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Visualizza articoli per tag: viggo mortensen
Dopo dieci intensi giorni di cinema, retrospettive e incontri, anche la tredicesima edizione della festa del cinema di Roma giunge al termine. Ad aggiudicarsi il premio del pubblico Bnl è il film di Edoardo De Angelis “Il vizio della speranza”, un’opera dal forte impatto drammatico e dalle atmosfere dense di lirismo.
 
 
Tra i 38 film in selezione ufficiale è stato il racconto parabolico di De Angelis a conquistare il consenso del pubblico, scavalcando ottimi film come “Green Book” e “7 sconosciuti al El Royale”, opere che hanno comunque impressionato la kermesse, regalando interessanti avvincenti momenti di cinema. Il premio Rakuten Tv, una new entry di questa tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, va al film diretto da Bart Layton “American Animals” come miglior film per piattaforme digitali. A calpestare il red carpet dell’Auditorium quest’anno tantissime star internazionali e italiane, tra cui la meravigliosa Isabelle Huppert, che ha ritirato il premio alla carriera raccontando durante un intenso incontro con il pubblico alcune pagine del suo cinema e della sua vasta carriera di attrice. Ed è stata poi la volta di Cate Blanchett, Viggo Mortensen, Martin Scorsese e Sigourney Weaver, protagonisti indiscussi di questa frizzante edizione che hanno incantato la kermesse parlando della loro visione di cinema, e offrendoci ogni volta interessanti spunti di riflessione sulla settima arte. “Le notti magiche” di Paolo Virzì ha chiuso proprio ieri la rassegna cinematografica romana, che come tutti gli anni giunta al termine toglie quel velo di magia ad una città altrettanto magica e incantevole, ma che si tinge di tappeti rossi troppo poco spesso. Tirando le somme, ciò che più ha colpito di questa tredicesima edizione è la varietà dei titoli in concorso, molti dei quali probabilmente troveranno con difficoltà una distribuzione nel nostro paese, e che manifestazioni come questa rendono accessibili al grande pubblico. 
 
Giada Farrace

Fratelli Nemici - Close Enemies

Giovedì 06 Settembre 2018 12:09
Nati e cresciuti in una banlieue in cui domina la legge del narcotraffico, Manuel (Matthias Schoenaerts) e Driss (Reda Kateb), entrambi immigrati di seconda generazione, un tempo erano come fratelli. Da adulti però le loro vite  si separano: Manuel ha abbracciato la vita criminale, Driss al contrario, è diventato un poliziotto. A seguito di un grande affare di droga andato storto, Manuel sarà costretto ad accettare la protezione di Driss rendendosi conto di essere indispensabili l’un l’altro quando, l’unica cosa rimasta a unirli, è l’attaccamento viscerale al luogo di appartenenza. 
Una città gelida di notti livide e cieli spenti è antefatto e sfondo di questo noir poliziesco, presentato alla 75esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo l’acclamato Far From Men (basato su un racconto di Camus,sempre presentato a Venezia nel 2014 e con Kateb nel cast ad affiancare Viggo Mortensen), Oelhoffen si affina ancora di più sul dramma psicologico nato da una fratellanza che va ben oltre i legami di sangue.  Ne scaturisce un polar su terre di confine, specchio di una società deviata nella quale si agitano personaggi la cui vita ha percorsi obbligati. Il contesto mostratoci è di assoluta criminalità, tipico di tante storie reali prima che immaginate, dove le uniche leggi presenti sono quelle imperniate sui codici d’onore, di famiglie che si sostituiscono alle leggi dello stato aggirandole, corrompendole, mostrando di muovere ugualmente i loro illeciti su binari paralleli e perfettamente coesistenti. L’unico concetto di economia presente in certi nuclei organizzati è quello dell’homo homini lupus, complici lotte intestine all’interno della stessa fazione, perché alla fine dei conti si arriva sempre soli di fronte alla morte. Due grandi interpretazioni quelle di Schoenaerts  e  Kateb, quest’ultimo eccezionale in un perenne conflitto con se stesso, abitante di un mondo di mezzo tra un’alternativa di vita ed il suo opposto speculare, a monito costante quello che sarebbe potuto diventare, al contrario di Manuel che, nonostante tutta la sua rabbia, resterà sempre un topo in una gabbia. 
Oelhoffen sostiene l’importanza di un lavoro nato da uno sguardo disincantato sulla nuova realtà francese (ormai è storia comune e vicina a tutti), in cui la cultura araba è molto presente. Non c’è una famiglia francese – continua - senza un membro che non abbia un solo legame con qualcuno in Algeria o di origini maghrebine: il centro della Francia e il Maghreb sono intimamente legati, è il frutto della storia coloniale molto tormentata, quello che i suoi lavori cercano di restituire.
Appare chiara la volontà di costruire un film che si concentri sull’aspetto umano, senza voler essere giudicanti o limitati in dei cliché, cercando di mostrare un’umanità a tutto tondo in cui forte è l’identità emotiva. Ogni personaggio potrebbe così essere tranquillamente interscambiabile, a testimonianza che non è una questione di popoli o razze ma di contesto in cui si è inseriti a farci scivolare in certi schemi. L’emotività, qui avulsa dalle azioni commesse al di là di qualsiasi forma di biasimo, è l’aspetto che anche Schoenaerts tenterà di calcare nella costruzione del suo Manuel, il cui operato diviene il mero risultato di imposizioni e regole di un ambiente fortemente compromesso, dal quale ognuno cercherà di uscirne vivo come può.
 
