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Visualizza articoli per tag: Steve McQueen

Vincent Ward: da Hollywood alle sirene

Lunedì 06 Ottobre 2014 11:47
Abbiamo incontrato il regista neozelandese Vincent Ward, classe 1956, in un’area storica della città di Shanghai, vicino al Suzhou River dell’omonimo film di Lou Ye. Ward è stato in Cina per un ciclo di conferenze, ma anche per il progetto con il quale ha preso parte alla Biennale di Shanghai del 2012. Il regista, vincitore dell’Oscar per gli effetti visivi del film “Aldilà dei Sogni” (1998), “mancato” regista di “Alien 3” (la sua versione mai realizzata del film è considerata un cult dagli amanti del sci-fi) e produttore de “L’Ultimo Samurai” (2003), dopo aver girato film indipendenti incentrati su temi sociali come la problematica integrazione di minoranze etniche e culturali, e seguendo la sua iniziale vocazione di pittore, si è dedicato alla realizzazione di opere video che gli hanno permesso di esplorare la pura immagine in movimento, nei suoi colori e nel modo dinamico che ha di occupare lo spazio e dargli forma, modellarlo con luci e ombre, ma anche con il suono.
 
 
Ward esprime una certa amarezza per l’esperienza hollywoodiana, la stessa che si trova nelle parole di molti registi non-americani che hanno lavorato a lungo nella capitale del cinema mainstream. Non manifesta il suo disappunto in modo esplicito o enfatico, ma dalle sue parole si evince come la frustrazione per una fondamentale mancanza di libertà “creativa” lo abbia portato alla decisione di dedicarsi esclusivamente a progetti lontani dal cinema commerciale e rivolti al pubblico delle mostre d’arte e degli esperimenti “inter” o “crossmediali” che negli ultimi anni, grazie alla comparsa di canali di diffusione sempre più numerosi e differenziati (non ultima la rete), hanno trovato un numero sempre maggiore di estimatori ed esponenti. Si possono citare registi a cavallo tra i due mondi – arte e cinema – come Peter Greenaway e il più giovane Steve McQueen.
 
 
Il caso di Vincent Ward è estremamente interessante nella sua anomala esemplarità: il film più noto del regista è certamente “Aldilà dei Sogni”, premiato nel 1999 con un Oscar per gli effetti visivi. Il film è uno strano ibrido, sottilmente deprimente come forse solo i film “oceanici” – ovvero provenienti da Australia e Nuova Zelanda – riescono a essere (penso a Peter Weir e ai suoi riusciti esperimenti sull’isolamento materiale ed esistenziale di un popolo), ma anche eccezionale dal punto di vista visivo: visioni che prendono vita per diventare paesaggi e rappresentazioni/interpretazioni di paradisi, limbi e inferni evidentemente ispirati alle descrizioni dantesche. Quello che fa Ward è abbinare immagini a un immaginario pregresso fatto di ricordi e atmosfere: per realizzare questa non facile impresa il regista ha fatto confluire nei suoi film la vocazione iniziale per la pittura – ha una laurea in Belle Arti dell’Ilam School of Fine Arts, Università di Canterbury – partendo dalla tecnica di animazione di sfondi dipinti con tecniche tradizionali. Il trattamento delle immagini presente del film sembra però contraddire la sua struttura narrativa convenzionale (e in questo tipicamente “hollywoodiana”), che non rende giustizia all’approccio sperimentale di Ward. Questo approccio sfocia oggi in ripetute incursioni nel mondo dell’arte contemporanea. Uno dei suoi progetti più recenti, come già anticipato, è stato presentato come progetto collaterale alla Biennale di Shanghai 2012 con il titolo di Auckland Station: Destinies Lost and Found e consiste in un’istallazione multi-screen combinata a dipinti su seta: soggetto delle proiezioni sono eteree danzatrici che si muovono all’interno di un cilindro di luce, immerse nell’acqua. Proiettate nell’ambiente scuro e solenne di una chiesa sconsacrata sul Bund – l’area di Shanghai famosa per la sua architettura coloniale che si sviluppa sulla sponda occidentale del fiume Huangpu – queste immagini evocano come in un déjà vu un mondo perduto che non ci è dato conoscere, o che forse appartiene al passato di Ward e alle sue tante vite. Durante l’incontro e la piacevole chiacchierata con il regista abbiamo ripercorso le tappe più importanti della sua carriera e della sua esperienza umana:
 
