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Marco Müller, neo direttore del Festival Internazionale del Film di Roma, in una recente chiacchierata con la nostra esperta di cinema asiatico, Mariagrazia Costantino, ha raccontato l’attuale situazione della cinematografia cinese e i suoi possibili scenari futuri. L'importante è non dimenticare che il cinema è una complessa macchina produttiva che affonda le radici nel cuore della politica e dell’economia.

 

Il direttore del Festival Internazionale del Film di Roma ci ha parlato dell’attuale situazione del cinema cinese e di possibili scenari futuri alla luce della sua esperienza di direzione di prestigiosi festival (Locarno, Venezia), ma anche in veste di specialista che si adopera per portare film cinesi in Italia e nel mondo, e formare un pubblico consapevole.


Dalla conversazione con Marco Müller sono emerse nuove modalità di conoscenza e approfondimento critico di un sistema in piena espansione, nella fase successiva alla sua affermazione e in un momento di consolidamento ma anche ridiscussione. E soprattutto un momento in cui il mercato del cinema in Cina sta manifestando il suo pieno potenziale.

Il mercato definisce anche, in

 qualche modo, il cinema cinese in sé. Per Müller non esiste più un cinema “cinese”, come d’altra parte non esistono più cinema nazionali. Ormai quella del cinema è una macchina transnazionale che si avvale della cooperazione di gruppi e società provenienti da continenti diversi. In modo anche più evidente di altri settori, quello cinematografico sta mutando, il baricentro si sta inevitabilmente spostando, come si intuisce dalla crescente presenza di attori hollywoodiani non solo nei film cinesi, ma anche nei festival.

Uno dei paradossi è che in questo scenario, la caratteristica – vero e proprio marchio di fabbrica – che sembra resistere intatta e anzi prosperare più che mai è proprio la censura. Se non è facile stabilire cosa, come sia e dove vada il cinema cinese, c’è ancora oggi un gruppo di persone molto influenti che si preoccupa di stabilirlo per noi.

A questo proposito, abbiamo chiesto al direttore spiegazioni circa la scelta di presentare 1942 (Feng Xiaogang) e Drug War (Johnnie To), i film cinesi in concorso alla VII edizione del Festival del Film di Roma, la prima da lui diretta, come film a sorpresa. Ci ha risposto che si è trattato di una scelta obbligata, perché “regista e produttore aspettavano il visto di censura, che per fortuna è arrivato, ma solo a festival iniziato. Abbiamo dunque dovuto annunciarli come ‘film sorpresa’: solo in questo modo, se fossero stati proiettati senza visto di censura, regista e produttore non sarebbero incorsi nella reprimenda dei censori”.

Non rendere noti i titoli ha dunque permesso di aggirare possibili divieti a ridosso della proiezione e ha evitato ulteriori problemi all’organizzazione e ai registi. Ma in realtà nel 2012 ben pochi film hanno passato la censura, per il concomitante XVIII Congresso del Partito Comunista: questo e la nomina del nuovo presidente lo scorso novembre hanno stretto ancora di più le maglie della censura. “Come avviene tutte le volte, quello che si verifica è un rigoroso controllo della rispondenza ai dettami ideologici che il potere centrale prescrive e di conseguenza una strettissima sorveglianza sui temi che un film deve trattare”.

In circostanze come queste qualsiasi tema diventa sensibile, m
a la storia del paese o riferimenti ad attività illecite e fenomeni criminali come la corruzione costituiscono certamente argomenti particolarmente spinosi da gestire. 


Circa lo stato del cinema cinese, e il punto fino al quale la censura determina scelte artistiche e creative, Müller fa notare che “in Cina c’è un cinema policentrico che comprende tantissime realtà diverse così come tipi di produzioni. Si va dal film minuscolo completamente autoprodotto e a bassissimo budget alle megaproduzioni di colossal”.

La legge sulla censura non è sostanzialmente cambiata nel paese, ma per capire come viene applicata va innanzitutto messo a fuoco il contesto: “più un film è piccolo meno attirerà l’attenzione delle autorità e quindi potrà essere distribuito attraverso canali ufficiali e non”. Va da sé che una grossa produzione dovrà necessariamente essere passata al vaglio e molte volte respinta: “è in questo frangente che si decide se un film potrà essere fatto vedere in tutto il mondo”.

 

 

Temi sensibili, scioperi di lavoratori e agitazioni della popolazione sono inaccettabili, perché il primo obiettivo è quello di intrattenere, far divertire”. Rare volte e in circostanze inaspettate, alcuni film con temi sociali più “impegnativi” riescono a passare attraverso le maglie della censura. Tutto ciò getta luce sull’incongruenza di fondo di un sistema quasi totalmente dipendente dal mercato e dal suo andamento, ma basato anche sulla selezione, un’accurata scrematura di temi accettabili ai fini dell’intrattenimento di massa che il cinema deve assicurare sempre e comunque. E se il mercato come ci è stato raccontato dovrebbe poter garantire maggiore autonomia dai governi centrali tradizionalmente interventisti, anche in questo il sistema cinese rappresenta un’eccezione.

 


All’inizio mi sfugge ad esempio il motivo per cui un film come 1942 di Feng Xiaogang sia incorso nella censura delle autorità: personalmente lo trovo abbastanza in linea con le linee guida del partito. “Mica tanto”, spiega Müller, “nel film si mostra molta chiaramente come la politica e i suoi esponenti non siano stati capaci di fare fronte ai problemi della gente, primi tra tutti la carestia e l’approvvigionamento di cibo. In poche circostanze un regista ha saputo descrivere così bene e in modo così dettagliato la condizione delle campagne. È difficile che si tratti questo argomento in Cina. Certamente il film ha tanti registri diversi ma c’è una bella intelligenza nel rappresentare la continuità tra i nuovi politici e i vari governi del passato”.

 

 


 

Aldilà del colore delle divise o della collocazione storica, il pubblico cinese sa benissimo che il riferimento è alla classe dirigente, compresa quella attuale.

Se agli occhi del regista e del pubblico cui si rivolge, il clima politico è rimasto più o meno invariato, un altro grosso problema con cui fare i conti è l’evocazione del fantasma della fame, il cui ricordo è ancora tristemente vivo nel paese. “In effetti quello della carestia” – ci dice Müller – “è un problema che ancora oggi non si può e non si osa trattare, anche per via del suo legame con le politiche di gestione delle campagne del governo e per le diverse carestie scatenate dalle riforme che si sono succedute a partire dal 1951”.Una domanda che andrebbe bene per un veggente riguarda le possibili direzioni del cinema cinese. Il direttore del Festival di Roma ribadisce che bisogna partire dalla consapevolezza che il cinema nazionale è un concetto ormai superato. L’unico modo per poter immaginare o prevedere le tendenze dell’industria del Cinema in Cina è guardare al mercato: è quello che determinerà la realizzazione di nuovi film e soprattutto la loro ricezione.


La Cina è diventata un mercato enorme che orienterà sempre più la produzione e circolazione di film: “gli incassi di un film americano sul territorio cinese fra due anni potranno probabilmente addirittura superare gli incassi dello stesso film negli Stati Uniti”, e “Il cinema cinese sarà presto – forse in parte già lo è – anche un cinema di produttori cinesi che produrranno film non cinesi”.
Per molti osservatori il cinema cinese, così come l’arte contemporanea, è stato penalizzato da una percezione univoca che ne ha fatto parlare in molti casi come di un “fenomeno”. Per Müller come si sia manifestata questa percezione non è molto chiaro, ma è certo che “nessuno dei protagonisti della circolazione dei film non

-nazionali e non-americani in Europa si è occupato del cinema cinese finché alcuni dei suoi film non hanno iniziato a prendere riconoscimenti ai festival internazionali di Venezia, Berlino e Cannes, ma un simile risultato ha richiesto un grande sforzo promozionale.

Dalla metà degli anni ottanta ci sono stati dei successi del cinema cinese anche in Italia, pur con grossi rischi e difficoltà di budget. Quello cinese (nel senso di produzione cinese con temi cinesi)” – continua Müller – “è diventato un cinema importante all’estero e questo vuol dire che ci saranno interventi dicapitali stranieri nei film cinesi”. Ma non si può dire lo stesso del cinema asiatico nella Cina continentale. Per questo motivo, e per far sì che possa penetrare in Cina, “si stanno formulando e suggerendo ipotesi concrete di cofinanziamento e coproduzione”.


Per capire come funziona il mercato cinese si può usare un film come Sanxia Haoren (Still Life) di Jia Zhangke, Leone d'Oro nel 2006, distribuito in Cina dalla Warner. Uno degli aspetti più interessanti è che un film del genere, che tocca vicende tradizionalmente invise alla censura, a fronte di un’uscita limitata nelle sale è stato un successo clamoroso sul fronte homevideo, in un paese dove questo è ancora e soprattutto pirata”. Sul territorio cinese la vera sfida è dunque creare un mercato homevideo che riesca a sfidare l’invasività della pirateria.

 



Il fatto che fino a venti anni fa o poco più nessuno conoscesse il cinema cinese e che solo a prezzo di grandi sforzi alcuni film siano stati portati all’estero per partecipare ai maggiori festival europei sembra aver innescato un circolo al tempo stesso virtuoso e vizioso, perché se da un lato ha permesso al cinema cinese di trovare un pubblico internazionale, o un pubblico tout court, dall’altro fa sospettare che questi film siano stati realizzati principalmente per un pubblico non-cinese.

Anche per questo motivo quelli che partecipano ai festival diventano in un certo senso film non-cinesi, un altro paradosso mirabilmente esemplificato dal fatto stesso che il film di Jia sia stato distribuito in Cina dalla Warner. Più in generale la risposta di Müller sembra confermare la sensazione che il boom del cinema cinese sia percepito come un fenomeno (e come tale temporaneo), reazione forse derivata da due situazioni concomitanti: una è la necessità di creare un una cornice narrativa che faciliti la “vendita” del prodotto, ovvero abbinare ad esso una storia che lo renda più accattivante; l’altra è un certo scetticismo nei confronti della possibilità del cinema cinese di essere autonomo e autosufficiente. Questa autonomia oggi è garantita dalla forza di un mercato trainato dalla crescita economica.

