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Visualizza articoli per tag: ben affleck

Argo

Martedì 26 Febbraio 2013 23:20

 

Argo, trionfatore all'85esima edizione degli Oscar con i riconoscimenti come miglior film, sceneggiatura non originale e montaggio, è basato su una vicenda realmente accaduta. La storia è collocata durante la rivoluzione islamica del 1979 quando, attraverso uno spiegamento di forze congiunte canadesi e statunitensi, i due governi si adoperarono per la liberazione di 6 ostaggi trattenuti in territorio iraniano.

Per far questo viene interpellato l'esperto della Cia Tony Mendez, interpretato da un barbuto Affleck alle prese con un curioso stratagemma.

Terza prova da regista per il tuttofare Affleck (Oscar per la miglior sceneggiatura originale assieme a Matt Damon nel '98 con “Will Hunting- Genio ribelle”), che qui oltre ad adoperarsi come protagonista e regista è anche produttore e sceneggiatore. Seppur con barba, capelli randagi e giacche sformate, l'immagine di agente super-eroe sembra attirarlo molto più di quella di semplice impiegato dall'idea brillante. Colpisce infatti proprio l'approfondito studio fatto sui personaggi che come vediamo alla fine, nella comparazione con gli originali, paiono tutti perlopiù ricalcati alla perfezione, ad esclusione proprio di Affleck che poco si accosta al paffutello messicano Mendez.

Ma questo in fin dei conti poco importa. Se da una parte si vuole sottolineare all'estremo la ricerca della perfezione e della riproposizione storica fin nei minimi dettagli, dall'altra ci si ricorda che in fin dei conti si tratta pur sempre di un film con l'assunzione di una serie di accorgimenti utili a non far diminuire il livello d'attenzione dello spettatore. Si oscilla perciò tra comico ed action puntando sullo strabordante John Goodman nel primo caso e sull'eroico Affleck per il resto. Il ritmo dunque tiene, seppur con qualche stonatura d'insieme.

Audio e video si impastano in ottima maniera, ricreando l'atmosfera del periodo. Ottimi i costumi e le scenografie coadiuvati da una buona fotografia. Tutto sommato Argo si dimostra un film piacevole avendo dalla sua la singolarità che solo alcune storie vere possono avere, ma forse non meritando due ore di attenzione.

 