 
Che tipo di influenza ha esercitato il tuo paese di provenienza, la Nuova Zelanda, sulla tua esperienza di vita e sul tuo lavoro, stile ed evoluzione come regista?
Sono cresciuto in una fattoria nella campagna neozelandese, dove la mia infanzia è trascorsa in solitudine, vagando nelle terre selvagge della mia famiglia. Mia madre, una giovane ebrea tedesca sposa di guerra, ha lavorato duramente per adattarsi alla vita di moglie di un agricoltore, in una famiglia cattolica. Penso che queste circostanze affiorano all’interno del microcosmo delle storie che racconto. L’adolescente protagonista del mio primo film “Vigil” (1984) è spesso solo, mentre in “In Spring One Plants Alone” mi sono calato nei panni di un outsider all’interno di un’isolata comunità insulare Maori.
Se la Nuova Zelanda sarà sempre la mia “casa”, come molti “kiwi” (N.B. modo colloquiale con cui i neozelandesi chiamano se stessi) ho un’indole avventurosa e infatti ho vissuto in molti paesi del mondo. In realtà sono una specie di vagabondo, con una costante fascinazione per le altre culture. La memoria e le storie individuali, di qualsiasi persona, sono una fonte costante di ispirazione. Raggiungere gli spettatori all’interno di uno spazio emotivo e psicologico è essenziale per me: quello che lo spettatore legge in un film, per sua volontà o perchè gli viene dato lo spazio per farlo, equivale almeno alla metà dei dialoghi. I miei film intercettano la psiche del protagonista o degli altri personaggi per esplorare il loro coinvolgimento, sempre unico, nella memoria e nelle esperienze. Nel fare questo spero possano raggiungere una verità sull’esistenza.
Molti dei miei film riguardano amicizie e relazioni tra culture diverse – ad esempio “Map of the Human Heart” (1993), “River Queen” (2005) e “Rain of the Children” (2008) – cosa che deriva probabilmente dalla mia infanzia. La negoziazione tra culture infatti è stata sempre parte del mio contesto domestico. Come già accennato, mia madre era tedesca mentre mio padre neozelandese, perciò ho dovuto sempre cercare di trovare l’equazione tra la mia terra e la loro relazione. 
 
C’è qualche tratto distintivo che puoi individuare all’interno della tua cultura di appartenenza?
Dicono spesso che c’è un elemento lirico e una crudezza di fondo nel mio lavoro. Per esempio in “Vigil” ho cercato di ritrarre il paesaggio misterioso e aspro che fa da sfondo alle vicende di un contadino, un uomo solido, d’altri tempo. Essendo un paese giovane, la nostra relazione con la terra e la nostra identità nazionale sono ancora in via di formazione. Il paesaggio volubile e indomito della Nuova Zelanda è qualcosa che penso pervada la nostra coscienza nazionale e emerga a sua volta in buona parte del nostro cinema più crepuscolare e umanistico (a volte persino gotico). I film sono davvero un fantastico veicolo di espressione ed esplorazione culturale.
 
