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Eva

Domenica 25 Febbraio 2018 12:36
Ci ha preso gusto Isabelle Huppert a scegliere ruoli da femme fatale. L’ultimo, per intenderci quello in Elle di Paul Verhoeven, gli aveva procurato una meritata candidatura agli Oscar 2017. Allora perché non riprovarci. Il progetto di Benoît Jacquot però, senza minimizzare le doti di seduttrice dell’attrice francese, meritava un’ammaliatrice (Eva che dà il titolo al film) più junior e più improntata a trasudare carnalità. E’ probabile che fin già dal casting, anche il Bertrand Valade di Gaspard Ulliel (E’ solo la fine del mondo – 2016) è troppo imbambolato e sinceramente fuori parte, il film si porti dietro dei deficit non recuperabili. E se il buongiorno si vede dal mattino, qui siamo di fronte ad un far del giorno dai tratti chiaramente temporaleschi. Burrasca nella quale si trova per tangibili colpe il regista/sceneggiatore Benoît Jacquot (dell’autore si ricorda il recente e non esaltante Tre Cuori, in concorso a Venezia 2014). La sua Eva richiedeva una drammaturgia spinta verso l’ambiguità, con subdoli slanci verso l’immoralità. Questo è alla base del romanzo di James Hadley Chase del 1945. In Eva troviamo solo i tratti distintivi del noir (e neanche troppo riusciti). Le linee guida all’interno della narrazione sono sbilanciate, ahimè, verso aspetti psicologici spicci, che non offrono veri punti di riferimento. Basandosi su queste personalità (per intenderci quelle dei due protagonisti sopra citati), alle quali viene affibbiata solo debolezza e nessuna particolare dote narrativa, non si riesce mai a chiudere un cerchio. Tutto abbozzato e mai veramente concretizzato. La fascinazione non sale mai e qui dovrebbe essere la madre di tutto. 
 
Eva è in concorso alla Berlinale edizione 68. Il film aveva avuto una prima trasposizione nel lontano 1962 diretta da Joseph Losey, con la nostra splendida Virna Lisi. Il ruolo di Eva fu affidato a Jeanne Moreau e quello del malcapitato Bertrand Valade a Stanley Baker. Il film di Losey ottenne una critica positiva; la versione 2018, come già accennato sopra, risulta la brutta copia della pellicola del 1962. La bocciatura non è completamente categorica solo perché la storia riesce a trasmettere curiosità nello spettatore. Peccato perché il regista fa di tutto per far perdere questo appeal.
 
Le intriganti vicende scaturite in immagini vedono un aitante giovanotto, che di nome fa Bertrand, alle prese con il sogno di una vita: diventare un famoso scrittore, in modo da potersi garantire un futuro prosperoso e di successo. L’occasione rende l’uomo ladro e quando Bertrand si trova tra le mani un inedito manoscritto di uno stimato romanziere morto davanti a suoi occhi per cause naturali, non esita a farlo diventare suo. La fama e la gloria arrivano copiose. Ora deve mantenere questo livello qualitativo di scrittura e non sa proprio come farlo. Improvvisamente entra nella sua vita Eva, Escort d’alta società. Il giovane ne rimane stregato e decide di conquistarla ad ogni costo. Userà questa sua torbida liaison come base del suo prossimo romanzo. Ma non ha fatto i conti con Eva, per nulla propensa a concedersi senza riserve. Bertrand entra così in un vortice di tentazione e bramosia, che mette a rischio il suo fidanzamento con l’innocente e pura Caroline (Julia Roy). Il suo editore aspetta con ansia il nuovo libro, da tutti preannunciato come l’ennesimo capolavoro. Malauguratamente l’immaturo Bertrand diventa lui succube del gioco di Eva. Cede così tutto se stesso ed entra, senza ritorno, in un artificio oscuro fitto di falsità ed inganni.
 
