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Visualizza articoli per tag: valeria volpini

A Thousand and One

Giovedì 29 Giugno 2023 11:06

L’opera prima della regista newyorkese A.V. Rockwell è una carrellata intimista sulla vita di una madre e suo figlio di 7 anni, afroamericani di Harlem, sullo sfondo della Grande Melaattraversata dai cambiamenti negli 11 anni dal 1994 al 2005.

La scena si apre con immagini di repertorio degli anni 90: una New York che esplora la sua vitalità e la sua ascesa. Palazzi e tetti urbani che svettano, sovrastando le vite incerte di chi vive nei sobborghi cittadini tra espedienti e piccola criminalità. Inez (Teyana Taylor) è una parrucchiera ventiduenne appena uscita di galera. Ha scontato una non ben precisata condanna per furto, probabilmente in complicità con il suo uomo, ed è in cerca del suo posto nel mondo. 

Inez non ha origini né destinazione. Non ha lavoro, né un posto dove andare. Il suo rifugio diventa Terry, suo figlio di 6 anni che rapisce dall’ospedale in cui era ricoverato per un incidente accaduto nella casa della sua famiglia affidataria.

La parabola lunga dieci anni della crescita di un figlio e, insieme, di una madre poco più che ventenne è un excursus di salite e discese emotive. Nella New York del repubblicano Giuliani prima e di Bloomberg poi, si frastagliano le vicende delle minoranze dei ghetti cittadini, dove la vita sembra scorrere più lentamente e inesorabile e dove chi è più scaltro fugge o incalza la vita, prima che il peggio possa travolgerlo.

L’incontro tra le due solitudini, una con un passato che pesa come un fardello emotivo sulla schiena e l’altra con un futuro incerto di chi ha nostalgia di un nido familiare sconosciuto, pone l’accento sulla riconsiderazione morale di un gesto fuori dai margini della legalità. “Chi è ferito non sa amare” dice Inez al figlio ormai adolescente. Chi si porta dietro laceranti piaghe emotive non sa come riversare il proprio amore sugli altri. In queste parole c’è tutto il suo dolore, il rimpianto e la rabbia di chi paga le conseguenze di colpe non proprie, come chi ruba per necessità. Ruba denaro e ruba i sentimenti; desidera provarli e riceverli disperatamente ma non ha gli strumenti e i mezzi per ricercarli in maniera funzionale. La città divora le anime; è cattiva. Harlem è un ghetto e la sua evoluzione non è solo urbanistica e culturale ma anche politica. La regista lo racconta tenendo sullo sfondo i cambiamenti governativi che hanno accompagnato gli 11 anni in cui si racconta la vicenda.

Quando Terry, che Inez chiama “T.” come un eterno inizio di chi paradossalmente vive di solo presente, senza un passato che lo origini, cresce e si scopre intelligente, più della media dei suoi coetanei, gli si spalancano le porte delle possibilità. Si comincia a intravedere la sagoma di un futuro che prima era solo l’eterna proiezione di un presente senza spessore.

Terry però è legato a quel presente. E’ il nido che ha sempre cercato. E’ la sua identità, formatasi nel ghetto newyorkese di una periferia scalpitante e governata da dinamiche che lui stesso fa ancora fatica a decifrare ma che rappresentano l’identificazione a una collettività di quartiere, primo vero nucleo familiare che si è costruito negli anni di convivenza con la madre e il suo compagno Lucky, la figura paterna e profondamente umana che lo segue nella sua evoluzione da bambino a uomo.

Il bisogno d’amore e di appartenenza è il filo conduttore di tutta la pellicola. Prima in termini di amore materno, poi filiale, poi sentimentale, fino a passare dall’idea di collettività familiare a quella socioculturale, senza trascurare l’idea comunitaria di una minoranza i cui diritti appaiono in continua evoluzione, al pari dei pregiudizi di cui è vittima.

Valeria Volpini

 

Come pecore in mezzo ai lupi

Giovedì 13 Luglio 2023 15:59

L’opera prima sul grande schermo di Lyda Patitucci (Curon) è un poliziesco dai toni soffocati e dalle immagini grigiastre di una Roma placida.