Alessandro Zorzetto

Gone Girl - L'amore bugiardo

Domenica 21 Dicembre 2014 12:42
In principio fu il dubbio, e, caso fortuito, un paio di enormi dubbi danno avvio a Gone Girl – L’amore bugiardo, il cui titolo italiano, lo stesso del libro di Flynn Gillian dal quale la sceneggiatura è tratta, rischia di spiegare troppo e, allo stesso tempo, di fuorviare lo spettatore.  
Infatti, quando ho cominciato a leggere, nel post-visione romano, per i fortunati che poterono assistervi, che stavamo parlando di un capolavoro senza pari, il miglior Fincher di sempre, le cui intricate vette drammatiche lo rendevano assimilabile addirittura a Vertigo, mi sono irrigidita un bel po’, a causa di una certa tendenza critica contemporanea a bollare come masterpiece una quantità statisticamente troppo alta di lavori.
Ferma sull’irrigidimento di cui sopra, ho deciso di leggere il libro dal quale il film di Fincher è tratto e l’ho trovato letterariamente non eccelso, per quanto assai godibile, come lettura disimpegnata. Lo spunto è interessante, curioso, ma accompagnato da una scrittura a tratti psicologicamente semplicistica, con alcuni personaggi e snodi, o troppo manichei o schiacciati dalla mera funzionalità narrativa: un nodo scorsoio che si stringe sempre di più intorno al collo di Nick, almeno fino al repentino, troppo, colpo di scena. 
Poteva Fincher fare il miracolo? Poteva far diventare una storia di provincia a tinte fosche un saggio, invece, sulla foschia dell’anima, americana o meno che sia? Amy la stronza poteva diventare altro da uno stereotipo e Nick, lo scemo fedifrago che si dichiara – non qui, per fortuna – innamorato di una che lui stesso definisce, quasi testualmente, una bambola gonfiabile vivente, pure? Ebbene sì, a mio avviso David Fincher ha fatto il miracolo, realizzando quello che ritengo il più bel film dell’anno insieme a Maps to the Stars.
Gone Girl è (bello) come Millennium, altro “thriller” umanista che della trama thriller, in senso stretto, se ne frega ben presto.
E sfaterei anche subito l’accusa di misoginia, da più parti mossa, riguardo gran parte della produzione dell'autore statunitense.
Il fatto, per come la vedo io, è che siamo nella zona di The Truman Show, e gli attanti sono Barbie e Ken. Ma non Barbie e Ken perché bambolotti disumanizzati, tutt’altro. Amy e Nick sono umanissimi, veri e concreti, ma filtrati dalle tinte pastello o rosso sangue di uno show che ingloba tutto e tutti. E lo sono sempre, prima, durante e dopo i fatti, in una creazione straniantemente biomeccanica: nelle immagini leziose di Mitica Amy, sublimazioni di una nevrosi, nella casetta rosa antico (e celestina, quella del padre di lui), negli amplessi di legno e con gli abiti addosso, nella gestualità flessuosa, da ballerina carillon, di lei, o incespicante e rigida, da gaffeur quale in effetti è, di lui. Sono l’uomo e la donna per i quali i quindici minuti di celebrità sono diventati paradigma di vita, non per scelta, almeno in parte, ma in quanto esseri partoriti nella e dalla società dello spettacolo: finta, malevola, esteriore, manipolatoria. Come Amy, come loro. 
I coniugi e i personaggi che contornano le loro esistenze in salsa cocktail entrano e escono dall’inquadratura, spesso, come se si trovassero su un palcoscenico teatrale, in lotta per contendersi una battuta più lunga, da declamare sul proscenio, restii a tornare dietro le quinte, a meno che non lo possano fare in uno scroscio di applausi: “Elvis ha lasciato il Missouri”.
Costantemente consapevoli di essere inquadrati o ascoltati, solo talvolta capaci di usare l’immagine per inventare mondi, costruirsi alibi, apparire migliori di quanto non siano. E se invece fosse l’immagine a usarci, sempre?
Amy sembra conoscere la risposta, ma solo al suo livello di cerebrale calcolatrice, e infatti nulla può contro la sete di sangue degli squali-ladri che incontra durante la latitanza forzata. Invece la risposta la sa Nick che le mani se le sporca meno, in senso proprio, ma non è meno infido, violento, anche, in un finale che nel libro assume quasi i toni di un armistizio moralista, prima, e di una dichiarazione di vittoria su tutti i fronti di Amy, nelle ultime battute. Qui no, qui i mostri non si giudicano e non vincono, piuttosto si alleano, creandone altri, scovandoli nella loro bonaria apparenza provinciale. Nello splendido lavoro di Fincher, il cui contributo alla sceneggiatura della stessa autrice Flynn è sostanziale, almeno nell’esito, l’ultima parola spetta a Nick, nel nero dell’immagine, solo apparentemente già svanita, ed è una dichiarazione esplicita di complicità: finché morte non li separi.
 
A margine: splendida Rosamund Pike, nel ruolo mattatore, o così il suo personaggio crede che sia, ma, tenuto conto dei limiti performativi che più volte sono stati osservati, la mia sorpresa è stata Affleck, sfumato, dolcemente goffo, mascalzone e ironico al punto giusto, capace di lavorare, cosa non facile, in senso anche metacinematografico  (cosa il pubblico vuole vedere, da sempre, in Ben Affleck se non il bisteccone bonazzo e un po’ impacciato, al di là dei notevolissimi meriti di regista e sceneggiatore?). Per me, è quasi amore.
 