Chiara Nucera

Falling. Storia di un padre

Giovedì 26 Agosto 2021 23:35
Al primo film da regista Viggo Mortensen porta sullo schermo una storia familiare che vede come principali protagonisti un figlio omosessuale e un padre affetto da demenza. La scrittura è, a tratti, ingenua ma la chiave registica riesce a creare il giusto pathos senza cadere nel sentimentalismo autoindotto. La storia  ha una narrazione che va di pari passo con la crescente affezione dello spettatore verso i protagonisti, giungendo inaspettatamente a uno stato di grazia sul finale, quando i due personaggi principali si ritrovano nella casa di campagna familiare.
I dialoghi sono asciutti ma incisivi e, seppure con qualche ingenuità, il neoregista trova un suo stile, fatto di flashback e di richiami visivi in cui l’iconografia rende visiva l’emozione che il personaggio estrapola dalle inquietudini psicologiche che derivano, inevitabilmente, da una infanzia complicata. Se il rapporto tra padre e figlio è complesso, lo stesso si può dire delle relazioni, turbolente e acrimoniose, che l’anziano protagonista ha e ha avuto con i nipoti, la figlia e le mogli.
Un uomo all’antica e rigido. Maschilista e all’apparenza privo di un istinto paterno condito di protettività e affezione, sentimenti che sembrano fare capolino solo quando interagisce con una nipote: Monica, una bambina di otto anni adottata dal figlio John (Viggo Mortensen) e dal compagno Eric, unico elemento in senso progressista del mondo emotivo dell’anziano protagonista del film.
Mortensen indaga il sentimento mendace di un’America rupestre, che non si ribella al conformismo dei vecchi patrioti austeri e incorruttibilmente ancorati al proprio consertvatorismo, impersonificandola nella figura di Willis (Lance Henriksen): l’anziano padre che vive sull’eco di un passato lontano e che è per lui il crogiuolo dello stereotipo che ama rappresentare ma che, allo stesso tempo, lo porta a farsi odiare da chi gli è stato e gli è più vicino. 
C’è un guizzo registico che porta il montaggio ad uno scambio repentino di scene, che danno al film una certa innovativa vivacità, seppure le scelte di linguaggio iconografico possano, a tratti, risultare un po’ sterili. 
E’ comunque l’amore il fil rouge che determina la narrazione stessa e la puntella nelle sue disparate variabili. E’, è vero, la storia di un padre, ma è anche la storia della caduta sentimentale di un uomo che si trova a far fronte ai cambiamenti di una società in cui abitano vivacemente, invorticati anche e più di lui, i figli e i nipoti. 
E’ la storia di come un uomo possa rimanere intrappolato dalla sua indole e di come lotti per non rendere dissolubile il legame con le proprie radici, più emotive che geografiche. 
Il film ha un linguaggio elegante e non accade mai un vero e proprio plot twist, o meglio, c’è, ma è sopito. Non ci sono colpi di scena. Nessun cambio particolare di posizione da parte del protagonista. Nessun accanimento morboso verso l’intimità familiare dei personaggi, nemmeno nei momenti delle liti più ferali. Solo nei momenti finali, l’excursus termina con una nota di redenzione necessaria alle premesse narrative, che fa del film una elegante opera prima dalle ricche buone intenzioni e dalla forma, oltre che dalla sostanza, personali.
 
Valeria Volpini