Stefania (Isabella Ragonese) è una poliziotta infiltrata in una banda di criminali serbi. Appare fredda, implacabile. Sembra che la vita da criminale sia a suo appannaggio, asciutta e ferale, come il suo volto scalfito da una cicatrice e adornato da capelli fintamente neri corvino.

In una delle operazioni che tenta di sventare, da poliziotta infiltrata, ritrova suo fratello minore Bruno (Andrea Arcangeli) che, insieme al suo amico e collega di misfatti Gaetano, cerca di ottenere con un “colpo” che coinvolge un furgone portavalori, i soldi sufficienti per prendersi cura della figlia: la piccola Marta, affidata alla madre mentalmente instabile.

I due fratelli si ritroveranno così a collaborare all’interno della stessa operazione criminosa in due ruoli antitetici.

Stefania, che si fa chiamare Vera -come la madre scomparsa- quando è sotto copertura, vive una vita vuota, riempita solo dal lavoro. “Sono felice solo quando lavoro” dice in una conversazione con Bruno che, invece, sembra abitato da uno spessore emotivo che si discosta dal suo ruolo fuorilegge. E’ dolce, sensibile. Ama profondamente Marta ed è tollerante e comprensivo nei confronti della madre della figlia, nonostante le beghe e i pericoli a cui sottopone la bambina.

Sono lupi? Agnelli? E gli altri personaggi? I ruoli si mischiano in un bailamme dicotomico di soggetti, in cui gli uni sono i simulacri degli altri e viceversa. Le identità di cattivi e buoni sono sfocate e i personaggi prendono vita ribaltando gli obiettivi e le finalità narrative senza depauperare la trama, che regge sempre un ritmo incalzante seppure mai esplosivo.

Il tono della pellicola è infatti quasi sempre implosivo: nelle minacce, nelle scene violente, nei sentimenti… La scelta drammaturgica della regista è quella di professare sullo schermo l’improvviso ribaltamento dei sentimenti, nella vita come nella pellicola.  Un ribaltamento non ostentato ma che rende imprevedibile la vita e prepara i protagonisti a prendere una decisione che però non avviene mai.

E’ decisa e originale la scelta registica e del soggetto le cui tematiche e i toni raramente sono le scelte primigenie nel panorama cinematografico italiano. Rimane ammirevole l’idea e anche godibile la realizzazione: coerente e ben riuscita. Lasciata di ampio respiro la conclusione che sembra rimanere influenzata dalle impronte della serialità americana o in generale di crime.

Non disturba. Fa sperare in un’opera seconda che possa approfondire il personaggio della protagonista femminile e le tematiche relazionali e sentimentali che la guidano.

Valeria Volpini

 

Air. La storia del grande salto

Giovedì 06 Aprile 2023 15:56

È il 1984 e il mondo comincia ad affacciarsi verso le nuove tecnologie e l’informatica. Una carrellata di riprese di eventi sportivi, musicali, televisivi degli anni 80 passa sullo schermo come prologo che prepara lo spettatore all’atmosfera sfocata dell’ottava decade del xx secolo.

Adidas e converse si contengono il primato per la pubblicità nella sezione sportiva dedicata al basket mentre la Nike arranca, rimanendo relegata alla sezione concernente le scarpe da corsa.

Per risollevare il mercato del settore della pallacanestro e trovare un testimonial che possa assolvere al compito efficacemente, l’azienda decide allora di assumere il geniale talent scout Sonny Vaccaro (Matt Damon).

L’intuizione eccezionale e lungimirante di Sonny è quella di individuare in Micheal Jordan, ai tempi ancora matricola, una futura stella e icona sportiva. Tutto questo, contro il parere del co-fondatore della Nike Phil Knight (Ben Affleck) e il dirigente Rob Strasser (Jason Bateman) che spingevano per cercare uno sportivo già affermato, che desse nuovo lustro all’azienda.

Inizia così una contrattazione tra la Nike, rappresentata da Sonny, e la controparte: Michael Jordan con la sua famiglia, in particolare la madre (Viola Davis) e il suo agente.

L’accordo che portano a termine non ha precedenti e rappresenta la prima partnership pubblicitaria che preveda una percentuale sulle vendite del prodotto allo sportivo protagonista.

