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Visualizza articoli per tag: cannes 69

Money Monster

Venerdì 13 Maggio 2016 10:07
Jodie Foster si conferma una notevole regista. Dopo Mr.Beaver del 2011 e le  collaborazioni con la tv, per cui ha diretto anche un episodio di House of Cards (l numero 22), torna agli intrighi di potere con un cast stellato. Il programma è Money Monster,  il nome (del conduttore) è Lee Gates (George Cloney),  la regista è Patty Fenn (Juilia Roberts). Ogni giorno si occupano dell'andamento altalenante e imprevedibile della borsa. Lei autentica e disciplinata è stanca della collaborazione, scrive per lui i testi e gli suggerisce le battute con il microfono ma Lee è una testa calda, un affabulatore, ammalia gli spettatori paragonando i numeri alle forme di una donna, suggerisce le combinazioni vincenti, le sue previsioni sembrano essere sicure e infallibili, ma non lo sono. Durante una diretta, nello studio dalle retrovie irrompe Kyle (Jack O'Connell), un giovane terrorista a volto scoperto, con una pistola spianata e l'interruttore su una bomba che può far saltare in aria tutti da un momento all'altro. Tutta la vicenda è un  thriller ad alta tensione in cui le parti si ribaltano continuamente. Lo spettatore avverte la claustrofobia dello studio sotto assedio. Per due ore la paura di annoiarsi per lo stesso scenario viene scongiurata dalla sceneggiatura, un mix di humor e colpi di scena. L'attentato si trasforma in un pretesto per smascherare un gioco di soldi prevedibilmente più grande. Con una lunghissima gestazione dal 2012, la regia è stata affidata alla Foster nel 2014  il film è stato prodotto da quattro case differenti: Smokehouse Pictures, Tristar, Village Roadshow e Sony Picture. Il film è stato presentato (in questi giorni) fuori concorso a Cannes 2016. Negli Stati Uniti le tematiche che riguardano la vendita e la perdita delle azioni sono state affrontate al cinema su diversi piani. Se The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2013) mostrava un drogato Paperon De Paperoni pieno di fica (memorabile DiCaprio che cercava di afferrare il telefono con la stessa molla con cui voleva raggiungere l'agognato Oscar) qui viene mostrata l'altra faccia della medaglia. La Tv come strumento di intrattenimento, la (possibile) morte in diretta che attrae milioni di persone. La macchina folle che spinge lo spettatore a vedere "come va a finire" con l'apparente distanza creata del tubo catodico. Quanto vale la vita di una persona? rispondete pure con comodo dal divano di casa vostra. 
 
Francesca Tulli

Cannes69. Toni Erdmann

Mercoledì 25 Maggio 2016 09:47
Tedesco di nascita, ma non per questo freddo come un ghiacciolo, Toni Erdmann scalda come una fiamma ardente, la stessa che porta calore, allegria e un po’ di sana bontà sulla Croisette. Sempre pressoché privo di comicità, il palinsesto del concorso ufficiale, accoglie il film di Maren Ade a braccia aperte, uscendo così dalle convenzioni, proprio come il personaggio che presta il nome alla pellicola. Il modo di vedere il mondo di Toni Erdmann è alla base dell’interpretazione del film.
 
La regista e sceneggiatrice Maren Ade, che aveva curato il lodevole Alle Anderen, Orso d’Argento alla Berlinale 2009, ambienta questo lungometraggio in una Bucarest lavorativa. Il colletto bianco Ines Conradi (Sandra Hüller) è alle prese con un grosso affare. Impegnatissima in questo progetto ha poco tempo per gli affetti e la famiglia. Il padre Winfried (Peter Simonischek), agisce pesantemente da genitore, ma con un fare anticonformista al quadrato si trasforma in Toni Erdmann, cercando così di distrarla portando il suo grado di stress a livelli accettabili. Questa specie di Patch Adams teutonico (che è la versione ironica di Mr. Hyde) si trasferisce per un mese nella capitale rumena e nel momento che l’affare della figlia prende una brutta piega, il suo essere ed il suo agire virerà dal parallelo del disturbo al meridiano del conforto psicologico. Nasce così un sentito ritratto di famiglia fuori da ogni schema, che diverte con scene veramente esilaranti.
 