A fronte di un’“internazionalizzazione” del cinema cinese, il cinema di Hong Kong sembra essersi “sinizzato”. Se infatti non esiste più un cinema nazionale, alcune cinematografie stanno necessariamente perdendo la loro identità o meglio la stanno esportando: è il caso di Hong Kong, i cui maestri, specialmente del cinema d’azione, hanno iniziato a girare nella Cina continentale. A proposito dell’interessante caso, il direttore ricorda che il cinema di Hong Kong è un cinema di eredità sin da subito. Nel 1937, con il trasferimento a Hong Kong delle case di produzione di Shanghai e di tutto l’apparato creativo, l’ex colonia “ha ereditato la possibilità e la capacità di fare film aggirando le vecchie tematiche e gli imperativi della propaganda patriottica e antigiapponese”, sviluppandosi come alternativa che al tempo stesso segna una continuità, con temi e stilemi codificati.

Anche qui non si può fare a meno di parlare di mercato, perché il cinema di Hong Kong non è più autosufficiente come una volta, quando si appoggiava agli incassi e al mercato locale. Resta il prestigio e uno stile inconfondibile, “ma i grossi budget sono ormai elargiti in capitali della Cina popolare e tutti devono passare la censura preventiva di Pechino”. Oggi il cinema di Hong Kong si sinizza perché da lì, dal centro, provengono i grandi finanziamenti, e l’immagine da restituire deve necessariamente corrispondere a quella di partenza. 

Un cineasta come Tsui Hark si è già da tempo abituato a muoversi con una certa agilità tra i tagli imposti dalla censura, diverso è il caso di Johnnie To, regista di culto: di norma “ogni film di Johnnie To (come ogni altro film di registi cinesi di Hong Kong) che viene finanziato, prodotto o coprodotto da una società della Cina continentale, deve passare la censura di quel paese – in quel caso, iniziando dal visto di censura sulla sceneggiatura. A volte, però, Johnnie non ha voluto rischiare di essere bloccato o censurato e ha scelto di non accettare un finanziamento o una coproduzione RPC, accontentandosi del budget che poteva ottenere dai suoi soci di Hong Kong e Macao”.


Tornando al cinema indipendente cinese,  primo amore di Müller, un film come Mister Tree di Han Jie, presentato nel 2011 al London Film Festival, rappresenta per lui la prosecuzione del cinema indipendente. Ma anche Han Jie ha avuto moltissimi problemi con la censura, “il film è stato ritoccato, si è trovato una posizione molto complicata, ha subito tagli e Jia Zhangke in persona è dovuto intervenire per terminarlo”. Lo stesso Jia, che sembra essersi preso una pausa, in realtà non ha mai smesso di lavorare: è solo momentaneamente uscito di scena perché ha iniziato a girare il suo primo colossal – un film di arti marziali.



Infine, ho chiesto al direttore del Festival del Film di Roma il suo parere su Ai Weiwei, un’artista da tempo sulla bocca di tutti, osannato ma anche oggetto di pungenti critiche. Per Müller si tratta di un grandissimo artista, che nel “continente visivo cinese” ha cambiato il modo di guardare. “Probabilmente l’impatto delle sue creazioni salterà fuori anche dentro cinema indipendente e troveremo alcune delle sue scelte radicali anche nel cinema”, infatti “molti dei grandi artisti cinesi sono registi a tutti gli effetti e hanno girato cortometraggi e persino lungometraggi.” Parte del loro percorso artistico include la necessità di registrare la realtà non edulcorata né abbellita nel modo più lineare possibile. Non a caso la tendenza dei cineasti a “documentare” è ancora molto forte all’interno del cinema cinese indipendente.

Abbiamo scoperto grazie a Marco Müller che la definizione stessa di “cinema indipendente” non è impropria e risponde a un’entità reale ed effettiva, ma quello che è emerso dalla conversazione con lui è soprattutto la necessità, oggi più che mai, di spezzare l’incantesimo che grava su un pubblico forse troppo distratto, che non si interroga sull’origine di un film e sul percorso che questo compie, come se si trattasse di visioni che si materializzano dal nulla. Dietro ogni film c’è una complessa macchina produttiva che affonda le radici nel cuore della politica e dell’economia. Una volta conosciute alcune delle infinite ramificazioni che compongono la vita di un film è certamente rassicurante “tornare” sulla poltrona e godersi lo spettacolo, con in più la consapevolezza che quello che si sta guardando è potuto arrivare a noi solo a patto di estenuanti trattative e soluzioni per aggirare divieti, difficoltà di budget e problemi di distribuzione.

Se le parole di Müller sembrano delineare un quadro lievemente incerto, quello che sembra sicuro è che il mercato cinematografico cinese è sempre più maturo. il vero miracolo che il cinema compie è continuare a garantire la comparsa di storie e temi significativi in un contesto generale che rende i compromessi necessari e la censura (che spesso diventa autocensura) ineludibile. D’altra parte più importante della libertà, o del tutto equivalente ad essa, sono oggi i finanziamenti. E se in Italia la censura non opera attraverso le stesse modalità, anche in questo paese i finanziamenti rappresentano il punto critico di un sistema minacciato da un monopolio di poteri politici forti che influenzano le attività culturali in modo consistente.

 

Mariagrazia Costantino

 

..vedi anche http://www.china-files.com/it/link/25499/il-cinema-cinese-intervista-a-marco-muller

Venezia 69

Giovedì 26 Luglio 2012 07:58

A quasi un mese dalla prestigiosa Mostra del Cinema di Venezia ecco tutte le anticipazioni e le curiosità sul programma e sugli eventi collaterali che arricchiranno la kermesse, giunta alla sua 69esima edizione, che si terrà, come di consuetudine, nella magnifica cornice del Lido, dal 29 agosto all'8 settembre.

Cominciamo con i due eventi principali, che andranno di pari passo con la programmazione del festival, stiamo parlando della Settimana Internazionale della Critica (SIC) e delle Giornate degli Autori.


 

27esima Settimana Internazionale della Critica. Il cinema è donna.

Annunciate le novità della 27esima Settimana Italiana della Critica, dal 29 agosto all'8 settembre.

Moltissime le novità di quest'anno tra cui la non facile scelta di 7 opere, tutte rigorosamente in prima visione mondiale. Francesco di Pace, Delegato Generale della commissione selezionatrice, afferma quanto l'impegno sia stato particolarmente gratificante: “La scelta di opere prime è sicuramente una caratteristica molto importante in un festival, non rappresentando qualcosa di facile ma che rende evidente l'alto livello qualitativo del cinema di esordio, realizzato anche con bassi budget”. Il dato rilevante di questa edizione è decisamente riscontrabile nel sovraffollamento di “quote rosa a rappresentanza di un cinema mondiale di qualità, a sottolineare l'urgenza e il coraggio espressivi capaci di superare ostacoli culturali, censure politiche o economiche”, continua Di Pace. Non è un caso che quattro degli otto registi esordienti siano donne, con un nono titolo che si inserisce nella selezione sotto forma di opera collettiva, si tratta di Water, frutto di un progetto dell'Università di Tel Aviv, girato e interpretato da registi e attori israeliani e palestinesi, collage di 7 cortometraggi legati al tema dell'acqua.

La città ideale, esordio alla regia di Luigi Locascio, sarà l'apertura della sezione veneziana, proponendo un lavoro maturo nella tradizione di un cinema di un certo impegno civile che vira verso un giallo morale, non esulando da risvolti originali e misteriosi.

Gli altri titoli sfiorano aspetti sociali e politici, a partire dal turco Kuf di Aly Aidin o il coraggioso Xiao He (Lotus) della cinese Liu Shu, che riprende il tema della dissidenza ad un regime imperante attraverso gli occhi di una giovane insegnante. Un altro personaggio femminile che sconta il coraggio delle proprie scelte progressiste, soprattutto in ambito sessuale, lo ritroveremo nel lavoro del belga Tom Heene, Welcome Home. Sempre la ricerca del sé caratterizza O luna in Thailandia di Paul Negoescu, opera che strizza l'occhio al cinema sentimentale francese pur mantenendo la costante condizione di spaesamento giovanilistico. Sempre dall'Europa arriva Äta sova dö della regista Gabriela Pichler, nel quale l'elemento di disturbo è la crisi economica e la precarietà del lavoro.

Messicano è invece il film che chiude la sezione competitiva, No quiero dormir sola di Natalia Beristain, ritratto amorevole di due donne, nonna e nipote, che si confrontano nelle loro differenti fasi di vita, riuscendo a sfiorare anche il duro tema dell'eutanasia.

Le difficoltà del vivere nella crisi economica, la solitudine individuale, la percezione del proprio corpo, l'amore difficile e spesso impossibile sono i punti cardine su cui ruota l'intera selezione, proprio per questo l'opera scelta a chiusura sembrerebbe oltremodo stravagante. Stiamo parlando di Kiss of the Damned, evento speciale e fuori concorso, della figlia d'arte Xan Cassavetes. La pellicola ci propone un'affascinante ed erotica storia tra due sorelle vampire del Connetticut in un omaggio inequivocabile alla cinematografia italiana di Mario Bava con una forte contaminazione di underground, videoarte e fumetto statunitense.

Il premio del pubblico, del valore di cinquemila euro, è messo in palio dalla casa di produzione Raro Video, che attraverso le parole di Gianluca Curti, fondatore assieme al fratello Stefano, sottolinea l'onore di poter partecipare all'importantissima manifestazione veneziana così vicina quest'anno come non mai “ai concetti di sperimentazione e videoarte sempre presenti nel nostro stile produttivo”.


 

Le Giornate degli Autori: un equilibrio tra sperimentazione e trasformazione.

Inizia infatti il 30 agosto, per poi terminare l'8 settembre, la nona edizione delle Giornate degli Autori/ Venice Days 2012, sezione parallela e ormai consueta della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, sotto l'immancabile direzione di Giorgio Gosetti.