E non è un caso che questa dinamica sia stata inaugurata con un cestista della levatura di Michael Jordan.

La regia di Ben Affleck si conferma sapiente e accuratamente strutturata, senza perdere ritmo ma facendo gustare allo spettatore, passo passo, i successivi livelli in cui la narrazione avanza.

La sensazione è che la freschezza della sceneggiatura riesca a sposare lo stile del cinema classico in un connubio di ironia e partecipazione.

La storia ha un impatto notevole per la figura di uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi e per quello che rappresenta, riuscendo a destare l’interesse anche di chi non è un “addetto ai lavori”.

Per tutta la pellicola il volto di MJ non è mai mostrato alla camera. È una figura che, come Dio, non ha una identità corporea. È una icona da idolatrare, è un’effige mostrata solo ai lati delle nuove scarpe, create su misura per la nuova stella del basket.

“Una scarpa è solo una scarpa, finchè non la indossa mio figlio”, dice la madre di Micheal Jordan, intuendo per prima la intensità del talento del figlio e portando avanti la trattativa che fece assurgere la Nike a primatista tra le aziende sportive.

La capacità di Affleck e della sceneggiatura è di rimescolare le carte dell’idolatria, senza deviare nella retorica dell’apologia. Il percorso sportivo è sapientemente mischiato con quello pubblicitario, creando un racconto appassionante che alterna il tono ironico con quello della suggestione quasi ieratica di chi assiste all’ascesa di una stella.

 

 

Valeria Volpini

 

Il ritorno di Casanova

Lunedì 27 Marzo 2023 16:16

L’ultima opera di Salvatores compare sul grande schermo preannunciata da una citazione da “la tempesta “ di Shakespeare : “Ora i miei incantesimi sono tutti spenti, la forza che possiedo è solo mia ed è poca”.

Il prodromo manda già un messaggio allo spettatore che può cogliere, così, l’ intento del regista che vive, insieme ai suoi protagonisti, una profonda crisi esistenziale e lavorativa.

Il suo alterego in bianco e nero è Leo Bernardi (Toni Servillo), un affermato regista che sta terminando di montare con fatica il suo ultimo lavoro per presentarlo al Festival di Venezia.

In un gioco metacinematografico in cui il film diretto dal personaggio fa capolino a colori nel film diretto da Salvatores, lo spettatore segue le alterne vicissitudini dei due protagonisti paralleli: da un lato il regista in crisi e dall’altro un Casanova cinquantenne (Fabrizio Bentivoglio), incapace di accettare il passare del tempo che  rende inevitabilmente anodino il suo spirito virile.

Bernardi cerca una risposta alla sua crisi. Cerca di salvarsi dalla caducità del tempo che passa.

La sua vita ha senso solo mentre gira, dice. Il significato della sua esistenza ha come significante il mezzo cinematografico, salvifico e insieme temibile nella sua incapacità di concretezza. Bernardi sublima i suoi tormenti girando. Non trova spazio la sua vita al di fuori del set. Teme di completare il suo lavoro e non avere così più strumenti per rendere evidente la sua presenza nel mondo. Gianni (Natalino Balasso), il montatore con cui collabora, è il suo unico amico e insieme grillo parlante e coscienza mondana, che lo riporta a galla facendolo riemergere da ogni suo turbamento e portando avanti per lui il lavoro che non riesce a concludere.

Disprezza i giovani registi osannati dalla critica e che si trovano al culmine della propria potenzialità vitale e artistica. Ne teme il confronto e insieme lo vanifica, scegliendo di evaderlo.

Lo stesso fa Casanova, portando la sfida sul piano che più si confà alla propria natura di seduttore. E non un seduttore qualunque, il re dei seduttori. Il simbolo universale dell’erotismo seducente dell’essere uomo.

Indispettito dal tempo che passa, dalle rughe, dal suo nuovo aspetto vetusto e flaccido, l’ormai anziano Casanova cerca di aprire una finestra sul suo passato, seducendo la ventenne Marcolina (Bianca Panconi). E riuscendovi con l’inganno. Un inganno vile, pietoso; che suggerisce allo spettatore il carattere surrettizio di una intenzione opportunisticamente intrapresa.