Di film che ci mostrano come si possa vivere sbattendosene delle convezioni né abbiamo già visti parecchi. Quello della regista tedesca ha quel qualcosa di speciale che è riassumibile proprio nel mostrare gradatamente, con un chiaro andamento imperfetto della narrazione, come la scorrettezza (del padre) possa agire da propulsione per abbattere le paure e le ansie (della figlia). Timori di accentuata diversità chiusi nell’infondata convinzione di dover per forza qualcosa a qualcuno. Di solito quel qualcuno fa parte della propria stirpe, qui assistiamo all’originale snaturamento di quella filosofia psicoterapeutica che costringerebbe i figli ad uccidere la figura dei genitori. Il fare del padre demolisce positivamente questa teoria e la povera Ines ne trova quell’inaspettato giovamento che le cambierà il modo di vedere il mondo. Se in un primo momento lei fa di tutto per far parte della società, adeguandosi ad essa, poi uniformerà il suo pensiero a quello di Toni, mai pronto a sottostare a filosofie ingannatrici e portatrici di obblighi morali.
 
Accostabile per certi versi ad Idiots di Lars von Trier, il lungometraggio trova il suo trascinate profitto nei due attori protagonisti. I 162 minuti del film forse risultano essere eccessivi. Il burlone Erdamm si rende conto molto prima di non aver bisogno di una figlia sostitutiva. I due sono capaci di condividere anche una serata a base di droga. Primo vero punto di condivisione attiva tra padre e figlia. Riflessione imposta allo spettatore che non ne rimane indignato, ma che ne percepisce la forza glorificando così la potenza del gesto.
 
Toni Erdmann potrebbe uscire dall’edizione 69 del Festival di Cannes con qualche prestigioso premio perché è un film di sentimento, nel vero senso della parola, buono come una fetta di pane con sopra la nutella. Costruito per rendere indistruttibile l’enorme importanza della famiglia. Attraverso degli scherzi “bulgari” riesce a modificare radicalmente l’iniziale atmosfera di bizzarria trasformandola in una concreta consapevolezza del viver bene.
 
David Siena
 

Ma Loute

Sabato 21 Maggio 2016 21:53
Nella baia dove il fiume Slack incontra il mare della Channel Coast vive una famiglia dedita alla pesca di molluschi: i Bréfort (Caroline Carbonnier, Thierry Lavieville). Durante le estati devono condividere questo splendido luogo con degli aristocratici: i Van Peteghem (Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrice Luchini, Jean-Luc Vincent). Quest’ultimi soggiornano in una decadente villa, che sovrasta dall’alto tutta la baia. Siamo precisamente nel 1910 quando una serie di illustri sparizioni sconvolgono la vita di questa ridente località marina. Gli ispettori Machin e Malfoy arrivano sul posto per investigare sulla scomparsa dei turisti. Trovano una buona accoglienza da parte della comunità del luogo, disponibile a collaborare. Ma Loute (Brandon Lavieville), primogenito dei Bréfort e Billie (Raph), la giovane ragazza dei Van Pateghem, istaurano un rapporto d’amore, che sembra spezzare ogni vincolo sociale. Insieme aiutano gli investigatori   in modo da ridare alla baia quella tranquillità ormai perduta.
 
Con un impianto da black-comedy, l’ultimo lavoro di Bruno Dumont (Humanité e L’età inquieta tra i suoi film più riusciti) sbarca sulla Croisette strappando copiose risate in linea con il consenso. Ma Loute ha un sceneggiatura originale scritta dallo stesso regista. Insolito abbinare il nome di Dumont ad un lavoro che non sia un adattamento. L’autore francese predilige trasporre dai romanzi, usandoli come base per poi riadattarli a proprio piacimento. La sua peculiarità sta nel donare alla narrazione una propria anima artistica. Anche Ma Loute ha un cuore che batte di arte propria. Prendendo i fondamenti dell’arte dei primi del novecento: eliminazione della prospettiva, modifica del senso di ordine e proporzione e uso di immagini fantastiche che scavallano nel grottesco e nell’assurdo, dirige un film che si allontana da qualsiasi tipo di realtà. Realizza così una versione aggiornata di quei principi, usando una new Famiglia Addams (I Bréfort) abbinandola ai personaggi di Dark Shadows (I Van Pateghem). Così facendo ripropone ed attualizza l’arte dell’epoca, donando al lungometraggio delle figure anti convenzionali, che gridano la loro diversità in salsa pop. Il fine ultimo non è giudicare, ma raffigurare con calda schiettezza la vita dei suoi strambi personaggi, anche quando sono mostri che mangiano (letteralmente) altri mostri.
 