Tre i segni distintivi: lo sguardo femminile della creatività con il progetto Women's Tales, che occuperà i primi tre giorni della rassegna attraverso singolari ritratti femminili, tra i quali spicca la riproposizione Meshes of the Afternoon (1943) della tedesca Maya Deren, opera ai primordi della sperimentalità, fonte di ispirazione per celebri contemporanei; l'irruzione del Cinema Corsaro, selezione autonoma di opere d'autore, innovative e d'avanguardia tra cui affiorano i nomi di Corso Salani, Enrico Ghezzi, Ugo Gregoretti, solo per citarne alcuni, proposta nello spazio della Pagoda al Lido dal 2 al 6 settembre; la riflessione sul Cinema degli anni Zero, dialogo a più voci che si svolgerà nei giorni 5 e 6 settembre.

Il senso di una rassegna autonoma a fianco della Mostra – dice Giorgio Gosetti – non può essere solo nella qualità dei film presentati. Ciò che spiega un programma è la sua articolazione complessiva, la forza di una proposta quest'anno fortemente caratterizzata e varia nei temi come nei linguaggi.” Secondo Roberto Barzanti, Presidente della rassegna, “Le giornate hanno acquisito da tempo uno status e una credibilità che ci rende orgogliosi, ma questo non sarebbe stato possibile senza l'impegno congiunto di istituzioni pubbliche e finanziatori privati, i reali partner di un'idea complessiva”. A testimonianza di ciò arriva il Premio Lux, sostenuto dal Parlamento Europeo che decide di insignire, proprio in questa occasione, uno dei tre finalisti fra Csak a szél (Just the Wind) dell'ungherese Bence Fliegauf, Io sono Li di Andrea Segre e Tabu del portoghese Miguel Gomes. Affiancato a tale premio si inserisce il progetto 27 volte cinema rivoto a 27 giovani cineasti di tutti i Paesi dell'Unione Europea. La selezione di questa edizione si mostra vasta, ricercata e ricca di nomi celebri che affiancano quelli degli esordienti, con uno sguardo particolare alle produzioni italiane. 30 le opere in anteprima mondiale, di cui 10 della selezione ufficiale: Heritage di Hiam Abbas, Queen of Montreuil della francese Solveig Anspach, Keep Smiling di Rusudan Chkonia, Blondie di Jesper Ganslandt, The Weight di Jeon Kyu-hwan, Hayuta Ve Berl (Epilogue) di Amir Manor, Il Gemello di Vincenzo Marra, Stories We Tell di Sarah Polley, Acciaio di Stefano Mordini e Kinshasa Kids di Marc-Henri Wajnberg. Gli Eventi Speciali arricchiranno il programma, con una serie di ritratti artistici sempre nella chiave della sperimentazione, accanto ai quali si posiziona 6 sull'autobus, progetto collettivo dell'Accademia Silvio D'Amico. Le Venice Nights, tutte al sapore italiano, saranno da corollario serale alle intense giornate di proiezione.

La commistione nella trasformazione dei linguaggi, che appaiono sempre più inclassificabili e sorprendenti, è il fil rouge che accompagna la manifestazione, dove troverà spazio anche la musica ad invadere le sale e la Casa degli Autori con artisti provenienti da tutto il mondo.

 


 

La 69esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sembra ruotare attorno a due concetti chiave: novità e rinnovamento. È quello che si propongono Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia, e Alberto Barbera, Direttore del Festival, assente in questa veste dal 2000.

 

Il rinnovamento sarà su due piani: il primo quello delle stutture fisiche che ospiteranno la Mostra (il rinnovo completo delle sale Pasinetti e Zorzi, lo spostamento della Sala Volpi dentro il Casinò, il recupero-ripristino del Foyer della Sala Grande, insieme al rienterro della voragine a cielo aperto che lo scorso anno ingombrava e restringeva spazio e movimento esterno) e il secondo andrà ad incidere proprio sulla formulazione di un nuovo assetto interno alle sezioni (abolimento di Controcampo Italiano, perchè vissuto come una "terra di indiani, una sorta di ghettizzazione del cinema" e introduzione di 80!, una retrospettiva su rarità filmiche dell’Archivio Storico della Biennale per festeggiare gli ottant’anni dalla nascita del Festival. Oltre alle classiche sezioni parallele e autonome della Settimana internazionale della Critica e delle Giornate degli Autori, e alle novità appena annunciate ritroviamo la classica competitiva Venezia 69Orizzonti Fuori Concorso.

Altra novità di questa edizione è data dall'introduzione del Film Market, appendice più strettamente operativa rispetto alla confermata Industry Office, che darà agli addetti al settore anche la possibilità di uno scambio vitale alla circolazione successiva delle pellicole.

Il forte spirito di rinnovamento del resto lo si percepisce dalla siglia introduttiva della manifestazione, interamente affidata al talento visionario di Simone Massi "animatore-illustratore resistente-indipendente", reduce da una personale ad Arcipelago, dall'attribuzione del David al miglior cortometraggio e da numerosi altri riconoscimenti.

Delle grandi prospettive si scorgono inevitabilmente nel programma competitivo, fatto di 18 titoli di cui uno a sopresa fino alla fine, tutti di grandissimi cineasti. Accanto ai grandi autori e ai registi consolidati (Assayas, Bellocchio, Kim Duk-kim, Kitano, Malick, De Palma, Ciprì tra quelli in concorso; Gitai, Spike Lee, De Oliveira, Bier, Demme, Cavani tra i fuori concorso, Wakamatsu e Tsai Ming Liang in Orizzonti), sono presenti anche autori ancora troppo sconosciuti come Haifaa Al Mansour, prima donna regista in Arabia Saudita, fino a pochissimi

 anni fa fondamentalista anche nel cinema oppure Min Bham, autore di Bansulli, primo corto mai realizzato in Nepal. I paesi che rientrano nella programmazione sono ben 51, tra europei ed extracontinentali confermando che, se da un lato il cinema è in crisi, dall’altro è in fermento in luoghi ancora ‘vergini’ creativamente e nel consumo come Guatemala, Indonesia o Malesia.

Un importante senso di uscire dai confini, soprattutto fisici, ci è dato dall'introduzione di Orizzonti Festivalscope, piattaforma online interamente dedicata alla sezione di Orizzonti, in cui sarà possibile assistere in streaming, in contemporanea con l'uscita ufficiale in sala, alla maggior parte dei film della sezione, acquistando un biglietto del costo di 4 euro.

Tema principale di quest'anno che rispecchia il must sociopolitico degli ultimi anni è la crisi, nelle sue svariate sfaccettature contemporanee: economica, di valori, di rapporti, politica, al quale fa da rimando il fondamentalismo, anch’esso stratificato nel senso e nel significato.

Tutti i film della selezione ufficiale sono prime mondiali con la sola eccezione di Penance di Kiyoshi Kurosawa della durata di 5 ore perché è nato da un progetto di un più lungo serial televisivo trasmesso in prima visione solo in Giappone: un horror che il regista ha montato esclusivamente per l'evento in una versione 

cinematografica. L'apertura è affidata ad una doppia proiezione: l’ultimo film di Mira Nair fuori concorso, The Reluctant Fundamentalist, che affronta la difficile tematica del fondamentalismo e un documentario musicale di Jonathan Demme sul musicista partenopeo Enzo Avitabile . Chiuderà invece il festival L’homme qui rit di Jean Pierre Ameris, trasposizione cinematografica del romanzo di Hugo.

Tra i molti film americani e le co-produzioni francesi da segnalare Passion di Brian De Palma, girato interamente a Berlino, Spike Lee con un documentario su Micheal JacksonTerrence Malick e la presenza di Robert Redford. Le star saranno moltissime: Ben Affleck, James Franco, Gerard Depardieu, Nick Nolte, Dennis Quaid, Stanley Tucci, Selena Gomez, Naomi Rapace, Winona Ryder, solo per fare alcuni nomi. Il leone d'oro alla carriera è stato attribuito a Francesco Rosi, che dall'alto dei suoi quasi 90 anni può essere a tutti gli effetti considerato autore simbolo e innovatore del cinema italiano di impegno civile, con film quali Le mani sulla città, Leone d’oro alla Mostra di Venezia nel 1963, Il caso Mattei, Palma d’oro a Cannes nel 1972, e Salvatore Giuliano, Orso d’argento a Berlino nel 1961.

 

 

 

 

a seguire tutti i titoli della Mostra:

Sezione Competitiva Venezia 69

Après Mai di Olivier Assayas (Francia) 
At Any Price di Ramin Bahrani (Usa, Gran Bretagna) 
Bella Addormentata di Marco Bellocchio (Italia) 
La Cinquième Saison di Peter Brosens e Jessica Woodworth (Belgio, Paesi Bassi, Francia) 
Lemale Et Ha'chalal(Fill The Void) di Rama Burshtein (Israele) 
E' Stato Il Figlio di Daniele Ciprì (Italia) 
Un Giorno Speciale di Francesca Comencini (Italia)

Passion di Brian De Palma (Francia, Germania)

Superstar di Xavier Giannoli (Francia, Belgio) 
Pieta di Kim Ki-Duk (Corea del Sud) 
Outrage Beyond di Takeshi Kitano (Giappone) 
Spring Breakers di Harmony Korine (Usa) 
To The Wonder di Terrence Malick (Usa) 
Sinapupunan (Thy Womb) di Brillante Mendoza (Filippine) 
Linhas de Wellington di Valeria Sarmiento (Portogallo, Francia) 
Paradies: Glaube (Paradise: Faith) di Ulrich Seidl (Austria, Francia, Germania) 
Izmena (Betrayal) di Kirill Serebrennikov (Russia) 

Orizzonti: 

Wadjda di Haifaa Al Mansour (Arabia Saudita, Germania) 
Khanéh Pedari (The Paternal House) di Kianoosh Ayari (Iran) 
Ja Tozhe Hochu (I Also Want It) di Alexey Balabanov (Russia) 
Gli Equilibristi di Ivano De Matteo (Italia) 
L'Intervallo di Leonardo Di Costanzo (Italia, Svizzera, Germania) 
El Sheita Elli Fat (Winter Of Discontent) di Ibrahim El Batout (Egitto) 
Tango Libre di Frédéric Fonteyne (Belgio, Francia, Lussemburgo) 
Menatek Ha-Maim (The Cutoff Man) di Idan Hubel (Israele) 
Gaosu Tamen, Wo Cheng Baihe Qu Le (Fly With The Crane) di Ruijun Li (Cina) 
Kapringen (A Hijacking) di Tobias Lindholm (Danimarca) 
Leones di Jazmin Lopez (Argentina, Francia, Paesi Bassi) 
Bellas Mariposas di Salvatore Mereu (Italia) 
Low Tide di Roberto Minervini (Usa, Italia, Belgio) 
Boxing Day di Bernard Rose (Gran Bretagna, Usa) 
Yema di Djamila Sahraoui (Algeria, Francia) 
Araf (Araf - Somewhere In Between) di Yesim Ustaoglu (Turchia, Francia, Germania) 
Sennen No Yuraku (The Millennial Rapture) di Koji Wakamatsu (Giappone) 
San Zi Mei (Three Sisters) di Bing Wang (Francia, Hong Kong-Cina) 