Puoi dirci qualcosa della tua esperienza a Hollywood?
Ho vissuto a Los Angeles per sette anni. Quello che mi ha portato lì per la prima volta è stata la necessità di trovare una storia originale per “Alien 3”, dal momento che mi era stato chiesto di girarlo. 
In quel momento stava crescendo la mia reputazione di regista in grado di rappresentare una voce originale, in sintonia con le idee dei personaggi, capace di descrivere i loro mondi interiori e di creare universi di forte impatto visivo. La laurea in belle arti mi permetteva una certa abilità nel disegno e nell’ideazione, nonchè nella narrazione di storie. I miei film precedenti erano stati in concorso a Cannes e avevano vinto diversi premi. Ho lavorato ad “Alien 3” e alla sua sceneggiatura per nove mesi, ed è stata un’esperienza decisamente frustrante; tra gli aspetti positivi, c’è il fatto che il tipo di immaginario cui ho dato vita ha conquistato negli anni un grosso seguito cult, però allo studio fece paura l’audacia dell’idea perciò il risultato è che il film esiste principalmente negli articoli e in pubblicazioni come il libro ‘The Greatest Sci-fi Movies Never Made’ scritto da un giornalista del London Times. Mi è stata accreditata la storia ma non mi sono voluto adeguare a quel tipo di compromesso, così mi sono dedicato a un progetto indipendente e ugualmente ambizioso, “Map of the Human Heart”, prodotto da Australia, Gran Bretagna e Canda, prima di ritornare a Hollywood quattro anni dopo.
È stato un periodo entusiasmante. Avevo una piccola compagnia e alcune persone disposte ad aiutarmi, con le quali andavamo soprattutto in cerca di progetti originali, da sviluppare in direzione di una realizzazione materiale in cui potessero confluire le mie capacità e il mio stile. In quel periodo sviluppai un numero di sceneggiature, inclusa quella che sarebbe diventata “L’ultimo Samurai” e un film diretto da me, “Aldilà dei Sogni”, con  Robin Williams. Ho lavorato nella convinzione di poter realizzare una serie di film amibiziosi, dentro e fuori il sistema. Dopo “Aldilà dei Sogni” sono tornato in Nuova Zelanda per fare film più personali e alla fine sono tornato al mio interesse iniziale per l’arte.
 
Cosa ti ha portato a concepire e scrivere What Dreams May Come (Aldilà dei Sogni)?
“What Dreams May Come” è basato su un racconto di Richard Matheson. Quello che inizialmente mi ha affascinato era il potenziale psicologico e scenico di questa storia, narrata dal punto di vista di un Orfeo e ambientata in larga parte nell’aldilà. La mia prima priorità è stata trovare il nucleo del film, un fulcro da cui partire e da reinventare attraverso le immagini e la storia. In pratica ho dovuto prima identificare il concetto visivo che avrebbe trainato l’intero film. La chiave è stata immaginare una vita soggettiva nell’aldilà. Questo quando mi sono reso conto se il personaggio centrale del film fosse stata una pittrice, nuove e fantastiche possibilità estetiche sarebbero emerse. E quindi decisi che il film avrebbe evocato un mondo simile alla pittura dell’Ottocento e Novecento, viva ed emozionante.
Ora che avevo il cardine concettuale, mi restava da capire come dare vita al ricco ambiente materico che volevo creare: per rendere il mondo viscerale della pittura viva che avevo immaginato avrei dovuto osare inoltrarmi in territori inesplorati; dovevo spingere la tecnologia che avrei usato al punto da farla sembrare e “sentire” credibile, far vedere la trama pittorica sullo schermo. Ho fatto scelte che hanno conferito autenticità al progetto: per esempio all’artista digitale specializzato in pittura a olio ho affiancato un bravo pittore per dare forma alle singole pennelate. È così che abbiamo sviluppato una nuova tecnica chiamata “motion painting”, che ha ottenuto un Oscar per i risultati tecnici e visivi raggiunti.
 
 
Cosa è successo con Alien 3?
Fui contattato dai produttori di “Alien 3” perché avevano visto un mio film precedente,”The Navigator: a Medieval Odyssey” e, per usare le loro stesse parole, ne erano rimasti  “sconvolti”. Mi chiesero di unirmi alla squadra e io accettai, anche se non volevo fare una copia degli altri capitoli. Per “Alien 3” ero intenzionato a portare il genere della fantascienza in un’altra direzione. Decisi che la mia storia sarebbe stata incentrata su un gruppo di monaci-ludditi isolati in un monastero satellite nello spazio. Il solito trucchetto del bottone che fa cento cose diventò così cento cose – o meglio cento monaci – che facevano una sola cosa, con la loro tecnologia arcaica. La storia si sarebbe sviluppata in un mondo tanto distintivo da risultare indimenticabile.
Anche se il film non è mai stato realizzato e questa visione non è stata più portata sullo schermo, molte persone sentirono che quell’universo fantastico era in qualche modo nuovo e diverso, forse persino in anticipo sui tempi. Senza alcun tipo di pubblicità, un articolo su “The Wooden Planet” uscito sul Empire Online del 2010 ha avuto 136.000 visualizzazioni solo nella prima settimana.
 