Ma Loute, che ha già un’uscita italiana, esattamente il 25 agosto, gioca e si mette inizialmente dalla parte della classe operaia. I benestanti cedono ai colpi inflitti dalla bizzarra famiglia di pescatori, che si prendono gioco di ogni istituzione possibile. Arriva però anche un punto di unione: il rapporto che galleggia in acque tempestose tra Ma Loute e Billie, che vede dei moderni Montecchi e Capuleti obbligati a dialogare ed aiutarsi per sopravvivere. Il tutto si chiude e si riallinea quando la provvidenza eleva (materialmente) i Van Pateghem verso un’esoterica e grottesca grazia divina. 
E’ qui che Dumont calca la mano e allunga (di minutaggio) il suo lavoro, con un’esasperazione nella caratterizzazione dei suoi personaggi, facendo così ridondare dei concetti ormai chiari.
 
In splendida forma Fabrice Luchini, fresco vincitore della Coppa Volpi all’ultimo Festiva di Venezia per la sua prova nell’Hermine, ci regala un protagonista, che ad ogni battuta non smette di stupire con il suo scanzonato e borghese atteggiamento tendente al ridicolo. Anche il resto del cast è diretto con passione e non manca di divertire con esilaranti “comiche”.
 
Peccato proprio per il perseverare ad ingrandire, da parte del regista d’oltralpe, un già delineato universo. Palesemente compiaciuto davanti allo specchio delle sue creazioni, Dumont non vede che il proprio riflesso riempie ogni centimetro dello schermo rendendo il tutto troppo ingombrante.
 
David Siena
 

The Neon Demon

Mercoledì 08 Giugno 2016 21:54
Io penso che il mistero in un film ci deve sempre essere, infatti mi abbinano sempre a David Lynch forse per questa cosa che non si capisce mai cosa succede.
Lory Del Santo
 