Fuori Concorso: 

The Reclutant Fundamentalist di Mira Nair – film d’apertura del Festival (India, Pakistan, Usa) 
L’homme qui rit di Jean-Pierre Ameris (Francia, Repubblica Ceca) 
Anton Tut Ryadom (Anton’s Right Here) di Lyubov Arkus (Russia) 
Den Skaldede Frisor (Love Is All You Need) di Susanne Bier (Danimarca, Svezia) 
Cherchez Hortense di Pascal Bonitzer (Francia) 
Ya Man Aach (It Was Better Tomorrow) di Hinde Boujemaa (Tunisia) 
Sur un fil… di Simon Brook (Francia, Italia) 
Enzo Avitabile Music Life di Jonathan Demme (Italia, Usa) 
Lullaby To My Father di Amos Gitai (Israele, Francia, Svizzera) 
Shokuzai (Penance) di Kiyoshi Kurosawa (Giappone) 
Bad 25 di Spike Lee (Usa) 
Witness: Libya di Michael Mann (Usa) 
Medici con L’Africa di Carlo Mazzacurati (Italia) 
O Gebo e A Sombra di Manoel De Oliveira (Portogallo, Francia) 
The Company You Keep di Robert Redford (Usa) 
Shark (Bait 3D) di Kimble Rendall (Australia, Singapore, Cina) 
Disconnect di Henry-Alex Rubin (Usa) 
La Nave Dolce di Daniele Vicari (Italia, Albania) 
The Iceman di Ariel Vromen (Usa) 

maggiori approfondimenti all'indirizzo http://www.labiennale.org/it/cinema/mostra-69/film/

 

Chiara Nucera


 


 

Sacro GRA

Giovedì 12 Settembre 2013 21:43
Bertolucci voleva essere sorpreso. E Rosi l’ha accontentato. Con un lungo lavoro di ricerca sul campo - il documentario esige un tragitto in solitaria che, col rischio dell’autismo, arriva ad un “prodotto” finale che è una sorta di sintesi di molteplici incontri, sguardi, parole, riflessioni – il documentarista di fama internazionale (lo conoscono forse di più in America che in Italia) crea una pietra preziosa fatta di tante rifrazioni cromatiche quanti sono i frammenti di vita che riprende e restituisce allo spettatore. 
Dopo tre anni passati a circumnavigare il GRA, a mappare emotivamente quel cerchio di traffico che cinge Roma, a conoscere l’umanità palpitante che lo popola, Rosi e i suoi collaboratori (Dario Zonta, preziosissimo direttore artistico e Nicolò Basetti paesaggista-urbanista che inizia l’avventura di scoperta del raccordo), ci regalano dei personaggi autentici attraverso una sperimentazione narrativa imperniata sul togliere. Trasformazione e sottrazione sono le cifre stilistiche di questo lungo lavoro che è, nelle parole di Rosi, “prima di tutto un atto di amore nei confronti dei personaggi”. Privi di una storia che li intreccia, appaiono e scompaiono (dimostrando un’ incredibile capacità di mettersi in gioco, di recitare con naturalezza, dimenticando di essere ripresi) di modo che ogni frammento di vita mostrata rappresenti, in sintesi, l’essenza dei personaggi, in cui risiede tutta la loro forza poetica. Che continua oltre i limiti del tempo del documentario.
La poeticità stabilisce un contatto diretto con la sacralità, che è la cifra del mistero di un luogo e dei personaggi che lo abitano, di cui Rosi dona allo spettatore un’ occhiatina furtiva senza svelare la loro complessità. La sacralità, e al tempo stesso la magia del documentario, consiste nella trasformazione di un luogo piuttosto squallido, scandito dal ronzio continuo delle auto nella piastra rovente di cemento, in uno spazio capace di rendere racconti delle vite ordinarie. Il raccordo si trasforma in un cerchio magico che ci conduce verso altri mondi, nei dialoghi fra un padre intellettuale che intrattiene la figlia studiosa con le sue riflessioni su Durrell, nel camper di due prostitute incasinate con la legge, nei salotti di un principe in cui si incontrano gli attori di un fotoromanzo, nell’ironia coinvolgente di un pescatore d’anguille che legge un servizio sulla pesca delle anguille, in un biologo che registra i suoni delle palme morenti, negli interni barocchi e anche un po’ trash di nobili piemontesi inspiegabilmente finiti ad abitare lì, negli sguardi di altri personaggi che osservano dai finestroni quadrati dei loro palazzi la vista sul raccordo, riuscendo a scorgervi angoli di bellezza.
Contro il mito della velocità degli anni ’60 di cui il raccordo è simbolo, contro quella macchina celibe (felice invenzione di Duchamp per descrivere opere dal funzionamento e l’utilità sconosciuti) che Renato Nicolini intravedeva in uno strumento che, anziché organizzare il traffico da e verso Roma, funzionava solo come cesura nei confronti delle contraddizioni della città, Sacro GRA è il prodotto di una lentezza ontologica e della spinta ad uscire da quella sospensione invisibilizzante attraverso frammenti di esistenze ordinarie che popolano quello spazio. Il documentario, insieme ai suoi personaggi, sospende quella sospensione. E da visibilità alla “città invisibile” costruita intorno allo spazio del raccordo. 
Il leone d’oro a Sacro GRA è un atto di coraggio, fatto da chi crede nel potere rivoluzionario del cinema e nel suo dovere morale di aderenza all’esprit du temps. Che Sacro GRA coglie sia nell’individuazione di una certa crisi identitaria che, più di quella economica, marca le vite delle moltitudini; sia in un movimento che consiste nello spingere sempre più avanti la barriera fra fiction e documentario, nello spostare il lungometraggio fuori da ogni canone di raccontato. 
 
Elisa Fiorucci

Venezia 73. Il programma ufficiale

Venerdì 29 Luglio 2016 17:04
 
 
Annunciato finalmente l'attesissimo elenco completo dei film in programma alla 73esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, che si terrà come ogni anno nella splendica cornice del Lido dal 31 agosto al 10 settembre. Come presidente di giuria già da giorni è stato confermato il nome di  Sam Mendes che assieme a Giancarlo De Cataldo, Chiara Mastroianni, Laurie Anderson, l'attrice Gemma Arterton, la collega tedesca Nina Hoss, il regista statunitense Joshua Oppenheimer, Lorenzo Vigas (Leone d'oro per il miglior film alla scorsa Mostra di Venezia nel 2015 con la sua opera prima Desde allà) e l'attrice, regista e cantante cinese Zhao Wei avrà il difficile compito di decretare i vincitori. Madrina d'eccezione sarà invece Sonia Bergamasco e sempre da poco sono stati svelate le identità dei due Leoni d'Oro alla carriera di questa edizione: Jean Paul Belmondo e Jerzy Skolimowski.
Il film d'apertura sarà una piacevole sorpresa, La La Land di Damien Chazelle, opera musicale in concorso con Ryan Gosling ed Emma Stone che prenderanno parte alla kermesse. Per quanto riguarda la chiusura sarà invece affidata a The Magnificent Seven nella rivisitazione di Antoine Fuqua, fuori concorso ma con un cast d'eccezione: Denzel Washington, Chris Pratt, Ethan Hawke, Vincent D'Onofrio, Byung-Hun Lee e Peter Sarsgaard. 
Duplice omaggio a due grandissimi cineasti che da poco ci hanno lasciato: Michael Cimino, con la proiezione de L'anno del dragone (1985) con Michey Rourke e Abbas Kiarostami con un corto inedito della serie 24Frames (alla quale il regista stava ancora lavorando) e con la proiezione di un film di montaggio del fedele e storico collaboratore del regista Seifollah Samadian, THI IS MY FILM: 76 Minutes and 15 Seconds with Kiarostami.
Per la sezione restauri di Venezia Classici segnaliamo la proiezione di Dawn of the Dead – European Cut [Zombi] di George A. Romero, nella versione curata all'epoca da Dario Argento per il mercato europeo, l'opera verrà presentata dallo stesso Argento e da Nicolas Winding Refn, grande fan e seguace di entrambi i maestri dell'horror.
Tra le sorprese, sicuramente, Jackie di Pablo Larrain con Natalie Portman e The Lights Between Oceans di Derek Cianfrance con Michael Fassbender e Alicia Vikander che sembra colorerranno con la loro presenza la manifestazione.
Confermate anche le presenze di Tom Ford, Denis Villeneuve, Emir Kusturica, Wim Wenders e Stephane Brizè. In arrivo in concorso anche i nuovi film The Bad Back di Ana Lily Anipour, con i “cannibalici” Keanu Reeves, Jason Momoa e Jim Carrey e Lav Diaz (già vincitore di Orizzonti con Melancholia). Da non dimenticare la presenza del pisano Roan Johnson con la commedia Piuma.
Fuori concorso ma da segnalare anche le prime due puntate di The Young Pope di Paolo Sorrentino, gia annunciato alla scorsa Festa del Cinema di Roma, il ritorno di Mel Gibson da regista con lo storico Hacksaw Ridge,  Assalto al Cielo di Francesco Munzi (Anime Nere) e One More Time With Feeling, il documentario su Nick Cave di Andrew Dominik. Molto originali le selezioni della Settimana Internazionale della Critica aperta dal cortometraggio Pagliacci di Marco Bellocchio e il ricco programma delle Giornate degli Autori, con Indivisibili di Edoardo De Angelis.
 