… e con la sceneggiatura de L’ultimo Samurai?
Ho sviluppato le basi di “The Last Samurai” in un arco di tempo di tre, quattro anni, durante il quale ho condotto molte ricerche sul Giappone del diciannovesimo secolo. Avevo avuto anche la fortuna di collaborare con uno scrittore vincitore del Pulitzer entrato a far parte del progetto. Alla fine capii che avrei preferito lavorare come produttore per questo film, per cui scelsi una regista per portare avanti la lavorazione. Anche se devo dire che il prodotto finito mi è piaciuto abbastanza, il mio timore – che poi era anche la logica stessa alla base del film – era che nelle mani di uno studio americano il risultato finale non avrebbe avuto l’integrità culturale cui do sempre la massima importanza.
 
 
Quale pensi sia la direzione che il cinema mainstream ha preso in questo momento? E quale il ruolo di Hollywood in questo scenario?
Il cinema mainstream è diventato come un franchising. Considerate le spese enormi che l’uscita di un film richiede, molto sono diventati cauti e i prodotti più interessanti sono ormai le serie via cavo (penso a Breaking Bad o In Treatment) e occasionalmente qualche esempio di cinema indipendente dagli Stati Uniti. Ovviamente il cinema europeo ha una tradizione più rigorosa da questo punto di vista. 
 
Pensi che questo sistema sarà messo in discussione dall’ascesa di realtà produttive relativamente nuove come quella indiana o cinese?
Non credo, l’America ha una rete distributiva così forte e i film americani sono così popolari presso il pubblico più giovane che continueranno a detenere la loro egemonia in questo settore.
 
Quando hai iniziato a sviluppare i tuoi progetti indipendenti e a considerarli centrali della tua carriera di regista?
Mi sono sempre dedicato a questo. Ho sempre voluto tornare alla mia prima passione – la pittura. Ho iniziato a lavorare a progetti di questo tipo dopo “Aldilà dei Sogni”, sviluppando schizzi e dipinti ispirati alla ricca tavolozza del film. Mi sono dilettato con qualche lavoro negli anni, ma è stato quando la Govett-Brewster Gallery in Nuova Zelanda mi ha chiesto di fare una mostra che l’arte è passata in primo piano. Nei due anni successivi ho partecipato a una serie di mostre in grosse gallerie, devo dire che quel periodo è incredibilmente intenso ma ha segnato un cambiamento che ho accolto con gioia. 
 
 
Per quanto riguarda l’esplorazione del linguaggio artistico, qual è l’aspetto cui sei maggiormente interessato?
La percezione. L’intepretazione delle culture e la disparità. E ancora la psiche, i momenti di trasformazione nel cinema e nell’arte. Il titolo cinese del libro sul mio lavoro scritto da Dan Fleming è Making the Transformational Moments in Film (“Fare Momenti di Trasformazione nel Cinema”) e ritengo che in diversi punti rintracci con esattezza i miei principali oggetti di interesse e studio.
 
Attraverso quali canali vorresti che la gente si avvicinasse ai tuoi lavori?
Tramite media di tutti i tipi. Lungometraggi, installazioni, pittura, fotografia, testi. Per me sono tutti interconnessi.
 