C’è però una certa indulgenza per i due protagonisti paralleli. Salvatores ne condivide evidentemente buona parte dello spirito che anima il film. Ritiene che il disturbante senso di inadeguatezza e inefficacia che si accompagna allo scorrere del tempo e della vita, possa essere il prezzo dell’esperienza, della consapevolezza.

Le sensazioni che coinvolgono Leo Bernardi sono incastonate nella pellicola come pietre miliari della drammaturgia, esaltata da un bianco e nero che rimanda ai film classici, neorealisti e che omaggia il cinema e la sua natura più pura e asciutta.

Le emozioni che abitano il protagonista sono parte integrante della messa in scena e insieme prova attoriale magistrale. Tanto significative che creano continui tilt con la tecnologia della casa domotica in cui Bernardi abita e che risponde e reagisce alle sue paturnie.

L’unica speranza di avere una possibilità al di fuori dell’espediente lavorativo e cinematografico è una ragazza: Silvia (Sara Serraiocco). Una contadina conosciuta sul set e di cui Leo s’innamora. E’ una giovane donna pura, concreta che lo porta a conoscere un lato di sé che teneva sopito e nascosto. Di cui si era dimenticato.

E’ soffice e rassicurante il tempo che trascorrono insieme e al tempo stesso è foriero di un certo grado di angoscia esistenziale: perché è così ingannevole e inutile il senso stesso della vita fuori dal set? Così effimero e così invalidante?

Forse Salvatores liquida troppo facilmente queste domande, risolvendole nel rapporto tra Leo e la giovane Silvia e ne rende così artefatti i contorni, diversamente da quello che accade quando disegna la crisi esistenziale del protagonista: travolgente e autentica.

Valeria Volpini

La moglie di Tchaikovky

Venerdì 06 Ottobre 2023 14:46

San Pietroburgo 1893. Il grande compositore e musicista russo Petr Tchaikovky muore a 53 anni di colera.

La scena si apre sull’immagine reverenziale e accorata di Antonina Ivanovna Miljukova, la vedova,  aspirante musicista in gioventù, che cerca la frase dedicata al marito più affine ai suoi sentimenti, ingrigiti da una fotografia tetra e nebbiosa.

 “Al grande. Al più grande. Al mio amato...” .Le stesse definizioni che scorre  Antonina nella sua mente per trovarne una che calzi tanto da decorare la corona funebre, sono il segno della sua devozione. L’ammirazione prima dell’amore, o essa stessa la causa e non l’effetto dei sentimenti tanto cementati e mal riposti che la giovane donna russa riservava al suo reticente marito.

C’è il funerale, e la camera segue alle sue spalle Antonina. Il passo è fiero ma sopito da un torpore soggiacente il condizionamento sentimentale di un amore non corrisposto. Cammina fino a raggiungere la salma del marito che  improvvisamente si anima e protesta contro la presenza stessa della vedova che mai aveva amato (prodromo della futura psicosi della donna). Un’inquadratura a piombo segue lo scuro corteo funebre, illuminato solo dal viso disperato di Antonina che alza disperata gli occhi al cielo e allo spettatore, abitata dal delirio del rifiuto oltre la morte.

I toni scuri fanno poi spazio al chiarore e alla luce di un flashback che porta la scena in un salotto di Mosca, vent’anni prima. Qui i due protagonisti s’incontrano per la prima volta e Tonya svela la sua infinita ammirazione per il musicista e le sue conseguenti intenzioni matrimoniali che si concluderanno con le nozze tra i due nonostante la promessa di  un amore null’altro che fraterno da parte di Tchaikovsky.

La musica è il tramite sentimentale, la misura stessa dell’amore della protagonista per il suo amato, il “più grande di sempre”; l’uomo che lei conosce “attraverso la musica” e che è disposta ad accompagnare per sempre.

“La moglie teme il marito ma è lui che teme l’amore perché non lo governa” dice il prete mentre celebra le nozze. E così tanto non lo governa, il grande compositore, che lo trasforma in un’idiosincrasia sfrenata verso la donna, in un odio tale, da far giungere alla pazzia la moglie che ne ambisce, fino alla morte, le attenzioni e ne costruisce un simulacro immaginario da idolatrare.