 
La La Land
 
 
Nel dettaglio il programma dei film in concorso:
 
ANA LILY AMIRPOUR - THE BAD BATCH 
Usa, 115’
Suki Waterhouse, Jason Momoa, Keanu Reeves, Jim Carrey, Giovanni Ribisi 
 
STÉPHANE BRIZÉ - UNE VIE
 Francia, Belgio, 119’
Judith Chemla, Jean-Pierre Darroussin, Swann Arlaud, Yolande Moreau 
 
DAMIEN CHAZELLE - LA LA LAND 
Usa, 127’
Ryan Gosling, Emma Stone, John Legend, J.K. Simmons, Finn Wittrock 
 
DEREK CIANFRANCE - THE LIGHT BETWEEN OCEANS
 Usa, Australia, Nuova Zelanda, 133’
Michael Fassbender, Alicia Vikander, Rachel Weisz,  Emily Barclay 
 
MARIANO COHN, GASTÓN DUPRAT - EL CIUDADANO ILUSTRE
 Argentina, Spagna, 118’
Oscar Martínez, Dady Brieva, Andrea Frigerio, Nora Navas, Gustavo Garzón 
 
MASSIMO D’ANOLFI, MARTINA PARENTI - SPIRA MIRABILIS 
Italia, Svizzera, 121’
(documentario) 
 
LAV DIAZ - ANG BABAENG HUMAYO (THE WOMAN WHO LEFT) 
Filippine, 226’
Charo Santos-Concio, John Lloyd Cruz 
 
AMAT ESCALANTE - LA REGIÓN SALVAJE 
Messico, 100’
Ruth Ramos, Simone Bucio, Jesús Meza, Edén Villavicencio 
 
TOM FORD - NOCTURNAL ANIMALS
 Usa, 115’
Jake Gyllenhaal, Amy Adams, Michael Shannon, Aaron Taylor-Johnson, Isla Fisher, Laura Linney 
 
ROAN JOHNSON - PIUMA 
Italia, 98’
Luigi Fedele, Blu Yoshimi Di Martino, Sergio Pierattini, Michela Cescon, Francesco Colella 
 
ANDREI KONCHALOVSKY - RAI (PARADISE)
 Russia, Germania, 130’
Julia Vysotskaya, Christian Clauss, Philippe Duquesne, Victor Sukhorukov, Peter Kurt 
 
MARTIN KOOLHOVEN - BRIMSTONE 
Paesi Bassi, Germania, Belgio, Francia, Gran Bretagna, Svezia, 148’
Dakota Fanning, Guy Pearce, Emilia Jones, Kit Harington, Carice Van Houten 
 
PABLO LARRAÍN - JACKIE
 Usa, Cile, 95’
Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, John Hurt
 
EMIR KUSTURICA - NA MLIJECNOM PUTU (ON THE MILKY ROAD) 
Serbia, Gran Bretagna, Usa, 125’
Monica Bellucci, Emir Kusturica, Sloboda Micalovic, Predrag Manojlovic 
 
TERRENCE MALICK - VOYAGE OF TIME 
Usa, Germania, 90’
(documentario)
Cate Blanchett 
 
CHRISTOPHER MURRAY - EL CRISTO CIEGO
 Cile, Francia, 85’
Michael Silva, Bastian Inostroza, Ana Maria Henriquez, Mauricio Pinto 
 
FRANÇOIS OZON - FRANTZ 
Francia, Germania, 113’
Pierre Niney, Paula Beer, Marie Gruber, Ernst Stötzner, Cyrielle Claire 
 
GIUSEPPE PICCIONI - QUESTI GIORNI
 Italia, 120’
Margherita Buy, Marta Gastini, Laura Adriani, Maria Roveran, Caterina Le Caselle, Filippo Timi 
 
DENIS VILLENEUVE - ARRIVAL 
Usa, 116’
Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg 
 
WIM WENDERS - LES BEAUX JOURS D’ARANJUEZ (3D)
 Francia, Germania, 97’
Reda Kateb, Sophie Semin, Jens Harzer, Nick Cave 
 
 
ONE MORE TIME WITH FEELING di Andrew Dominik
 
Fuori concorso troviamo:
 
BRUNO CHIARAVALLOTI, CLAUDIO JAMPAGLIA, BENEDETTA ARGENTIERI - OUR WAR
 Italia, Usa, 68'
(documentario) 
 
KASPER COLLIN - I CALLED HIM MORGAN
 Svezia, Usa, 91'
(documentario) 
 
PHILIPPE FALARDEAU - THE BLEEDER
 Usa, Canada, 93'
Liev Schreiber, Naomi Watts, Elisabeth Moss, Ron Perlman, Jim Gaffigan, Pooch Hall
 
ANTOINE FUQUA - THE MAGNIFICENT SEVEN
 Usa, 130’
Denzel Washington, Chris Pratt, Ethan Hawke, Vincent D’Onofrio, Byung-Hun Lee, Peter Sarsgaard
 
MEL GIBSON - HACKSAW RIDGE 
Usa, Australia, 131'
Andrew Garfield, Vince Vaughn, Teresa Palmer, Sam Worthington, Luke  Bracey
 
NICK HAMM - THE JOURNEY 
Gran Bretagna, 94'
Timothy Spall, Colm Meaney, Freddie Highmore, John Hurt, Toby Stephens
 
BENOÎT JACQUOT - À JAMAIS 
Francia, Portogallo, 86'
Mathieu Amalric, Julia Roy, Jeanne Balibar
 
KIM JEE WOON - MILJEONG (THE AGE OF SHADOWS)
 Corea del Sud, 139'
Song Kang ho, Gong Yoo, Han Ji min
 
YASUSHI KAWAMURA - GANTZ:O
 Giappone, 95'
(film d'animazione) 
 
SERGEI LOZNITSA - AUSTERLITZ 
Germania, 94'
(documentario)
 
FRANCESCO MUNZI - ASSALTO AL CIELO
 Italia, 78'
(documentario) 
 
AMIR NADERI - MONTE
 Italia, Usa, Francia, 110'
Andrea Sartoretti, Claudia Potenza, Anna Bonaiuto, Zaccaria Zanghellini
 
KIM ROSSI STUART - TOMMASO 
Italia, 97'
Kim Rossi Stuart, Camilla Diana, Jasmine Trinca, Cristiana Capotondi
 
ULRICH SEIDL - SAFARI
 Austria, Danimarca, 90'
(documentario) 
 
CHARLIE SISKEL - AMERICAN ANARCHIST 
Usa, 80'
(documentario) 
 
PAOLO SORRENTINO - THE YOUNG POPE (EPISODI I E II) 
Italia, Francia, Spagna, Usa, 112’
Jude Law, Diane Keaton, Silvio Orlando, Scott Shepherd, Cécile de France, Javier Cámara, Ludivine Sagnier, Tony Bertorelli, James Cromwell
 
REBECCA ZLOTOWSKI - PLANETARIUM
 Francia, Belgio, 108’
Natalie Portman, Lily-Rose Depp, Emmanuel Salinger 
 
 
Tutte le informazioni nel dettaglio consultando http://www.labiennale.org/it/cinema/73-mostra/film/index.html
 
Chiara Nucera 

Ti Guardo. Desde Alla'

Giovedì 10 Settembre 2015 11:02
Ti Guardo, titolo italiano di Desde Alla’, vincitore del Leone D’oro alla Mostra del Cinema di Venezia edizione 72, è un film complesso, che porta in sé una tematica forte. Nel suo dna ci sono segni di grande autoralità ed anche piccoli cali di stile, ma non possiamo che complimentarci con gli autori della storia: Guillermo Arriaga (Amores Perros - 2000, 21 Grammi – 2003, tra i suoi lavori più riusciti) e Lorenzo Vigas, per aver costruito un’opera intensa, partendo da situazioni di dolore personale ed intimo per poi allargare la visione ad un dolore universale, che accomuna tutto il genere umano.
 
Armando (Alfredo Castro, Post Mortem - 2010), uomo sulla cinquantina, lavora in proprio. Nel suo laboratorio costruisce e ripara protesi dentali. Meticoloso e preciso, il suo modo di vivere va in contrasto con la città in cui risiede, una Caracas degradata, caotica e colma di delinquenza. In questo mondo al contrario, lui riesce a mimetizzarsi perfettamente. Porta nel suo cuore tremende ferite, figlie di un’esistenza che ha molto in comune con la contemporaneità pazza e deviata. Sfoga le sue ansie e paure guardando dei ragazzotti spogliarsi nella sua casa. Voyeurismo come vizio, che lo porta ad incontrare Elder (Luis Silva, all’esordio cinematografico), giovane ladruncolo che lavora in uno sfasciacarrozze. In un primo momento la loro unione stenta ad ingranare, in quanto il ragazzo, dichiaratamente omofobo, lo sfrutta solo per il denaro e le comodità che hanno un deciso sapore paterno. 
Questa situazione umana al limite, resa più fastidiosa dall’entrata in scena del padre di Armando, portatore di nefasti ricordi, trova un punto d’unione inaspettato. Forte e debole allo stesso tempo. Armando e Elder intraprendono un rapporto umano e curativo. L’uno cerca di guarire l’altro dal proprio disagio personale e la componente fisica avrà anch’essa un ruolo fondamentale nella storia.
 
Al timone della pellicola troviamo il neofita Lorenzo Vigas, che fa uso esclusivo dei primi piani. L’obbiettivo si fissa sui due personaggi principali, lasciando i dialoghi fuori campo. Quando il primo piano è su Armando tutto il resto non è a fuoco, come la sua vita, un sorta di mondo tra le nubi. Intimità morbosa, che in alcuni tratti però rallenta il ritmo del film. Staticità, che suo malgrado non rovina la splendida sceneggiatura e la potenza del messaggio. Sicuramente un po’ più di frenesia con la macchina da presa, per intenderci una regia alla A.G. Inarritu (Babel – 2006), avrebbe reso il film memorabile, al limite del capolavoro. 
 