 
Mariagrazia Costantino

SHAME

Martedì 24 Gennaio 2012 13:34

Attesissimo da settembre, dall'ultimo Festival di Venezia, arrivato in sala e finalmente visto ieri sera il secondo film del giovane regista inglese Steve McQueen del quale forse non si sa molto ma del quale sicuramente resta impossibile dimenticarne il nome.
Impossibile da dimenticare anche il titolo del film e finalmente un applauso alla BIM che lo ha distribuito senza aggiungere, tradurre o manipolare nulla. Un titolo che racchiude come vedremo l'essenza del film. Secondo plauso agli amici del Nuovo Sacher che hanno aumentato a due i giorni di proiezione in versione originale del film e questa per i puristi del Cinema è gioia vera, inoltre lunedì e martedì sono anche a mio avviso i due giorni più belli per frequentare le sale.
Detto questo tornerei alla presentazione dell'autore di "Shame", il giovane englishman di origine africana dal nome e cognome così hollywoodiani. Steve McQueen si era presentato quattro anni fa vincendo la Caméra d'Or per la migliore opera prima al 61° Festival di Cannes con "Hunger" ispirato alle ultime settimane di vita di Bobby Sands, interpretato dal tedesco Michael Fassbender all'epoca ancora poco conosciuto e che anche in "Shame" è protagonista assoluto della storia e della scena.
"Shame" è totalmente ambientato a New York e narra la via senza ritorno di Brandon, un uomo totalmente in preda all'idea e alla pratica del sesso. La sua "malattia" del sesso è vissuta in maniera insaziabile con prostitute, donne e uomini occasionali, riviste, siti hard o addirittura in momenti inaspettati da solo sotto la doccia o andando a urinare durante una pausa di lavoro. Chi aprirà la valvola alla pressione della macchina-Brandon sarà l'arrivo in città della sorellina Sissey, una fragile, dolcemente ingrassata Carey Mulligan che ha molti aspetti in comune con l'Irene di "Drive".
Come "Hunger" anche "Shame" è ambientato in uno spazio temporale estremamente ridotto e ha una connotazione fortemente "British" a cominciare dalla fotografia e dalla non-necessità di esplicare tutto con la sceneggiatura. Ecco. Ho appena fatto riferimento a uno degli elementi che daranno a questo film il mio alto gradimento: se forse il plot di "Shame" è fin troppo chiaro e privo di colpi di scena è vero che molte inquadrature (e almeno tre o quattro in particolare) sono splendide evocazioni e suggestioni che il regista ci da l'opportunità di riuscire a cogliere in perfetta autonomia di visione grazie a una fotografia asciutta, primi piani soffertissimi e mai "lacrimosi", carrellate sulle vie di una New York notturna che dai tempi di "After hours" di Scorsese non rivedevo (e che mi chiedo se Woody Allen abbia mai vista) e infine a una scelta delle musiche, sia quelle originali di Harry Escott che i motivi classici di J.S.Bach, che danno un senso doloroso ma profondamente spirituale al calvario di Brandon.
Brandon è incapace d'amare e addirittura di corteggiare. Se ci prova fallisce anche in quello che è il suo "impegno" quotidiano, la sua attività principale. L'unica persona che può farlo piangere o arrabbiare è Sissey che in una bellissima e jazzata versione di "New York, New York" riuscirà anche a smuovere quella pietra di suo fratello. Si, perché il testo di questa canzone che tutti noi fischiettiamo allegramente è in realtà il rovescio della medaglia di una città che dietro le luci e i divertimenti a portata di mano nasconde gli affanni e le frustrazioni di tante singole persone.
Altro grande merito del film oltre allo stile artistico e alla bravura di un Michael Fassbender giustamente premiato con la Coppa Volpi è senz'altro la scelta più che coraggiosa del soggetto. Se fino a oggi la sesso-mania o comunque la necessità del sesso come unico elemento vitale per nascondere altre mancanze era stata narrata (e in alcuni film anche molto bene) in versione di legame di coppia ecco che il regista inglese focalizza il tutto su un solo personaggio che sicuramente qualcosa di brutto nella propria infanzia avrà pur vissuto (lo si intuisce da una frase della sorella nel finale del film "Noi non siamo brutti, siamo cresciuti in posti brutti").
Se capolavori come "L'impero dei sensi" o "Ultimo tango a Parigi" e più recentemente "Une liaison pornographique" o anche "Intimacy" hanno splendidamente raccontato questo tema riguardo la coppia, non ricordo film di questo livello puntati su un singolo, sulla dipendenza dal sesso in una realtà solitaria come quella vista ieri sera in "Shame".
La disperazione di un uomo che anche quando per un attimo o per un giorno decide di buttare via tutto per pensare ad altro, non trova niente intorno che possa sostituire la "droga" della quale è ormai schiavo. E come per i drogati incalliti non c'è più soddifazione neanche appena assunta l'ennesima dose ma solo all'idea di procurarsela così in quel preciso momento, in quello che dovrebbe essere il momento del godimento, del piacere c'è la smorfia di dolore di Brandon.
E della sua infinita solitudine. Chapeau!

