottima combinazione per intrattenere adulti e bambini”
 
 The New York Times
 
 Un regista visionario, una rockstar tra le più amate di tutti i tempi, una giovane attrice futuro premio Oscar®. È un classico del genere fantasy Labyrinth – Dove tutto è possibile, film che compie 30 anni e che, per l’occasione, torna in versione deluxe – con tante sorprese - per la gioia di vecchi e nuovi fan. Labyrinth sarà disponibile in DVD, Blu-Ray™, Steelbook Blu-Ray™,  4K Ultra HDTM  e nell’esclusiva Maze Edition Blu-RayTM (in edizione limitata da 1.500 pezzi) dal 28 Settembre 2016 con Universal Pictures Home Entertainment Italia.
 
 
Tutti i prodotti sono disponibili in un nuovo packaging ed impreziositi da contenuti speciali inediti, tra cui interviste con la protagonista Jennifer Connelly (premio Oscar® nel 2002 come Migliore Attrice Non Protagonista per A Beautiful Mind), con il filmmaker Brian Henson (figlio del regista di Labyrinth, Jim Henson) ed interventi in ricordo di David Bowie. Per la versione in 4K UHD il film è stato totalmente restaurato e rimasterizzato, nel suono e nelle immagini.
 
Il design dell’esclusiva e sorprendente Maze Edition, invece, riproduce il castello multidimensionale di Jareth ed è ispirato ad una delle scene più famose del film. Il prodotto, inoltre, include un digibook Blu-Ray di 24 pagine con tutti i contenuti speciali di Labyrinth, alcuni elementi nascosti all'interno della confezione ed un’immagine di David Bowie.
 
Sarah (Jennifer Connelly) è un'adolescente sognatrice, che ancora si circonda di orsacchiotti e buffi personaggi di peluche. Una sera in cui i suoi genitori escono per qualche ora lasciandola sola con Toby, il fratellino di pochi mesi, questi stenta ad addormentarsi e piange: innervosita, la ragazzina invoca Jareth (David Bowie), il Re dei Goblin, affinché lo porti con sé nel suo castello. E Toby scompare davvero. Sarah impaurita decide di andarselo a riprendere...
 
 
NUOVI CONTENUTI SPECIALI (Durata totale dei contenuti extra: 216 minuti ca.)
 
Riordinare i ricordi: Ripensare a Labyrinth – Jennifer Connelly e la famiglia Henson riflettono su questo film classico 30 anni dopo ricordando le loro esperienze, l’innovativa trasposizione scenica e l’enorme eredità duratura del film
L’eredità di Henson – Celebriamo l’ultimo tocco nella filmografia di Jim Henson, nella visione cinematografica e soprattutto l’immaginazione mentre la sua famiglia ci parla del suo lavoro e ci porta dietro le scene in “Center of Puppetry Arts”, che mostra la collezione Jim Henson e gli oltre 100 burattini di Labyrinth
In ricordo del Re dei Goblin: Ricordando David Bowie con la co-protagonista Jennifer Connelly, il figlio di Jim Henson Brian e con Cheryl Henson  
L’Anniversario di Labyrinth Q&A: Presentato dal conduttore di Mythbuster Adam Savage, con la partecipazione di Brian Henson, David Goelz e Karen Prell con l’ospite a sorpresa Sharl Weiser
Trailer cinematografico
 
 
ALTRI CONTENUTI
 
I Narratori: Immagine nell’immagine
Commento del Conceptual Designer Brian Froud
Making Of – Documentario Dietro le Quinte di Labyrinth
Viaggio attraverso Labyrinth: Il regno dei personaggi e la ricerca della città dei Goblin
 