La narrazione si sviluppa in modo lineare, non intrecciandosi com’è solito fare nei suoi lavori Guillermo Arriaga. Lo scrittore messicano lavora con egregia maestria sulla sensibilità ed imbastisce una relazione impossibile, che colpisce al cuore e fa riflettere sulla natura dell’essere umano. Osserva vite segnate dalla sofferenza, che percorrono un binario che devia inaspettatamente la propria via per poi riprendere il sentiero delle proprie origini. Destino segnato, che sembra essere un macigno inscalfibile. Figlio dell’esperienza del dolore, che non si può cancellare. Analisi spietata di matematica precisione. Memorabile è l’attimo nel quale il fato, linea retta, si spezza. Non è un baratro, ma un soffio di vento impercettibile che pulisce l’anima. Unione pacifica e riparatrice tra Armando e Elder, che esplode in una composta gioia di vivere. Dura pochissimo, ma è presente ed Arriaga è superbo a portarci lì, dentro quell’emozione.
 
Desde alla’ è un recipiente traboccante di scene iconografiche, alle quali non si può rimanere indifferenti. Scaldano il nostro spirito in profondità e portano il calore fino sulla nostra pelle. Lo scoglio che non può arginare il mare è il desiderio sessuale di Armando nei confronti di Elder, che non può essere completamente sopito. La vettura acquistata da Elder e sistemata da lui stesso con cura. Macchina, che non potrà mai tornare come nuova, trova il suo riflesso nella condizione malfamata del ragazzo.
Poderosa è anche la speculare inquadratura, pressoché identica, tra amore etero e omosessuale. La mia preferita ha come soggetto una semplice statuina di ceramica. Intrinseco a quell’oggetto sono riassunte tre situazioni focali e cariche di sentimento della pellicola: il furto, la rabbia e la voglia di un legame duraturo.
 
Dal punto di vista artistico i due attori protagonisti entrano nella parte con realismo. Si avvicinano troppo e non mancano di farcelo vedere e sentire in ogni fotogramma. Soprattutto la dedizione di Alfredo Castro, attore feticcio dell’eccellente regista cileno Pablo Larrain (No. I giorni dell’arcobaleno - 2012), al suo concavo personaggio è stupefacente.
 
Il film di Lorenzo Vigas, ci insegna come sia impossibile sfuggire alla propria natura e come ci si possa avvicinare a sconfiggere il dolore senza però mai metterlo a tacere. Urla che tornano nell’intimo e che nostro malgrado ognuno di noi ha sentito riecheggiare, almeno una volta, nella propria anima. Perché se viviamo, dobbiamo essere pronti a convivere con le problematiche figlie dell’esistenza: lutto, molestie, situazioni disagiate, mancanza di un vero amore, difficoltà nel dichiararsi diversi, problematiche famigliari, di integrazione e malattie incurabili. Desde alla’ racconta con tatto ed amore le conseguenze di tutto questo. Leone d’Oro meritato.
 
David Siena

Venezia 74. Tutti i premiati

Lunedì 11 Settembre 2017 10:57
Appenna terminata la 74esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, edizione che si è distinta dopo molti anni per innovazione e varietà del programma portanto titoli quali Brutti e Cattivi di Cosimo Gomez, Gatta Cenerentola, la risposta a La La Land con Ammore e Malavita dei Manetti Bross, ma ancora mother! che ha diviso la critida di Darren Aronofsky, l'intensissimo Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli che ripercorre la vita della modella e cantante berlinese. Presenze come Bardem, Penelope Cruz, Michael Caine voce narrante di My Generation, entusiasmante documentario sulla generazione sixties, Jim Carrey, i leoni alla carriera Robert Redford e Jane Fonda, John Woo, gli amici di sempre Clooney e Damon e moltissimi altri nomi del cinema internazionale, tra cui il primo fra tutti Guillermo Del Toro non hanno fatto altro che rendere la chermesse singolare e vivace e impreziosire ancora di più le proposte italiane che mai come quest'anno hanno trattato il sociale e le periferie italiane distinguendosi anche fuori dalla competizione ufficiale in lavori come Il Contagio di Botrugno e Coluccini, ma anche in Nato a Casal di Principe di Bruno Oliviero. 
 
 
 
 
Di seguito vi proponiamo l'elenco completo di tutti i premiati del concorso ufficiale e delle sezioni parallele.
 
La Giuria di Venezia 74, presieduta da Annette Bening e composta da Ildikó Enyedi, Michel Franco, Rebecca Hall, Anna Mouglalis, Jasmine Trinca, David Stratton, Edgar Wright e Yonfan,  dopo aver visionato tutti i 21 film in concorso, nella cerimonia ufficiale tenutasi il 9 settembre presso la Sala Grande del Lido di Venezia, ha deciso di assegnare i seguenti premi:
 
LEONE D’ORO per il miglior film a:
THE SHAPE OF WATER  
di Guillermo del Toro (USA)
 
LEONE D’ARGENTO - GRAN PREMIO DELLA GIURIA a:
FOXTROT
di Samuel Maoz (Israele, Germania, Francia, Svizzera)
 
LEONE D’ARGENTO - PREMIO PER LA MIGLIORE REGIA a:
Xavier Legrand
per il film JUSQU’À LA GARDE (Francia)
 
COPPA VOLPI
per la migliore attrice a:
Charlotte Rampling
nel film HANNAH di Andrea Pallaoro (Italia, Belgio, Francia)
 
COPPA VOLPI
per il miglior attore a:
Kamel El Basha
nel film THE INSULT di Ziad Doueiri (Libano, Francia)
 
PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a:
Martin McDonagh
per il film THREE BILLBOARDS OUTSIDE EBBING, MISSOURI di Martin McDonagh (Gran Bretagna)
 
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
SWEET COUNTRY
di Warwick Thornton (Australia)
 
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI
a un giovane attore o attrice emergente a:
Charlie Plummer
nel film LEAN ON PETE di Andrew Haigh (Gran Bretagna)
ORIZZONTI
La Giuria Orizzonti della 74. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, presieduta da Gianni Amelio e composta da Rakhshan Banietemad, Ami Canaan Mann, Mark Cousins, Andrés Duprat, Fien Troch, Rebecca Zlotowski, dopo aver visionato i 31 film in concorso, assegna:
 
il PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM a:
NICO, 1988
di Susanna Nicchiarelli (Italia, Belgio)
 
il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE REGIA a:
Vahid Jalilvand
per BEDOUNE TARIKH, BEDOUNE EMZA (NO DATE, NO SIGNATURE) (Iran)
 
il PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI a:
CANIBA
di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor (Francia, Usa)
 
il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE INTERPRETAZIONE FEMMINILE a:
Lyna Khoudri
nel film LES BIENHEUREUX di Sofia Djama (Francia, Belgio, Qatar)
 
il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIOR INTERPRETAZIONE MASCHILE a:
Navid Mohammadzadeh
nel film BEDOUNE TARIKH, BEDOUNE EMZA (NO DATE, NO SIGNATURE)
di Vahid Jalilvand (Iran)
 
PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a:
Alireza Khatami
per il film LOS VERSOS DEL OLVIDO di Alireza Khatami  (Francia, Germania, Paesi Bassi, Cile)
 
PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO a:
GROS CHAGRIN
di Céline Devaux (Francia)
 
il VENICE SHORT FILM NOMINATION FOR THE EUROPEAN FILM AWARDS 2017 a:
GROS CHAGRIN
di Céline Devaux (Francia)
PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA
La Giuria Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis” della 74. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, presieduta da Benoît Jacquot e composta da Geoff Andrew, Albert Lee, Greta Scarano e Yorgos Zois, assegna il:
 
LEONE DEL FUTURO
PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA “LUIGI DE LAURENTIIS” a:
JUSQU’À LA GARDE
di Xavier Legrand (Francia)
VENEZIA 74
 
nonché e un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro, che sarà suddiviso in parti uguali tra il regista e il produttore.
VENEZIA CLASSICI
La Giuria presieduta da Giuseppe Piccioni e composta da studenti di cinema provenienti da diverse Università italiane: 26 laureandi in Storia del Cinema, indicati dai docenti di 12 DAMS e della veneziana Ca’ Foscari, ha deciso di assegnare i seguenti premi:
 
il PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR DOCUMENTARIO SUL CINEMA a:
THE PRINCE AND THE DYBBUK 
di  Elwira Niewiera e Piotr Rosołowski (Polonia, Germania)
 
il PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR FILM RESTAURATO a:
IDI I SMOTRI (VA’ E VEDI)
di Elem Klimov (URSS, 1985)
VENICE VIRTUAL REALITY
La Giuria internazionale della sezione Venice Virtual Reality, presieduta da John Landis e composta da Céline Sciamma e Ricky Tognazzi, assegna:
 
PREMIO MIGLIOR VR a:
ARDEN’S WAKE (EXPANDED)
di Eugene YK Chung (USA)
 
PREMIO MIGLIORE ESPERIENZA VR (PER CONTENUTO INTERATTIVO) a:
LA CAMERA INSABBIATA
di Laurie Anderson e Hsin-Chien Huang (USA, Taiwan)
 
PREMIO MIGLIORE STORIA VR (PER CONTENUTO LINEARE) a:
BLOODLESS
di Gina Kim (Corea del Sud, USA)
 

Venezia 77. Tutti i premiati

Sabato 12 Settembre 2020 20:26
Il Leone d'Oro della 77esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia va al film Nomadland di Chloé Zhao. Coppa Volpi a Pierfrancesco Favino per Padrenostro e a Vanessa Kirby per Piece of a woman. 
 
 
Il Leone d’Argento alla Miglior Regia va a Kiyoshi Kurosawa per Spy no tsuma, il Gran Premio della Giuria a Nuovo Orden di Michel Franco e la Miglior Sceneggiatura a Chaitanya Tamhane per The Disciple. 
 
 
Pietro Castellitto ritira il premio alla Miglior Sceneggiatura per la sua opera prima, I predatori, in gara nella sezione Orizzonti e si apre a dei ringraziamenti dadaisti «Solo gli infami e i traditori sono bravi con i ringraziamenti. Ringrazio la mia famiglia, che mi ha insegnato a essere fiero di me stesso, e dedico il premio a tutti quelli che non la pensano come me perché è solo legittimandoli che troveremo degli nuovi simboli in grado di reinventare la modernità».
 