Jesse (Elle Fanning) , sedicenne di provincia, si trasferisce a Los Angeles per fare della sua straordinaria bellezza un lavoro, ma si troverà a contatto con un ambiente spregiudicato che non le perdonerà un tale dono. 
The Neon Demon, ultima fatica del regista danese Nicolas Winding Refn, è una dura critica al mondo della moda con moltissimi spunti di riflessione, un'opera che l'autore stesso dichiara matura, un punto d'arrivo di tutto il suo percorso precedente. Refn riversa qui tutte le influenze del cinema di cui si è nutrito, mostrandolo come un baluardo ma al tempo stesso volendosene distaccare, prendendone le distanze in nome di una personale presunta originalità. Ci parla di concetti filosofici, di bellezza, inoltrandosi nel suo profondo significato, del mondo dell'effimero che conduce facilmente alla perdizione, di una dura e cinica materialità che contrasta con i sani principi morali.
In the Neon Demon troviamo tutto. Ad iniziare da Bava, Argento per poi passare a De Palma, Lynch, tutto ma proprio tutto. Lo troviamo nelle inquadrature, nell'indugiare con lo sguardo sui personaggi, nei movimenti di macchina, come se studiare i grandi maestri fosse stato un lavoro certosino. La pecca purtroppo sta proprio nel non riuscire a trovare una propria identità decadendo ad una mera copia sbiadita di tutto ciò che c'ha sbattuto al muro prendendoci di peso dalla poltrona.
Elle Fanning, giovane e brava protagonista, si mostra candida e insidiosa al tempo stesso, in lei c'è tutta l'ambiguità e la malattia dei contrasti lynchani, c'è anche la Carrie di De Palma (la scena d'apertura sembrerebbe un mix tra Omicidio a luci rosse e  Carrie lo sguardo di Satana) e poi tutto ciò che turba i nostri sonni, gli infiniti ossimori tra bene/male, provincia/città, giorno/notte, castità/sesso, realtà/allucinazione divengono, senza bisogno di essere annunciati, altrettanti infiniti richiami all'autore di Twin Peaks, a quella Laura Palmer che dovrà essere uccisa, alla Mulholland Drive inghiottita da una scatola blu tra eros e thanatos. É un gioco di specchi e di rimandi, specchi fisici che riflettono le immagini e le amplificano, obiettivi fotografici che immortalano in una sovraesposizione mediatica pericolosissima, ammiccando anche un po' all' Holy Motors di Carax, per due ore di pellicola che forse sono più ostiche delle tematiche affrontate.
Il grosso gap generazionale che accusa Refn è insito proprio nel non riuscire ad essere qualcosa di più di un richiamo, nel diventare noioso a tal punto che per spegnere la monotonia bisogna virare precipitosamente sullo splatter con sbudellamenti vari e cannibalismi al seguito secondo la migliore tradizione cinematografica.
Refn vuole a tutti i costi fare l'esoterico. Dichiara di essersi avvalso delle letture di tarocchi di Alejandro Jodorowsky, delle lunghe chiacchierate quotidiane via Skype con il maestro, tanto da riversare tutta la sua influenza nel loghetto col triangolino che campeggia su locandina e in varie scene del film, un po' insomma come pensare che ingellarsi i capelli alla Elvis equivalga a far rivivere Elvis stesso.
Lui si difende dicendo che chi non ammette di aver “rubato” da qualcuno sta mentendo, in effetti in questo non c'è nulla di male, ma il contrasto rispetto al passato sta nell'apparire acerbo e compiaciuto, come se per comprendere Tarantino ci dimenticassimo di Fernando Di Leo o di Enzo Castellari. Del resto, soprattutto le nuove generazioni di spettatori, Di Leo non sanno neppure chi sia come può accadere che di Refn lo si faccia passare per un talento visionario con buona pace di De Palma e compagnia bella.
 
Chiara Nucera

Frantz

Martedì 20 Settembre 2016 09:49
In un paesino della Germania sconfitta dalla Grande Guerra, la giovane Anna (Paula Beer) giornalmente fa visita alla tomba del fidanzato perito durante il conflitto. Un giorno qualunque del 1919, la ragazza si accorge che non è la sola a recarsi sulla lapide del soldato. Qui entra in scena Adrien (Pierre Niney, Yves Saint Laurent - 2014), personaggio misterioso, che incuriosisce Anna. Quando il ragazzo, per forza di cose, entra nella vita del paese, si scopre essere di origine francese. Domande e dubbi attanagliano la comunità, che come Anna e la famiglia del promesso sposo, si chiedono il perché di questo insolito pellegrinaggio. 
 
Nasce enigmatico ed all’insegna del thriller il nuovo camaleontico lavoro del regista francese François Ozon (Potiche – La bella statuina, nel 2010 in Concorso a Venezia). Frantz, che fa parte della line-up in corsa per il Leone d’Oro a Venezia 2016, è tratto da uno spettacolo teatrale di Maurice Rostand e precedentemente adattato al cinema da Lubitsch nel 1931 con il titolo “Broken Lullaby”.
Il regista d’oltralpe gira per la prima volta in bianco e nero ed in lingua tedesca. Rimane comunque fedele al suo cinema inventivo ed illusorio, riuscendo a mixare diversi generi e tematiche. Ozon imbastisce una regia che esalta la narrazione, tenendo alta l’asticella dell’attenzione, depistandoci per poi riallinearsi. Azzecca i tempi e fa fiorire i sentimenti, stati dell’anima dubbiosi e vaghi, per certi versi inafferrabili. 
Frantz è una parabola sul perdono. Nelle sue scene, che sembrano materia viva, camminano parallelamente Anna ed Adrien, in cerca di qualcosa che metta pace nelle proprie esistenze. Gestione complicata ed estremamente riflessiva di due diversi tipi di assoluzioni. Scopi diversi nell’affrontare i propri viaggi.
Chiamiamola vittoria e sconfitta, come è nell’intento del regista francese, se si paragonano le situazioni di Germania e Francia dopo la Prima Guerra Mondiale con quella dei due protagonisti. Viaggi personali e di culture, che per i tedeschi sarà la base della costruzione di un futuro di follia e morte. Nell’iconico dipinto “Il Suicidio” di E. Manet risiede parte dell’interpretazione della pellicola. Ad un primo sguardo il soggetto maschile sembra dormire un sonno riparatore, ma sotto l’attenta lente d’ingrandimento di Anna si realizza il suo nefasto significato: la fine figurativa dell’umanità, vittima della guerra e dei suoi strascichi. 
 