Con un sapiente stile associativo il regista allontana la camera e la fa salire a piombo sulla scena, raccontando i personaggi come a volerne seguire le dinamiche distaccandosene ma, allo stesso tempo, portando lo spettatore a renderle parallele. Come il funerale, così il corteo matrimoniale è seguito dall’alto adornandosi, stavolta, di luce e colori chiari in antinomia con il buio funebre della scena iniziale.

In un gioco di specchi, simbolici veicoli dell’ambivalenza e delle identità solo riflesse, Tonya non riesce a convincere se stessa della vera natura omosessuale del marito, nonostante gli amici e la cognata le confessino palesemente l’orientamento di Petr. Lei si sente persino colpevole e ne brama continuamente la presenza, anche dopo che i due si separeranno e che lei avrà tre figli dal suo avvocato divorzista che però non amerà mai, così come non riuscirà ad amare i figli suoi ma di un padre diverso dal suo amato marito, dati in orfanotrofio appena nati.

Tale è la sua spasmodica ricerca di convinzione che finirà per impazzire e in miseria, rovinata dalla sua stessa ambizione sentimentale accecata dal mito del talento del marito.

Il tragico martirio dalla moglie di Tchaikovsky è raccontato dal regista (Kirill Serebrennikov) come un passaggio dalla luce dell’illusione all’ombra della follia, puntellando la pellicola con scene squisitamente teatrali (come insegna la sua carriera di regista teatrale) e coreografiche, rendendo il ritmo meno serrato, ma ben esaurendo il tratto psicologico che si ciba di quello sentimentale nella mente della protagonista, priva di orpelli recitativi, nonostante il tono drammatico parossistico. La scelta del regista è chiara ed evidente: non è una storia che esalta l’artista, ma è una storia che racconta come l’idea di quello che crediamo essere a nostro appannaggio, a volte è figlia di un esaltante senso di ammirazione e idolatria che rende ciechi e non fa vedere null’altro che la propria illusione.

Valeria Volpini

Normale

Giovedì 12 Ottobre 2023 13:26

Una commedia dolceamara è l' ultimo lavoro del regista francese Olivier Babinet che porta sullo schermo una storia adolescenziale che parla anche agli adulti.

Lucie è la figlia sognatrice di William, un uomo disoccupato che convive con la sclerosi multipla e che fa fatica ad occuparsi degli affari pratici di una vita comune.

Lucie è un'adolescente diversa dagli altri. Ha uno stile poco convenzionale e parla a se stessa con la grazia e l'ambizione di chi porta i suoi pensieri su un diario che è il custode delle sue prospettive.

Nonostante l'aspetto poco adulto: grossi occhiali tondi, capelli malamente raccolti in una coda poco accurata e vestiti oversize, si occupa da sola del padre malato da cui rischia di essere allontanata a causa di un’indagine dell'assistenza sociale che ne tutelerebbe la condizione di minore.

Lucie deve pensare sempre a tutto; è la madre di suo padre è la responsabile della sua piccola famiglia a due. Nonostante i ruoli invertiti William è un padre fantasioso, travolge la figlia e la rende protagonista di una vita speciale a suo modo. Lucie la vita speciale la sogna e la anela. Non ha molti amici se non  un ragazzo della sua scuola un po’ strambo e dai gusti inusuali tanto quanto lei. Riesce a esperire il suo senso di vuoto e il desiderio di riempirlo di straordinarietà solo con il suo nuovo amico, custode anche lui del mondo nascosto della ragazzina protagonista.

In un film dove la normalità è messa in discussione e la realtà è rappresentata al contrario, come in uno specchio deformato, dove la commedia incontra la malinconia e il ruolo filiale è soppiantato da quello genitoriale, il regista porta sullo schermo una storia elegante e delicata che si nutre dello spirito adolescenziale dell’America degli anni 90.

La voce fuori campo è proprio quella di Lucie che si racconta in terza persona come la protagonista del film della sua vita che deve però ancora iniziare.