 
Masayoshi Sukita, fotografo giapponese di fama internazionale, si ritrovò un giorno del 1972 a fotografare le allora star di Londra (Marc Bolan e i T Rex) e venne presentato in quel frangente  a David Bowie da una sua conoscente la Stylist Yusuku Takahashi. Desideroso di fare bella figura, abbagliato dalla sua personalità, Sukita trovò  in Bowie “qualcosa di diverso dalle altre star del Rock and Roll, qualcosa di speciale che doveva fotografare.” La collaborazione che presto diventò una storica amicizia progredì negli anni, Bowie diceva di lui: “Forse lui potrà scattare foto per l’eternità” a Sukita dobbiamo la celebre copertina di ‘Heroes’ del 1977 (l’anno prossimo la canzone omonima dell’album compirà 40 anni). Il fotografo ha permesso tramite una rara collaborazione con l’ ‘Ono Arte di Bologna” che 40 scatti dedicati all’artista siano esposti nella galleria THESIGN a  Roma dal 24 Ottobre al 19 Novembre 2016. Le foto sono valorizzate da una cornice di gusto fine e ricercato, l’ingresso ci accoglie con il video di “Life On Mars, e ci introduce nell’elegante salotto dei sogni, ogni pezzo dell’esposizione può essere acquistato come un’opera d’arte e gli appassionati possono comprare il catalogo che le racchiude tutte e un esclusivo poster con i famosi  “provini” per il cd della trilogia Berlinese. Immancabile per ogni appassionato che ne abbia l’occasione, l’ingresso gratuito permette a qualsiasi visitatore di affacciarsi a questa dedicata selezione di scatti, proiettando Ziggy Stardust e l’Esile Duca Bianco nell’eternità. 
 
Alcune opere che potrete trovare in galleria
 
Evento inserito nella RAW Rome Art Week
 
INGRESSO LIBERO 
Lun --> Sab 10.00 / 19.00
THESIGN GALLERY ®
Via Piemonte 125/A - Roma 
 
 
Articolo a cura di Francesca Tulli

Warcraft - L'Inizio

Martedì 31 Maggio 2016 11:39
Orchi, incantesimi, portali magici, armature e spade sfavillanti: questo è Warcraft, saga videoludica statunitense iniziata nel 1994. Duncan Jones oggi  riprende il plot del primo capitolo, lo strategico Orcs & Humans, lo farcisce di elementi presi dai romanzi correlati e dal famoso MMORPG (Massive Multiplayer Online Role-Playing Game) e ne fa un film. Il mondo degli Orchi sta morendo, Durotan (Toby Kebbell) capo saggio in attesa del primo figlio, sogna un futuro migliore, egli è buono generoso e  fedele alle tradizioni. Gul'Dan (Daniel Wu) suo contrario, nascosto dal suo oscuro matello, è potente e vile, usa la magia nera del Vil, una terribile fonte distruttiva che si alimenta delle anime dei vinti per guidare attraverso un portale magico la sua orda alla conquista del pacifico mondo di Azeroth. Llane Wrynn (Dominic Cooper), Re degli uomini, minacciato forma una squadra (improbabile) a difesa del regno composta dal valoroso cavaliere Lothar (Travis Filmmel), lo stregone Guardiano Medivh (Ben Foster), la bella mezzosangue Garona (Paula Patton) e perfino lo studioso nerd, giovane e inesperto Khadgar, colto a fare ricerche inopportune negli obitori inseguendo l'origine del Vil. Le alleanze (tra giocatori reali) sono la forza delle dinamiche che determino il successo di una missione all'interno del videogioco della Blizzard, non c'è da soprenedersi se l'armata Brancaleone è così eterogea e scompattata. Con la sovrabbondanza di CGi negli altri blockbuster, siamo ormai assuefatti ad uno standard: attori che vengono trasformati dalla Motion Capture in creature di altri mondi e faticano a recitare accanto ai pupazzi (realistici) e alle controparti in carne ed ossa, qui il regista (trattandosi della trasposizione di un videogioco che nasce digitale per definizione) ha intelligentemente adottato un'altra strada, si è servito spesso della  Industrial Light and Magic, per ricreare gli Orchi, senza l'ingombro e le limitazioni delle movenze umane, ha fatto a meno della Motion Capture e ha ricreato negli alter ego le espressioni degli attori interamente da zero, permettendogli di assumere  qualsiasi innaturale posizione e assetto da combattimento. Abbiamo il primo caso (moderno) in cui non è la computer grafica ad essere supporto della recitazione tradizionale ma è il contrario, la sfida è stata quella di rendere gli umani reali all'interno di un contesto totalmente alienante, la forza è la credibilità degli attori che recitano senza difficoltà (o quasi) credendo in quello che fanno con armature ingombranti blu ed oro, pelle verde e formule magiche. Scenografie perfette, musica epica di Ramin Djawadi, non manca dell'ironia del gioco (gli esperti riconosceranno se stessi nella scena della pecora!), getta presupposti per un seguito (le altre razze sono solo di contorno e il finale è aperto). Deus Ex Machina non scontati e telecamere da gioco strategico fanno perdonare la noia di alcune sequenze di assetto, cutscene all'inerno di un videogioco non interattivo che incuriosice i neofiti e strizza l'occhio agli appassionati. Non è il primo caso di videogioco al cinema ma non ha nulla di già visto nei suoi predecessori, il giappone ha provato con team di sviluppo diversi a rendere (senza successo) al cinema la meravigliosa e prolifica saga di Final Fantasy, The Spirits Within (2001) non si serviva di live action, Advent Children era un breve seguito del settimo amatissimo capitolo, più di una aggiunta al gioco meno di un film completo. Questa volta lo stampo USA si vede con tutte le sue classiche e lodevoli particolarità e le  esagerate defezioni. Se il fantasy non fa per voi state alla larga altrimenti benvenuti ad Azeroth!
 