Nell’eleganza senza tempo del bianco e nero, paradossalmente risiede il punto a sfavore e forse un po’ banale del film. I momenti di spensieratezza si colorano, tutto il resto: i ricordi delle battaglie, il lutto ed il pericolo non hanno colore. Una strada battuta parecchie volte, che sinceramente ha il sapore del déjà vu. 
 
In evidenza per la sua bravura Paula Beer, premio Marcello Mastroianni per la migliore attrice emergente. La sua interpretazione è malinconica ed allo stesso tempo sentita e tenace. L’artista tedesca è aiutata anche dal buon lavoro fatto da Pierre Niney, capace di incastrarsi tra le riflessioni della ragazza, nascondendo e mettendo in evidenza il mistero.
 
Franzt è un film ben raccontato. Non si urla al capolavoro, ma scorre senza noia e ci si affianca ai due protagonisti immedesimandoci ai perdenti e stando assolutamente dalla loro parte. Sensi di colpa, amore e coraggio sono un buon viatico per assistere a quest’opera, che può essere considerata un moderno romanzo storico ben realizzato.
 
David Siena
 

Il cliente

Sabato 21 Maggio 2016 11:17
Teheran, giorni nostri. Una giovane coppia deve fuggire dalla propria abitazione, causa pericolo imminente di crollo dell’edificio. Costretti a cercare con urgenza un posto dove stare, Emad (Shahab Hosseini) e Rana (Taraneh Alidoosti), chiedono se è possibile dormire per qualche notte nel teatro dove entrambe stanno preparando lo spettacolo “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. Il responsabile offre loro una sistemazione più comoda: un appartamento lasciato libero da una donna, che con l’intensificarsi della narrazione, scopriremo avere avuto un passato a dir poco permissivo. Un sinistro episodio, che ha come scena del misfatto proprio la nuova casa, cambierà per sempre la vita dei coniugi.
 
Premio per la miglior sceneggiatura ad Asghar Farhadi e miglior attore a Shahab Hosseini (egregia prova da navigato attore teatrale) al Festival di Cannes 2016, dove il film era in concorso per la Palma d’Oro.
 
Asghar Farhadi, regista di A Separation (Golden Globe e Oscar miglior film straniero nel 2012) e di Il Passato, torna a descrivere il proprio paese, un Iran profondamente avvinghiato alla propria cultura. Mondo segnato da una ben definita ideologia, che abbraccia calorosamente la religione. Su questa base elabora, con acume da esperto di teatro, un’intricata drammaturgia affiancando la vita di due giovani innamorati a quella della famiglia protagonista dell’opera di Miller “Morte di un commesso viaggiatore”. Metacinema come base per un revenge movie guidato da un cuore ferito, che non riesce a darsi pace.
 
L’autore iraniano, come ormai da qualche anno a questa parte, ci regala un lungometraggio contraddistinto da una conoscenza profonda del narrare. Efficacia del testo mai celata e resa preziosa dai dialoghi e dal saper descrivere complicati rapporti umani. Si rimane avvinghiati ai dettami della società, che poi sono proprio la causa scatenante del divampare delle frustrazioni. Lo sviluppo del testo è stupefacente, un thriller disseminato di complessi labirinti personali. Viaggi conservatrici con iconici cartelli affissi su ogni protagonista. Un pannello da optometrista stampato addosso con la scritta più visibile che dice: “Vergogna”. Sotto più sfuocate, ma presenti, le parole: fallimento ed insoddisfazione. 
 