Tra gli altri premi di Orizzonti sono da segnalare il Leone d’oro del Futuro-Luigi De Laurentiis, dedicato ai registi esordienti, alla regista portoghese Anna Rocha de Sousa per il film Listen, che vince anche il Premio Speciale della Giuria presieduta da Claire Denis.
La Miglior Regia va a Lav Diaz per il film Lahi, Hayop (Genus Pan) dalle Filippine, e il Miglior Film che va a Dashte Kmamoush (The Wasteland) di Ahmad Bahrami.
 
I miglior attori di Orizzonti sono, infine, Khansa Batma per il film Zanka Contact e Yahya Mahayni per il film The man who sold his skin. 

Venezia74. The Shape of Water

Domenica 10 Settembre 2017 18:07
“Se vi dovessi parlare di lei, la principessa muta, che potrei dirvi?” con questo incipit ci si immerge nella vasca di emozioni (fortissime) preparata dal regista messicano Guillermo Del Toro. Siamo nel 1962, l’America corrotta (incarnata dal personaggio interpretato da Michael Shannon) solo apparentemente, perfetta e risoluta vuole essere “Grande Ancora” in piena Guerra Fredda. Strickland (di cui sopra) trascina dentro un laboratorio segreto, con l’approvazione del governo, una campana subacquea, contenente una creatura sconosciuta. Un uomo pesce: venerato in Sud Africa come una divinità, viene ridotto alla misera condizione di cavia, diventa un capro espiatorio, l’oggetto della morbosa, atavica frustrazione dell’uomo che impotente, vuole soggiogare dio. Elisa (Sally Hawkins) una donna ordinaria ma sognatrice, orfana accolta nella casa di un anziano pittore fallito Giles (Richard Jenkins), vive con lui una triste condizione di emarginazione: lei è muta, lui è omosessuale, in una società (fin troppo attuale) che non lascia respiro al “diverso”, una condizione che vive anche la sua collega amica e confidente di colore Zelda (Octavia Spencer). Le due sono le ‘invisibili’ donne delle pulizie dello stabilimento segreto. Ed è là che per la prima volta Elisa sperimenta l’amore. Un gesto, uno sguardo ricambiato, le note di un giradischi, una serie di piccoli delicati muti gesti avvicinano la donna alla creatura, specchio di se stessa e della sua realtà. Gli scenari onirici e quelli cristallizzati nel quotidiano d’epoca, sono fatti di luci blu, verdi e poche pennellate di rosso (in technicolor). A dare una connotazione delicata al dramma c’è la colonna sonora firmata dal compositore francese Alexandre Desplat (per questo scherzando Del Toro lo ha definito “il suo film francese”). Il plauso più grande va al trucco tradizionale e a Doug Jones, performer che da più di 20 anni lavora con il regista, sotto la maschera della creatura volutamente senza nome, come spiegatoci in conferenza stampa (durante la 74esima edizione del Festival di Venezia) egli rappresenta la perfezione o il suo contrario come il protagonista di “Teorema” di Pasolini (1968). Siamo difronte ad un film diverso, che genera inquietudine per i temi trattati e ci libera dalla prigione del classico schema mentale per cui il mostro crudele vuole possedere la bella ed è l’eroe a portarla in salvo. Come in Crimson Peak (2015),  ancora una volta il regista ha dimostrato con  passione meticolosa, ‘studio matto e disperatissimo’ e profondo rispetto per la materia di saper trasformare un genere cambiando le carte in tavola. Nel precedente citato quello della Gothic Romace, dove il matrimonio non rappresentava un lieto fine ma l’esatto contrario, qui allo stesso modo il suo “mostro della laguna nera” (l’originale a cui fa riferimento deliberatamente è del 1954) scambia il suo posto con quello dell’eroe. Ben lontano dall’essere soltanto una “favola” (se non nella sua definizione più pura, quella delle orride e sadiche vicende raccontate dai fratelli Grimm) è la sua pellicola più cruda, forse la più violenta, dopo Chronos (1993) ma conserva la dolcezza de “Il Labirinto del Fauno” (2006 vincitore di tre premi Oscar). In un mondo cinico dove si ha paura di parlare d’amore, Del Toro lo fa secondo il suo gusto personale, “l’amore è la forza più importante dell’Universo” e “la cosa che mi terrorizza di più” - ha detto quello che viene definito dai più anche un ‘maestro dell’horror’- “è il fatto che si abbia paura di parlarne”. Il regista ci riesce ancora, in un film dove anima e cuore, sono più forti delle parole. 
 
Francesca Tulli  
 
 
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L’immagine che sicuramente non dimenticheremo dell’edizione 74 del Festival di Venezia è il grande e grosso regista messicano Guillermo del Toro (Il labirinto del Fauno, 2006), che stringe tra le mani il Leone d’Oro del Miglior Film. Si perché è riuscito, con la sua personale versione del Mostro della Laguna nera (1954), a salire dalla categoria B a quella A, regalandoci un film poetico di forte impatto visivo. Ha stregato la giuria del Festival, che contro ogni previsione lo incorona Re del Lido. Potremmo dire: “Venezia osa più dell’Oscar!”. Il Leone d’Oro ad un fantasy. La forma dell’acqua del titolo rimodella un premio che negli ultimi anni aveva perso un po’ del suo smalto e di questo l’Academy dovrebbe farne tesoro. Uscire dal conservativismo e portare il premio cinematografico più prestigioso del mondo nel nuovo millennio.
 
The Shape of Water ci riporta negli anni 60’ della Guerra Fredda tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, all’interno dei complotti e delle manovre segrete delle due super potenze. Un uomo pesce (Doug Jones, che interpretò il Fauno nel film del regista messicano) viene catturato dagli americani per essere studiato.  Nascosto in una struttura governativa, non sfugge però allo sguardo di Elisa (Sally Hawkins, Blue Jasmine - 2013), donna delle pulizie muta. I due, in un primo momento si studiano, poi si innamorano. Ne scaturisce una romantica storia d’amore tra diversi. Una sorta di Bella e la Bestia per adulti. Non mancano neppure gli aspetti drammatici e quelli classici della spy-story, e il tutto è sorprendentemente equilibrato. Assistiamo così ad un film, che in se porta la vera essenza del cinema, intrattenere con magia e con quel giusto pizzico di impegno, che ci fa dimenticare per 2 ore (la durata del film) tutti i nostri acciacchi quotidiani. 
 
Forma e sembianze umane dell’acqua sono impresse su pellicola dal visionario regista Del Toro, che qui crea anche soggetto e sceneggiatura. La sua messa scena è capillare, da vero artigiano. Incredibilmente minuziosa e di qualità. Regia dinamica e frizzante, ne è testimone la vorticosa presentazione iniziale, dove avvolgenti e musicali carrellate dall’alto verso il basso portano la macchina da presa nelle case dei protagonisti fino al cinema nostalgico del primo piano. Regia che allo stesso tempo diventa morbida, in grado di avvicinarsi al volto di Elisa con dolcezza carpendo le mutazioni del suo cuore. Non dimenticandosi mai dell’acqua: la vera protagonista. Una direzione artistica emozionata, che porta lo spettatore a vivere in prima persona le scene sullo schermo. Il dizionario creato dell’autore dà vita ad un linguaggio concreto e comunicativo, accessibile a tutti. Un esempio lampante è l’uso del colore: le scarpe rosso fuoco di Elisa sono la metafora del calore e dell’amore che porta all’interno della sua anima. 
 
Il tema di fondo è quello delle diversità; abusato al cinema, ma qui non banalizzato. Un diverso burtoniano, il mostro che cela dolcezza e umanità dietro la sua sudicia facciata, ma i veri mostri sono le persone normali. L’universo creato da del Toro è l’antidoto contro il male. E’ una favola per reagire ai mostri contemporanei e alle assurdità del razzismo, sessismo e della politica assolutistica, tutti temi sviscerati nel film.
 
I personaggi sono completi e curati. Hanno tutti una forte caratterizzazione ed una tangibile storia alle spalle. Base che fa da trampolino per un pregevole sviluppo narrativo, fatto di storie nella storia. Sally Hawkins è superba nel portare in superficie l’anima incontaminata di Elisa. Una sola espressione del suo volto vale più di mille parole, per non parlare dei movimenti del corpo, armonici e musicali. La sua è una persona vera ed attuale. 
Tra le eccellenze tecniche del film si segnala la piovosa fotografia di Dan Laustsen (Crimson Peak, 2015) e la colonna sonora del maestro Alexandre Desplat. Un commento musicale che si sposa con il romanticismo del film, ma capace anche di zone oscure.
 
The Shape of Water è una storia personale, nella quale incontriamo un diverso che è in grado di cambiare le vite delle persone che incontra. Una creatura senza nome che ha significati differenti per ognuno dei protagonisti. Guillermo del Toro, al suo decimo film, realizza la sua opera più matura. Una favola gotica che è anche cinema puro. Completo sotto tutti gli aspetti. In grado anche di omaggiare con gusto le pellicole e i musical dell’epoca.
 
David Siena
 

Roma

Giovedì 06 Settembre 2018 23:14
Era nell’aria fin dai primi giorni di Festival: quel sentore profondo di vittoria, che alleggiava intorno al film di Alfonso Cuaron. Il suo Roma era sulla bocca di tutti. Le riviste di settore gli avevano affibbiato 4 stelle e il pubblico non era da meno. Lo ritiene, sicuramente per palati fini, ma gli riconosce un animo puro, tanto che al termine della visione se ne portano ancora i benefici. Ci si sente cullati da quella sensazione d’amore vero, che è intrinseca in ogni fotogramma. Il regista messicano mette in scena un film, praticamente autobiografico, ambientato proprio nel suo quartiere di origine. Luogo che dà il titolo al film. Incorniciato in un bianco e nero nostalgico riviviamo l’anno 1971 del regista. Che poi è come rivivere dei momenti della nostra stessa infanzia. Un omaggio ai ricordi. Dolce celebrazione e profondo legame con le nostre persone, che hanno contraddistinto la nostra vita. Diretto magistralmente con splendide carrellate tra i quartieri in guerra e il mare (della famiglia/riconciliazione) e con un estetismo ricercato, ma mai abusato. Una vera e sconfinata Amarcord alla quale non ci si può non affezionare. Vince con merito il Leone d’Oro di Venezia 75. È il primo film prodotto da Netflix a pregiarsi di un riconoscimento così nobile.
 