Francesca Tulli

“Ziggy played guitar. Jamming good with Weird and Gilly, the Spiders from Mars” così incarnandone l’alter ego da lui stesso ideato, David Bowie raccontava al mondo (con il brano “Ziggy Stardust”) chi fosse questo affascinante alieno, venuto da Marte sulla terra per esibirsi in pubblico nell’omonimo Tour in 103 concerti, 60 città dal 29 Gennaio del 1972 (Aylesbury) al 3 luglio del 1973. L’ultima tappa (filmata dal regista D.A. Pennebaker) avvenne a Londra sul palco dell’Hammesmith Odeon.

Il figlio del regista, Frazer Pennebaker, oggi ha riproposto (in qualità 4K con audio 5.1) quella giornata straordinaria con il progetto “Ziggy Stardust & The Spiders from Mars: il film” (in Italia a cura di Nexo Digital) per riportarlo cinquant’anni dopo nei cinema di tutto il mondo. Il documento di straordinaria importanza, non è un vero e proprio “film” come suggerisce il titolo, ma una versione inedita del concerto, con la scaletta completa e l’aggiunta (rispetto alla versione precedente) della performance di “The Jene Genie” e la chiusa di Jeff Beck .
Facciamo un salto nel passato: nei (pochi minuti) di dietro le quinte, Bowie, instancabile professionista, è nel suo camerino, con lo staff di truccatrici e costumiste che gli sistema un look già perfetto. Angie, sua prima moglie, ironizza sul suo rossetto e lui risponde sardonico: “Sei una ragazza, che ne vuoi sapere di trucchi”. Il ragazzo di appena 26 anni, sta per incantare un pubblico di 5000 fan scalmanati, con alle spalle l’esperienza degli Stati Uniti e del Giappone, di cui ha assorbito l’essenza, durante il concerto indossa (tra gli altri) un abito striminzito da donna, con un coniglio ricamato , che si dice trovò dimenticato in una vetrina e che, neanche le signore lo volevano, ma lui riconobbe il talento dello stilista Kansai Yamamoto e lo comprò, stringendo poi un’amicizia con l’ideatore con cui nacque una collaborazione straordinaria negli anni a seguire.

Bowie si approccia al palcoscenico non solo come cantante ma piuttosto come attore, racconta delle storie e come tutte, ne scrive l’inizio e la fine. Quel concerto raccontava l’epilogo della brevissima vita di Ziggy, un personaggio vissuto per poco più di un anno che, romanticamente con la canzone “Rock’n’Roll Suicide”, si congedava dal suo pubblico di adoranti con le note che accompagnano i versi: “Gimme your hands cause you’are wonderful”. Il 13 aprile del 1973 Bowie, pubblicherà un nuovo album che avrà il nome di quello che lui stesso definiva lo “Ziggy Americano”  Aladdin Sane, con la celebre saetta sul volto, a testimoniarne il suo lascito, che gli permise una lunga e straordinaria vita consacrata alla sua arte.

Francesca Tulli