Farhadi ci insegna come un piccolo gesto può avere delle conseguenze enormi e modificare la vita di molte persone. Una minuscola fiamma che poco a poco prende aria bruciando tutto quello che si è costruito con amore e perseveranza nella vita. Qui si arriva con un groppo in gola, tensione alle stelle costruita attraverso una impressionante conoscenza delle dinamiche umane, che stordisce e lascia impietriti. Un dettagliato sguardo nell’anima della propria gente tradotto con un linguaggio delle immagini unico ed esaustivo.
Emad ad un certo punto vorrebbe morire perché ha fallito come il commesso viaggiatore, che trova nella morte la riparazione a tutto. La dipartita morale di un docente, aimè troppo idealista.
 
The Salesman è il film da non perdere. Perla di rara bellezza nel palinsesto cinematografico contemporaneo. Ad oggi non è ancora prevista una data di uscita italiana, ma siate pronti ad osservare il mondo frantumato del coraggioso cineasta iraniano, colmo di difficoltà nel gestire la propria famiglia anche quando appartieni ad una classe media ed istruita. La Palma d’oro morale.
 
David Siena
 

Harmonium

Lunedì 23 Maggio 2016 15:43
Meritatamente premiato con il Premio della Giuria nella sezione Un Certain Regard 2016 del Festival di Cannes, Harmonium ci porta all’interno di una famiglia giapponese qualunque, mostrandoci dove il male si annida contro ogni previsione, occultato da una facciata di perbenismo, sistematicità e di perfezione.
In un paesino, che non ci è noto sapere, si vive la vita nella sua abitudinaria routine. Ci viene mostrata la casa di Yosho (Kanji Furutachi) e della moglie Aike (Mariko Tsutsui), fotografia di una comunità perbene, che amorevolmente cresce la figlia insegnandogli le buone maniere e come svago lezioni di harmonium. Il pater familias gestisce, all’interno del proprio immobile, un’attività di stamperia meccanica. Ligio al dovere manda avanti il suo businnes da solo, fino a quando un vecchio amico bussa alla porta chiedendo un lavoro ed un posto in cui dormire. Il passato, dalle non chiare tinte di colore, torna a fargli visita. In un susseguirsi di colpi di scena, gli equilibri della famiglia verranno messi alla prova, per poi trovarsi di fronte un’amara realtà di difficile gestione. Scatole che si aprono in continuazione con al loro interno pezzi di un puzzle, che esige di essere completato. Perché tutto quello, che si è maldestramente seminato, esige un prezzo crudele da pagare. 
 
Il film è un cerchio di suprema precisione stilistica diviso in due differenti metà. Parti dello stesso universo, che compongono questa storia. Il cosiddetto primo tempo sviluppa la quotidianità, che mano a mano si carica di mistero, il secondo da spazio alla ricerca e alla gestione del senso di colpa. Il regista Kōji Fukada, che qui cura anche la sceneggiatura, rappresenta con spietata armonia un escalation di eventi credibili usando due distinti colori per raccontarli; il bianco e il rosso.
Dimostra notevoli capacità visive ed infonde un ritmo musicalmente cadenzato alla sua opera. Alza e abbassa i momenti di pathos nel film come in una sinfonia perfetta; spartito, che ha nel suo sviluppo soavi andamenti seguiti da altri distorti e dissestati. L’harmonium del titolo rimanda proprio a questo, ed assume anche altri differenti significati: strumento di crescita e apprendimento per la ragazzina ed armonia della classica famiglia giapponese.
 
Il cast è ben diretto e artisticamente all’altezza. Yosho è l’icona della conformità e della compostezza giapponese. Razionale e lontano dalla religione. Aike evidenzia la sua vergogna con gesti ossessivi. La colpa che ricade su entrambe è gestita in maniera diametralmente opposta.
L’amico Yasaka (Tadanobu Asano), mafioso della Yakuza, incute fin dal primo sguardo e da come è fotografato sulla locandina del film, un marcato timore. Sguardo penetrante e maligno.
 
All’interno del compiuto Harmonium troviamo anche un potente uso del linguaggio meta cinematografico, con due istantanee del prima del dopo. Ritratti di vita serena e di crudele e mutilato cercare (forse) di ricominciare.
 