Marco Castrichella

HUNGER

Sabato 05 Maggio 2012 18:44

E infine arrivò in sala. Anche nel nostro Belpaese. Merito di “Shame” forse e quindi del regista londinese di origine africana Steve McQueen o del “bel” Michael Fassbender attore sulla cresta dell’onda, chissà. Forse di entrambi visto che la coppia è la stessa del capolavoro della scorsa stagione. Resta il fatto che “Hunger” nel 2008 ebbe un ottimo impatto al 61° Festival di Cannes dove il giovane regista ricevette l’ambitissima Camera d’Or. Ad “Hunger” venne riconosciuta con questo premio giustamente la straordinaria padronanza del mezzo da parte dell’autore, convinto di poter raccontare una storia già celebrata ma non dal punto di vista mediatico e nemmeno storico bensì “portando” gli occhi dello spettatore a vivere l’esperienza fisica e spirituale durissima, drammatica ma anche liberatoria che Bobby Sands nel 1981 decise di condurre a oltranza fino alla propria estinzione lasciandosi morire per inedia non toccando più nessun alimento per 66 giorni consecutivi.

Steve McQueen addirittura per una lunga parte iniziale, circa un terzo del film, nemmeno lo fa vedere Sands. Non serve allo scopo del suo film. Preferisce seguire (e mai verbo è stato più calzante) con la mdp uno dei carcerieri del Maze il “labirinto” di Long Kesh. Questo Raymond Lohan addirittura è protagonista della scena, perché il dolore costante alle mani, le nocche insanguinate hanno una chiara spiegazione. Per i repubblicani irlandesi dell’IRA che arrivano agli H-Blocks voluti dalla signora Tatcher la segregazione è un inferno. Non ci sono diritti umanitari li dentro, ne tanto meno un riconoscimento politico. Sono considerati terroristi a tutti gli effetti. E l’unico “indotto” mediatico del film scelto dal regista sono proprio due scarni, surreali comunicati della Iron Lady alla radio: la ascoltiamo parlare di “criminali” mentre per l’ennesima volta Steve McQueen ci porta a percorrere i corridoi del Maze e lasciare i nostri occhi e il nostro cuore sulla negazione totale dei più elementari diritti di un detenuto.

La forma di protesta in questo momento, prima ancora dell’entrata in scena di Bobby Sands, è quella del “Blanket Protest” ovvero del rifiuto dai parte dei detenuti dell’uniforme carceraria e quindi di restare nudi con una sola coperta di lana a protezione del freddo e la “Dirty Protest” quasi un’artistica forma di tingere le pareti delle celle con i propri escrementi e inondare i corridoi del Maze con le proprie urine.

La dose di violenza alla quale assistiamo seguendo Lohan è inaudita e si incrocia con l’arrivo in carcere del giovane detenuto Davey Gillen. Davey dividerà la cella con un altro detenuto repubblicano dissidente, Gerry Campbell. Questi gli insegnerà un minimo di difesa e soprattutto come convogliare la protesta attraverso Bobby Sands il leader dei detenuti dell’IRA al Maze, capace nei modi più stravaganti di far uscire dal carcere il proprio pensiero e le proprie poesie. Ma le forme di protesta non stanno ottenendo alcun risultato anzi inaspriscono la repressione all’interno del carcere e fuori sul movimento.

E’ proprio in questo momento storico (siamo nel marzo del 1981) e del film che tutto cambia.