La storia è stuzzicante, ma qui proprio non ci siamo. Il film del regista francese a tratti sembra un telenovela impazzita. Protagonisti troppo finti, che non sembrano esseri appartenenti alla società descritta. Confinati in un limbo tragicomico, che non ha ragione di essere per un film del genere. 
 
David Siena
 

U-July 22

Mercoledì 21 Febbraio 2018 12:42
Sinceramente non ci si aspettava una tale cannonata, in tutti i sensi, dal film di Erik Poppe. Pugno allo stomaco alle 9 del mattino, che risveglia senza tanti fronzoli la paura del terrore, che troppo volte pensiamo possa riguardare solo gli altri, dando per scontato che il nostro universo sia protetto da chissà quale entità superiore. Utøya –July 22 ci impone di non sottovalutare. L’inferno è più vero di qualsiasi idealizzato paradiso. Il regista norvegese che portò nel 2017, nella sezione Panorama qui alla Berlinale, lo storico The King’s Choice, quest’anno vede il suo U- July 22 concorrere per l’Orso d’Oro. Una pellicola a dir poco micidiale, che racconta del massacro di Utøya in Norvegia il 22 Luglio 2011; lo stesso giorno della bomba alla sede del Governo norvegese. Kaja (Andrea Berntzen), diciannovenne in vacanza con amici, è il boccino di tutta la vicenda, che cerca la via d’uscita in un labirinto colmo di orrore e ansia.
 
Per essere più precisi i fatti si svolgono su un’isola davanti ad Oslo. Il campeggio estivo è molto in uso nei paesi nordici e sull’isola di Utøya si trova l’accampamento organizzato dal partito laburista. E’ mattina e l’intero gruppo di adolescenti si sta preparando per una giornata all’insegna di escursioni e svago. Il risveglio non è dei migliori, visto che si apprende subito delle bombe scoppiate presso il Governo. Dopo le telefonate di rito a genitori e parenti la calma si fa strada tra i giovani, che si sentono protetti visto anche il mare che li separa dalla capitale. Ma degli spari, che provengono dal bosco, interrompono la ritrovata quiete. In un primo momento si pensa ad una esercitazione. Il panico arriva a dosi massicce quando si capisce che siamo in presenza di uno squilibrato con fucile, che sta uccidendo senza pietà chi gli capita davanti. Kaja è la protagonista che cerca di mettere in salvo la sorella minore, ma soprattutto è l’occhio del regista, che tramite la ragazzina ci fa rivivere le angoscianti situazioni, che vive l’intera giovane comunità. 
 
Poppe parla diretto allo spettatore, lo porta dentro al massacro, in piena zona di guerra. Con la potenza verista delle immagini e grazie al piano sequenza in tempo reale, che dura esattamente quanto l’intera operazione del folle terrorista, rende vividi gli stati d’animo dei ragazzi. E’ estremamente consapevole del suo girato e lo dimostra non lasciando nulla al caso. Il suo è un virtuosismo bello e buono, ma non fine a se stesso. La paura, la disperazione e l’oppressione rivivono senza filtri e lo stress che invade il pubblico diventa parte stessa della narrazione. Si perché si entra in quei maledetti boschi e la discesa all’inferno è purtroppo senza ritorno.
U -July 22 ricorda Elephant di Gus Van Sant, Palma d’Oro 2003 al Festival di Cannes. Lì però i punti di vista erano diversi. Gli avvenimenti narrati erano visti non da una sola persona, ma da più protagonisti. Ma il senso di impotenza è il medesimo.
 
C’è anche un altro aspetto che ha farà molto discutere: la dura frecciata verso chi comandava all’epoca dei tragici eventi. La pellicola di Poppe è assolutamente un’aspra critica verso le istituzioni, non preparate e smarrite. Ci volle un’ora e mezza per intravedere i primi soccorsi. Questo non trascurabile sotto testo etichetta U-July 22 come film politico. Biglietto da visita forse non troppo gradito in previsione dei premi, ma se ci concentriamo unicamente sul valore assoluto del film, della politica non c’è più traccia. Indimenticabile.
 
David Siena
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