David Siena
 
 
 
 
 
Chi te lo fa fare di tornare a casa con una famiglia così? E’ la domanda che nasce spontanea rivolta a Louis (Gaspard Ulliel), scrittore di fama mondiale, che torna dai suoi cari dopo 12 anni di assenza, per annunciare la sua prematura dipartita. Comunità disperata, che si preoccupa di foraggiare il proprio essere, senza realmente avere a cuore il povero Louis, passivamente attaccato dalla madre Martine (Nathalie Baye), dalla sorella minore Suzanne (Léa Seydoux) e dal fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel). Non ci vengono dati punti di rifermento spazio/temporali: nessun luogo né data, solo quattro mura, palco di un teatro dove viene messa in scena una vita con le proprie assurde regole. Una sorta di eterotopia, dove il mondo reale è lì fuori che ci guarda. Mondo che ha gli occhi sensibili e collaborativi di Catherine (Marion Cotillard), moglie del frustrato Antoine, elemento che permette allo spettatore di oltrepassare i muri pieni di ego ed entrare in sintonia con lo sfortunato letterato Louis. 
 
Gran premio della Giuria a Cannes 2016, Juste la fin du Monde conferma le potenti doti registiche del giovane ventiseienne Xavier Dolan. Tratto dalla piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce, l’ultimo lavoro dell’autore canadese, del quale ha curato anche la sceneggiatura, è un film sull’incomunicabilità. Paradossalmente comunicativo nel saper parlare con l’anima e lasciare alle parole soltanto il compito di riempire uno spazio materiale. Inutili sproloqui davanti alla maestosità dei sentimenti. Forse un Dolan minore rispetto a Mommy e a Tom a-là Ferme, si lascia prendere leggermente la mano dal narcisismo. Non diventa comunque vittima di se stesso, confermando l’enorme talento nel trasmettere emozioni attraverso le immagini ed i suoni. La sua regia è intima, fatta di primi piani e di sguardi. Osservare per carpire le mutazioni del volto e degli animi, usando la colonna sonora come urlo, come grido di ribellione. 
Una direzione artistica in grado di farci sentire i sapori, gli odori, le attenzioni e le finte attenzioni. Senti quasi l’odore del sudore, del fumo delle sigarette, carpendo così il vero motivo per il quale Louis torna a casa. Ritorno che sa di voglia d’infanzia e d’adolescenza. Riscoprire le origini della propria sessualità in quella casa ora in decadenza, che per lui significa l’esatto contrario. Il proprio universo che riprende forma prima della fine del mondo.
 
Dolan è impeccabile nel conferire, a quelli che possono essere interpretati come momenti banali, una tale forza di partecipazione supportata da eccitazione e commozione. Durante il viaggio in aereo che lo porta verso la sua famiglia, Louis si imbatte in un bambino, che gli copre gli occhi da dietro il suo sedile. Fonte di disturbo che diventa un gesto semplice, ma pieno d’amore. Lo stesso ricco amore che ha per la vita, il quale non ha bisogno degli occhi per essere assaporato. Materialità sostituita da una sostanza che ha un legame stretto con l’eternità. Perpetuità del bene, che vorrebbe conferire ai suoi cari e magari averne un po’ in cambio, per arrivare alla fine della corsa felice come in quell’attimo di contatto tra il suo viso e le dolci mani di un infante sconosciuto.
 
Tra i momenti più sentiti della drammaturgia, due sono quelli che rappresentano al meglio quel senso di chiusura e di assenza d’intesa. Ad un certo punto ci accorgiamo che tutti sanno che tutti fumano, ma nessuno si vuol far vedere dagli altri. Nel dialogo tra Louis e la madre Martine, lei disfa e rimonta tutta la baracca delle loro vite, lasciando al figlio solo il respiro per respirare.
 
Il tempo è un altro elemento importante nella narrazione. Il poco tempo che rimane a Louis dà vivere è scandito dalle lancette di un cucù. Tempo che abbraccia quel senso di morte, che incombe su tutto il film. Tempo che viene concesso ad ogni membro della famiglia per confidarsi con il giovane scrittore, momenti pieni di sé che sembrano essere gettati al vento, per poi riscoprili fondamentali nelle scelte di Louis.
 