Decisiva l’idea di McQueen di “appoggiare” la mdp su un tavolo ed osservare da un solo lato, con un magnifico unico piano sequenza, il colloquio fra Bobby Sands e Padre Dominic Moran durante il quale Sands comunica la decisione di portare fino in fondo uno sciopero della fame per smuovere l’opinione pubblica e soprattutto per far capire al governo inglese che per la libertà si è decisi a morire: "Ero soltanto un ragazzo della working class proveniente da un ghetto nazionalista, ma è la repressione che crea lo spirito rivoluzionario della libertà. Io non mi fermerò fino a quando non realizzerò la liberazione del mio paese, fino a che l'Irlanda non diventerà una, sovrana, indipendente, repubblica socialista". (cit. dal libro “Un giorno della mia vita”)

È una scena fondamentale per molti aspetti. Perché si entra nella storia ufficiale ma anche personale degli irlandesi occupati. Perché si parla di strategia politica ma anche di estrazione sociale e culturale. E poi perché da questo momento Sands (attraverso un magnifico momento di recitazione da parte di Fassbender) acquisisce la sua dimensione storica e spirituale. Se all’inizio del colloquio il prete dimostra una certa baldanza e facilità alla battuta alla fine resta ammutolito, spiazzato e arreso alla decisione estrema del detenuto. Infine la scena è drammaturgicamente di svolta perché da questo momento scompare la violenza. Lasciamo il Blocco-H per entrare nel reparto ospedaliero del carcere. C’è luce ora nella stanza, il pulito e il bianco prendono possesso della scena e da ora in poi affioreranno sempre di più i momenti dei ricordi, di poesia vera, di senso di libertà e di avvicinamento totale a Madre Natura che si appresta a riabbracciare Bobby. Questa d’altronde è anche l’unica via di fuga dal quotidiano deperimento per Bobby Sands. Lo assistiamo e lo sosteniamo in questa via crucis. Anche noi respiriamo meglio quando verso la fine dei 66 giorni sempre più forte e nitida ritorna la presenza del giovanissimo Bobby che corre a perdifiato per i suoi boschi e lungo i suoi fiumi. Con i genitori di nuovo vicini. Fino all’ultimo respiro.

A fronte di questo percorso non un solo momento di falso pietismo ci viene indotto dal regista che non si perde certo a mostrare le centinaia di manifestazioni che pur ci sono state all’esterno in quei giorni, in Irlanda come nel resto del mondo. Non una scena tratta dai giornali o dalle televisioni. Non una del funerale ne delle celebrazioni. Steve McQueen non esce dal Maze ma resta con Bobby e noi con lui.

Assolutamente intimista, scarno, intenso e meraviglioso fino alla fine. Come il miglior Bresson o Dardenne. E raccontare la Storia, quella degli eroi delle giuste cause senza cadere in questo trabocchetto è un merito non da poco.

Per concludere vorrei ricordare che come per una magica coincidenza il mio commento al film “Hunger” visto ieri sera, avviene proprio nell’anniversario della morte di Bobby Sands.

Era il 5 maggio 1981. Io avevo già 22 anni e qualche eccesso di idealismo era già rientrato ma la figura di Bobby Sands e del suo martirio mai, nemmeno per un solo momento, mi hanno abbandonato in tutti questi anni. E che un film così bello sia stato realizzato sulla sua vicenda, beh questo mi commuove e gli rende giustizia.

Marco Castrichella

(hollywood - tutto sul cinema)

