Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » News » Visualizza articoli per tag: kit harrington
A+ R A-
Visualizza articoli per tag: kit harrington

La mia vita con F. John Donovan

Mercoledì 26 Giugno 2019 17:09

Cosa dovrebbe rivelare un artista di se stesso? E cosa è davvero importante conoscere di lui? Il timore di non essere mai all’altezza delle aspettative degli altri porta ad un perenne senso di inadeguatezza, uno smarrimento che come un vortice isola dal mondo esterno.  La mia vita con John F. Donovan ruota attorno a questo tema che come un guscio anestetizzante ha circondato a lungo l’esistenza di John, portandolo alla perdita di senso nel suo reale. Nel film, a narrarci la storia di Donovan è l’attore ventenne Rupert Turner, che in una lunga intervista in occasione dell’uscita del suo primo libro, decide di parlare della corrispondenza epistolare avvenuta circa dieci anni prima tra lui e la star americana.  Nelle lettere spedite a Rupert, Donovan confidava apertamente i suoi turbamenti, le continue frustrazioni dinnanzi ad una vita costruita sulla base dell’accettazione altrui. Il rapporto a distanza tra i due, sancì qualcosa di molto più importante di una pura amicizia epistolare, portando al disvelamento di alcuni aspetti finora tenuti all’oscuro. Il settimo film di Xavier Dolan è probabilmente quello che più cerca di discostarsi dai suoi precedenti lavori, tentando di fare da spartiacque con la pregressa filmografia. Dopo un’accoglienza piuttosto tiepida a Toronto, accompagnata da numerose disapprovazioni da parte della stampa internazionale, finalmente ci è possibile rintracciare le tanto chiacchierate debolezze di questo film. Partendo da una succinta analisi della trama, si arriva alla conclusione che i continui rimaneggiamenti della sceneggiatura da parte di Dolan e del suo co-sceneggiatore Jacob Tierney, di certo non hanno giovato sul risultato complessivo. Si pensi infatti, che il film è rimasto per circa due anni e mezzo in disparte, un po’ per i molteplici progetti di Dolan e un po’ per alcune incertezze sulla storia e sui personaggi. Ebbene, tali incertezze tornano a galla in modo prepotente nella versione finale del lavoro. Ciò che si evidenzia è pertanto un’intensità che vacilla gradualmente nel corso del film, fino a perdere totalmente equilibrio. La tempesta visiva tipica del cinema di Dolan è qui riconfermata, ma è la sola a restituire sensazioni che purtroppo i personaggi e le scene non riescono a trasmettere. La forza dell’immagine è il vero fulcro del film perché incanta e ammalia, lasciando però poco spazio ad altro. Anche se si è lontani dalle atmosfere e dalla tensione emotiva di un’opera sincera come E’ solo la fine del mondo, alcune di quelle istantanee continuano ad essere presenti nel cinema del regista. La presenza costante di esse, finisce in alcuni casi per creare un’assuefazione pericolosa per lo spettatore, soprattutto se quello che viene narrato non ha uno scheletro ben definito. La sensazione che il tutto evapori è tangibile dalle primissime scene, in cui Kit Harington, bello da bucare lo schermo, non riesce ad andare a fondo e a risultare pertanto adatto al ruolo. Da ciò deriva quel mancato senso di empatia che lo spettatore percepisce da subito, sentendosi incapace di avvicinarsi davvero ai personaggi (un aspetto che può apparire improbabile ed estraneo a chi ha finora amato i film pregni di forza e sentimento di Xavier Dolan, ma che si presenta con evidenza in questo lavoro). Tra gli aspetti positivi, è imperdonabile non dedicare una menzione speciale al piccolo Jacob Tremblay, vera perla del film, capace di rapire anche solo con uno sguardo. Nel cast anche Natalie Portman, nel ruolo della madre di Rupert, una presenza che aggiunge intensità al racconto passato del giovane, ma il cui personaggio poteva essere affrontato meglio e con una sensibilità differente. Susan Sarandon si trova invece a fare i conti con il ruolo di un'altra madre, quella di Donovan, donna solare e allo stesso tempo sfacciata, con un bizzarro rapporto con l'alcol. Ma il fiore all'occhiello resta il cameo di Kathy Bates, nei panni dell'irriverente manager di Donovan, capace di restituire al film un prezioso respiro cinico e ironico. Quel che è certo, è che il vero protagonista del racconto è in assoluto lo sguardo, ancora una volta cuore pulsante e motore di molte scelte stilistiche di Xavier Dolan, autore-tessitore di intrecci visivi che quasi sempre centra il bersaglio.

Giada Farrace