Juste la fin du monde in Italia uscirà il 1 dicembre. C’è ancora qualche mese da attendere per rivedere all’opera l’enfant prodige canadese, che come detto in precedenza, stupisce sempre, ma forse quel suo fossilizzarsi troppo sul suo proprio stile potrebbe portalo nella direzione di un nuovo Dorian Gray. Speriamo così di rivederlo in qualcosa di cool, ma allo stesso tempo terrorizzante e maledettamente pratico ed efficacie.
 
David Siena

Rester Vertical

Venerdì 20 Maggio 2016 15:57
Rester Vertical ha aperto la competizione del Festival di Cannes 2016. E se il buongiorno si vede dal mattino, possiamo affermare che qualche nuvoletta di troppo quella mattina c’era. Non come nel meraviglioso cielo, che sovrasta le sterminate praterie della Lozère francese, dove il film ha inizio. Leo (Damien Bonnard), giovane sceneggiatore e regista, durante una scampagnata alla ricerca di un lupo, si imbatte nella giovane e carina Marie (India Hair). Il loro incontro esplode e fa scintille dal primo sguardo. Insieme hanno un figlio, che per lei subito dopo diventa ingombrante. Leo però è un giovane senza una fissa dimora e il suo andirivieni dalla città alla campagna fa nascere in Marie dei dubbi sulla sua persona. Lei lo lascia con il pargoletto da accudire. La vita, già un po’ stramba di Leo, si complica maggiormente. Succedono tante cose strane che mettono a repentaglio l’intera esistenza del ragazzo. Avvenimenti discutibili sotto la calda lente della società. Ci domandiamo: “Forse stanare quel lupo è stata una buona idea?” 
Negli intenti del regista Alain Guiraudie c’è proprio quello di andare a cercare quell’animale feroce per provocarlo e dimostrargli che si può rimanere in verticale (in tutti i sensi possibili), con orgoglio davanti a lui, qualsiasi sia il modo di approcciare la vita. Dimostrare di non avere paura per non farsi mangiare. Sbattergli in faccia, e il regista francese lo fa con scioccanti immagini: genitali in primo piano, un vero parto e un rapporto omosessuale, che la libertà di espressione è fondamentale e primaria nella vita di un individuo. 
 
Guiraudie, non alla prima presenza al Festival di Cannes, con il suo Lo sconosciuto del lago (L'Inconnu du lac), presentato nella sezione Un Certain Regard nel 2013, ha vinto il premio per la regia.
Diretto con mano ferma, l’autore posiziona la telecamera esattamente dove il suo occhio e il suo spirito voglio andare a parare. Oggetto di alta tecnologia che diventa un proseguimento di se stesso, il mezzo per farci capire quanto ci sia di autoreferenziale in questa sua nuova pellicola.
 
La pecca maggiore che possiamo imputare al film è quella di riempirsi fino all’accesso di situazioni bizzarre. Non c’era bisogno di traumatizzare all’eccesso. Scuotere fa bene allo spirito e alla mente, ma quando si riempie, nel vero senso della parola, un contesto con troppe esplicite provocazioni, lo spettatore si ritrova esasperato e in continuazione balzato dentro e fuori dal significato del film. Non che poi ci si senta vuoti, ma sinceramente un po’ depistati e costretti ad assistere a qualcosa che sembra essere prettamente autoreferenziale. Un sali e scendi che non aiuta a portare in porto quella che inizialmente sembrava un ottima idea. 
 
Non si può dimenticare di lodare la splendida fotografia del lungometraggio. Paesaggi che sembrano coccolare il povero Leo, che nel suo ferreo giustificare le proprie azioni, tramuta la sua figura in qualcosa di borderline: bamboccione o difensore della patria? Non si dovrebbe arrivare fino a questo punto.
Eccedendo si passa quasi dalla parte del torto.
L’agnellino tenuto in braccio nel finale davanti a lupi è chiaramente l’essere più innocente in balia del mostro. Come se Leo avesse in mano il proprio bambino, che non fosse altro che la versione in fasce di se stesso.
 
 
David Siena