Valeria Volpini

Foto di famiglia

Mercoledì 18 Ottobre 2023 13:35

Si dice ispirato a una storia vera il secondo e ultimo lavoro, in ordine di tempo, del regista giapponese Ryota Nakano.

La scena si apre con le immagini di una veglia funebre dedicata al padre del protagonista : Masashi

Asada, di professione fotografo.

Poi un flashback al 1989, gli anni in cui Masashi e il fratello erano ragazzini e i loro caratteri già somigliavano alle loro personalità da adulti: Masashi ribelle ed estroso e Yukihiro cauto e responsabile.

La famiglia Asada, è una famiglia inusuale per gli anni 80: la madre lavora come infermiera e il padre si occupa dei figli e della casa. Lui amava fare le foto e ogni anno ne scattava una ai figli (l’ultimo dell’anno) e poi le raccoglieva in un calendario gelosamente conservato negli anni. Masashi aveva la stessa passione del padre. Una sera, dopo una serie di incidenti domestici, si ritrovò con tutta la famiglia nell’ospedale dove lavorava la madre, ognuno con delle ferite da suturare. Lì fu la prima volta che la famiglia fu inclusa nel sogno di Masashi quando ebbe l’idea di rappresentare tutta la famiglia il giorno in cui tutti insieme si ritrovarono in ospedale.

La famiglia diventa così il soggetto preferito di Masashi. Comincia a ritrarla in ogni ruolo partendo dalle aspirazioni disattese del padre che voleva diventare pompiere e si è ritrovato invece a gestire la casa e i figli. Masashi raffigura così la famiglia come una squadra di pompieri, come dei killer, come dei ladri, come dei piloti di formula uno e così via, facendo loro interpretare quei ruoli che mai avevano o avrebbero potuto interpretare nella vita. Ne compone un album e poi un libro che riesce, col tempo e dopo numerosi flop, a pubblicare rendendolo un fotografo di fama. Parte importante del twist plot della sua vita sarà Wakane, la ragazza, sua musa, che aveva, da ragazzina, fotografato sorridente sul molo e che poi sarà uno dei motori del suo successo.

 “Sono pronto a viaggiare ovunque per fotografare la tua famiglia” si legge sull’ultima pagina del libro di fotografie di Masashi. E questa frase viene interpretata alla lettera da uno dei suoi lettori che lo chiama a ritrarre lui e la sua famiglia. Da lì inizia il viaggio tra le immagini familiari giapponesi che Masashi rende vive, impresse sulle foto, riuscendo a estrapolarne l’essenza con un’iconografia ironica e rappresentativa.

Le foto diventano il paradigma su cui fondare i baluardi dei ricordi personali e familiari. Masashi ne comprende l’importanza reale nel 2011, dopo che un forte tsunami distrugge le case e le vite di molte famiglie giapponesi. Comincia la sua attività di volontario e, insieme ad altri ragazzi, decide di cercare le foto tra i detriti, pulirle, appenderle e permettere a chi ha perso tutto, di trovare le immagini sfocate dei propri ricordi.

“Le foto rendono i ricordi tangibili e ci danno la forza di andare avanti” dice uno dei personaggi.

Il film si muove delicatamente sui calcinacci delle case e sui detriti dell’anima che lo tsunami del 2011 aveva prodotto e, come in uno scrigno segreto, racchiude i sentimenti del protagonista liberandoli solo verso la fine della narrazione, quando si manifesta la consapevolezza di come il suo lavoro possa essere il veicolo della nostalgia di chi è ritratto.

E la pellicola ha in effetti un suo tono nostalgico seppure mai tragico, nonostante l’evento raccontato verso la metà della trama. Si nutre delle speranze e delle emozioni sospese di chi cerca un appiglio per non desistere. La famiglia Asada è il paradigma di tutte le famiglie del Giappone e del mondo, rappresentando l’idea che ognuna è speciale a suo modo.

La composizione narrativa si sviluppa con rimandi metanarrativi rispondendo alle regole del buon cinema. C’è stile ma l’efficacia del tema è forse sacrificata da una prolissità un po’ ridondante che ne impoverisce l’aspetto semantico seppure riesca a conservare quello simbolico del messaggio filmico.

 

Valeria Volpini

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