12 anni schiavo

Domenica 02 Febbraio 2014 15:53
Quanto è illuminante quel grande monomaniaco di Harold Bloom, il bardolatra per eccellenza, quando parla di Shakespeare!
A lui, in particolare con la creazione di Amleto, attribuisce il merito, fra le altre enormi cose, di rispondere al nostro “bisogno di identità” e a ciò i filosofi attribuivano al Socrate secondo Platone o a Gesù, secondo Marco, un personaggio letterario, venerato come Dio. Amleto, secondo Bloom, è l’autocoscienza dell’occidente e Orazio lo perdona per indefesso amore, noi lo perdoniamo perché sappiamo che potremmo essere come lui, anzi no, una parte piccola di quella grande consapevolezza. Ma potremmo essere anche come Riccardo III che non esita ad ammazzare bambini che si frappongono fra sé e ciò che va fatto.
La consapevolezza di Amleto è quella degli impulsi nietzschiani che straziano l’essere umano fra una trascendenza impossibile e una inaccettabile immanenza. Quella di Riccardo è diversa, è una morale dell’utile che non ci è così lontana: le conosciamo bene quell’avidità, quella bramosia, quella volontà di riscatto, costi quel che costi. Non faremmo (non faremmo?) come lui, ma sappiamo di cosa si tratta, perché la dicotomia buono/cattivo è roba da talk show e la morale, Kant ce lo insegna, è una cosa seria.
“12 anni schiavo” che non ha la grandezza intimista e dolorosa di “Shame” né la forza visiva dirompente dei liquami desadiani di “Hunger”, è però un film profondamente shakespeariano e dunque, come naturale conseguenza, antiretorico, riuscito.
Senza voler dimostrare, McQueen mostra: mostra un uomo nero, ma libero (ciò non è antistorico, ma dipendeva dalla legge dei singoli stati), a cui nulla cale della sorte di uomini neri come lui, ma incatenati. Mostra uomini bianchi nell’atto dello scambiarsi la mercanzia, privi di compassione. E poi, dopo circa un’ora di narrazione, sposta la lente sul vero protagonista del film, anche solo in virtù dell’ennesima gigantesca, mimetica performance di Michael Fassbender, della sua storia di neri: l’uomo che si pensa come bianco, lo schiavista atroce, il vigliacco eugenetico della frusta. Tuttavia lo eleva, lo rende altro da quella crudeltà che sferza, più violenta ancora, nei primissimi piani insistiti, dolenti di Mr. Epps: lo rende umano, simile a noi, fisico e terragno, persino, inconcepibilmente, seducente in quella fisicità ferina.
Non lo assolve, chiaro. Come potrebbe? 
Il cinema di McQueen, del resto, non ha bisogno della lezione morale, dell’enfasi, delle sottolineature drammatiche e neppure dell’overacting, abiurato in nome di una compostezza formale impeccabile, ancor più straziante nella sua limpida dignità: non ce l’aveva quando raccontava le gesta erotiche di Brandon Sullivan e neppure, narrando la salita al laico Golgota di Bobby Sands, colui che temeva la morte, ma non aveva paura di morire.
Ma come quelli ci parlavano, chiaro e forte, Edwin Epps ci parla. Nella sua scissione profonda fra subcultura della razza e natura delle passioni, una divisione che ne acuisce la rabbia, ma, al contempo, il dolore, “12 anni schiavo” racconta un eterno presente, guardandoci dritto negli occhi, non delegando nulla al fuori scena o a qualche rassicurante conversione. La poltroncina sotto il sedere dello spettatore deve bruciare perché non è certo cinema da salotto questo: è piuttosto cinema di urgenze, di conflitti vividi, come il rosso-arancio della fotografia, allo stesso tempo sudata, marcia e splendidamente caravaggesca. 
Cercare qui una trattazione pedissequa sulla schiavitù sarebbe come cercare in “Amleto” solo una disamina sulla corruzione, insita in ogni umano potere, tralasciando i becchini, Orazio, Ofelia. Tralasciando l’essenza vera di Amleto.
E risulta dunque funzionale, quasi doveroso, senz’altro logico, dopo tanto dolore, il discusso deus ex machina, inserito repentinamente a risolvere una “piccola” vicenda biografica: lo faceva anche Euripide, non a caso il più realistico e simpatetico dei classici greci.
Perché le schiavitù invece, lo cogliamo negli occhi splendidi di Solomon (eccellente il raffinato interprete londinese Chiwetel Ejiofor) , e lo sappiamo bene, guardando alla storia, anche a quella del nostro tempo, non sono mai finite.
 
Ilaria Mainardi