Cleo (Yalitza Aparicio, attrice non professionista, ma di una bravura folgorante) è la tata di una famiglia benestante di Città del Messico. Siamo nei primi anni 70’, periodo storico legato alle manifestazioni del movimento studentesco (del sanguinoso Massacro del Corpus Christi). In questo clima di incertezza, nel quartiere Roma, conduce una vita di apparente serenità la famiglia della Sig.ra Sofia (Marina de Tavira). Il marito, spesso lontano da casa, ha un’amante e proprio nel momento in cui Cleo rimane incita del fidanzato, l’uomo decide di abbandonare la famiglia. Non lascia solo la moglie al suo destino, ma anche i figli. I ragazzini trovano conforto negli abbracci di Cleo. Il suo affetto è così forte, che può essere paragonato senza sfigurare, a quello della madre. Non solo dal sangue del nostro sangue riceviamo l’educazione alla vita. Ma anche la domestica ha il suo momento di crisi, perché il suo giovane compagno decide di lasciarla e di non riconoscere il bimbo che ha in grembo. Ora le due donne devono prendersi per mano e far fronte a non pochi problemi. Palese è il divario sociale tra le due. Abbatteranno il muro che le divide per il bene di tutti. Affronteranno le incombenti difficoltà con una forza disarmante, frutto del volersi bene senza una rigida distinzione di classe. 
 
Alfonso Cuaron torna al Lido dopo il successo di Gravity (2013), che gli è valso l’Oscar per la miglior Regia. Roma è diretto e scritto dall’autore messicano, che ha partecipato anche al montaggio ed alla fotografia (il suo ultimo film ambientato in patria fu Y tu mama también, nel lontano 2001). Roma è un’intima visione di quel mondo passato (descritto nella sinossi), impregnata di amore, morte, coraggio, cambiamento e casa. Quest’ultima sublimazione di tutte le speranze. Lo spettatore scopre che in una parte del proprio cervello è incastonata una gemma preziosa, ormai dimenticata. Una serie di ricordi tanto lontani quanto felici sono lì, in fondo alla caverna, finalmente riaperta. E’ proprio la gioia di tornare con la mente ai tempi delle nonne, nelle campagne e nei prati, dove anche lo sterco degli animali da cortile assume una valenza poetica, il vero pregio del film. Roma non porta su strade con l’obbligo di seguire sottotitoli, è al contrario un’evocazione sincera e sentita.
 
Anche se con pochi film all’attivo, Cuaron si conferma un regista (camaleontico) di spicco della nostra epoca. La sua regia è sempre funzionale a quello che vuole raccontare. Dai vortici di Gravity, alle carrellate per le strade di Città del Messico, il passo è breve. Perché il linguaggio che viene usato è quello più congeniale al racconto che viene messo in scena. L’uso del piano sequenza all’interno della casa, dalle stanze alla terrazza, è il mezzo per raccontare la vita nella sua continuità. I piccoli gesti della nostra quotidianità raccontano chi siamo e dove vogliamo/vorremmo andare. Nulla viene lasciato al caso. Si ha quasi la sensazione di essere a teatro. Ci si affeziona ai personaggi. Tutto è minuzioso ed immersivo, tanto travolgente quanto morbido. 
 
David Siena
 

Joker

Giovedì 03 Ottobre 2019 21:53
Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è una persona ai margini della società, in una Gotham City in cui puoi morire sul marciapiede ed essere tranquillamente pestato e scavalcato. Col sogno del cabarettista e maledetto da un'involontaria risata isterica, è convinto di vivere in una perfetta tragedia.
Todd Phillips, regista della trilogia della Notte da Leoni, prende qualche spunto dalle fonti fumettistiche e si ispira a materiale quale Toro Scatenato o Taxi Driver, ma scrive una genesi del Joker prettamente originale, cercando un nuovo modo di raffigurare l'ascesa verso la pazzia e l'alienazione totale.
Con un taglio registico cupo e opprimente, egli si focalizza sulle ossessioni e le psicosi del suo protagonista, in un contesto di degrado mentale e urbano indissolubilmente legati; il Joker incarna la propagazione del caos nelle strade di Gotham City in una esclation sempre crescente di drammaticità. 
Il suo percorso da reietto a villain conclamato è senza dubbio uno dei piú riusciti dell'intero contesto fumettistico cinematografico, ed è scandito da momenti di apprensione e inquietudine che arrivano potenti e viscerali. Grazie ad uno sguardo intimo, personale, ma allo stesso tempo diretto e crudo, lo spettatore è investito dalla sofferenza e dalla lotta emotiva del protagonista, e avverte distintamente la sua voglia di un amore mai ricevuto, né in contesti sociali né famigliari. 
Ma, come a dare un po' di respiro in uno spettacolo troppo denso di contenuti, assistiamo inaspettatamente anche a situazioni ironiche e inquietantemente divertenti.
Tutto questo incredibile impianto narrativo non sarebbe possibile senza una sceneggiatura scritta eccellentemente, che conferisce spessore ai dialoghi e alle vicende, e usa precise svolte narrative per caricare di tensione la pellicola. Il contesto del film è poco intrecciato con la storia dell'uomo pipistrello, ma alcuni importanti personaggi sono inseriti ottimamente nell'economia della trama, e il pathos verso uno snodo chiave in particolare del passato di Batman è gestito in maniera impeccabile.
Ma il vero motivo dell'encomiabile rappresentazione di questo fantastico Joker è assolutamente l'interpretazione di Joaquin Phoenix. Si può dire senza mezzi termini che il suo protagonista siede allo stesso tavolo del pazzo mascherato di Jack Nicholson e del compianto Heath Ledger, dando un'impostazione personale e ulteriormente diversificata a un soggetto già ampiamente ricalcato. E' stato necessario perdere 20 chili per raggiungere la conturbante forma ossuta e scarna che riveste nel flm, ma il lavoro attoriale è stato arricchito anche da un meticoloso lavoro sulle disturbanti espressioni e sulla già iconica incontrollabile risata. Ed anche da una messa a punto sulle movenze, accattivanti e sinuose. Non c'è alcun dubbio che una prova del genere valga una seria ipoteca sull'Oscar come miglior attore.
Da citare ovviamente anche una splendida parte di Robert De Niro, che cura con la solita estrema professionalità e abilità, dando profondità e grandezza nonostante il limitato minutaggio a sua disposizione.  
Impressionante infine la scenografia dei contesti urbani in cui Arthur Fleck è vittima della violenza della città, in una ricostruzione degli ambienti metropolitani tratti da contesti di una New York anni '70, cosí come anche i costumi dell'epoca e il trucco, che conferiscono ulteriore spessore alla già densa atmosfera.
Todd Phillips in sostanza confeziona uno dei migliori cinecomic di sempre, arricchendo un'icona cinematografica di questo calibro con una memorabile interpretazione attoriale e un contesto narrativo straordinario. Un film assolutamente consigliato a chiunque, che trascende il suo universo fumettistico di origine e si confronta con una cinematografia moderna e matura.
 
Omar Mourad Agha
 
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In una Gotham ambientata agli inizi degli anni 80 (in particolare nel 1981), evocante una New York dalle tinte noir del cinema di Scorsese, si svolge la vicenda che vede protagonista Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), un aspirante comico dal turbolento passato familiare che sbarca il lunario con un lavoro da clown che gli permette di sopravvivere e di prendersi cura della madre malata.
Quanto la vita possa essere una commedia delle parti e un ambiguo coacervo di paure, incertezze e rivendicazioni è una consapevolezza che rende profondamente umani chi la raggiunge. Tra un complesso edipico malamente sublimato e una improbabile sintomatologia psichiatrica che lo costringe a scoppi di una risata scrosciante e inadeguata,  Arthur Fleck sembra arrivare a tale consapevolezza in un momento della sua vita in cui ciò che lo rende umano lo allontana, allo stesso tempo, da ecumenici sentimenti di pietas. 
Il viaggio dell’eroe che Todd Phillips racconta in “Joker” è uno spietato viaggio interiore di un personaggio che prima (e qui mai) di essere un cattivo da fumetto è un esempio di una tragica parabola discendente che raggiunge il suo climax nella esaltazione della vendetta. Una mirabolante crescita emotiva che parla, urla, allo spettatore che non può fare a meno di prendere una netta posizione a favore del protagonista in un moto di empatia e protettività che nella storia gli sono continuamente negate. 
La crescita emotiva di Arthur, che nella definizione della sua nuova identità diventa Joker, è una discesa agli inferi; uno psicodramma permeato di citazioni (dal cinema muto di Chaplin e Keaton al Joker di Heath Ledger) e che rivolge la sua perturbante evoluzione nel rapporto verso l’altro. Si potrebbe definire una decrescita emotiva che punta la sua direzione verso l’involuzione della società nei suoi lati più avvizziti e spigolosi, nella sua drammatica insofferenza verso la fragilità della diversità. 
 “Il lato peggiore della malattia mentale è che la gente si aspetta che tu ti comporti come se non l’avessi” dice il Joker di Phillips, il cui fisico emaciato e il cui ghigno sanguinolento sintetizzano la metafora della follia umana ravvisata ancor più che nella malattia mentale del protagonista, nello stato emotivo del ferale e aggressivo universo sociale che lo circonda. 
La valenza del film non trova il suo spessore nella trama o nell’azione, che è quasi assente, ma nella capacità di raccontare come si possa rendere diabolico l’umano e umano il diabolico e di come entrambe le dimensioni siano profondamente connaturate con la capacità del singolo di relazionarsi col prossimo e con l’ambiente in cui è immerso (“Ora devono rendersi conto che esisto” dice Arthur).
L’esorcizzazione delle fragilità mentali, le cui espressioni trovano la massima rappresentazione nell’interpretazione magistrale di Phoenix, prendono forma con una violenza iconografica rappresentata con un gusto estetico e una narrazione che alterna momenti di delicata dolcezza ad attimi di puro splatter. 
Quello che Philips racconta sullo schermo non è un antieroe da fumetto, né il contraltare del protagonista “buono” da combattere, ma un personaggio che ricorda i tormentati protagonisti delle tragedie di Euripide, con una morale subissata dalle continue vessazioni di una vita ingiusta ma profondamente terrena. 
 
Valeria Volpini
 
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