Ilaria Mainardi

Batman v Superman: Dawn of Justice

Venerdì 25 Marzo 2016 22:01

Batman e Superman creati rispettivamente nel 1939 e nel 1933, sono i pilastri della DC Comics. Sono gli "eroi" dei "supereroi" ancora prima che la concorrenza prendesse il nome di Casa Marvel come la conosciamo oggi. Senza di loro il nostro mondo, la nostra stessa cultura occidentale sarebbe diversa. Sfido chiunque a trovare una persona in casa che non li abbia mai sentiti nominare. Per questo, a distanza di decenni, il cinema sente il bisogno richiamarli, di innalzare il batsegnale nel cielo e di invocare il salvatore Kal-El di Krypton come fosse un dio. Lo stesso fanno gli abitanti di Metropolis nell'ultimo lavoro di Zack Snyder, ormai famoso nel campo dei cinemacomics . L'idea di mettere i due l'uno contro l'altro sulla carta stampata dei fumetti  era già stata sviluppata moltissime volte (Kingdom Come e The Dark Night Returns per citare  due titoli famosi), Snyder lo fa però in maniera diversa. Dopo vent'anni di scontri, in cui Clark Kent (Henry Cavill) si trova a dover togliere gli occhiali neri da giornalista sfigato terrestre, per vestire i panni di Superman e andare in soccorso della amata Lois Lane (Amy Adams), l'umanità si interroga sul bisogno di avere un eroe e conta i morti che inconsapevole si porta sulle spalle l'uomo d'acciaio solo per essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel buio della ricca e ultramoderna Bat Caverna, Bruce Wayne (Ben Afleck), l'uomo pipistrello affiancato dal fido maggiordomo Alfred (questa volta Jeremy irons!)  vuole vederci chiaro e sfidare l'alieno che ritiene responsabile per le catastrofi di cui è spettatore. Alle loro spalle ride (come il Joker)  Alexander (Jesse Eisenberg), il rampollo milionario di casa Luthor, che si fa chiamare come il padre Lex. Egli passa i giorni a trovare il modo di infangare e uccidere Superman, vuole battere il nuovo "dio" e mettere le mani sulla Kryptonite, l'unica materia in grado di sconfiggerlo. Seguono un'ora di flashback e interrogativi, incomprensioni e apparizioni a sorpresa, confusione e filosofia per giungere al fatidico scontro del titolo (dove Batman, fateci caso, sradica un lavandino per colpire l'avversario, sanitario che suppongo sia di Kryptonite perché non si sbriciola). Debole come la sua prova d'attore è l'antagonista. Si fa chiamare Lex Luthor ma non è Lex "padre". E' caratterizzato come il clown di Gotham, per cercare forse una eco che mescoli il tutto. Non fa paura, non genera inquietudine é un ragazzino che pesta i piedi e fa i capricci come oggi chiede il pubblico di adolescenti. Diversamente il tanto criticato Affleck ci regala un Batman da manuale. Il budget utilizzato per creare la messinscena si vede ma visivamente ci si chiede se il mostro Doomsday (altro alfiere nella scacchiera dei protagonisti) poteva essere più simile all'immagine dei comics e ricordare meno un incrocio digitale tra il Troll di caverna de Il Signore Degli Anelli e Abominio del tanto odiato reboot su Hulk. Se le battute comiche dei film Marvel sono spesso criticate e non troppo riuscite, qui sono decisamente fuori luogo. Annunciato come il film che farà la storia del cinema al Comi-Con di San Diego, sta riscuotendo pareri discordanti: non si trova un equilibrio tra i fan entusiasti che gridano al miracolo e i delusi che ne vedono i difetti più evidenti e chiedono giustizia per i due eroi. Lento e prevedibile, cattivo e celebrativo, fanatico e commerciale, genera confusione e divide come i due protagonisti.

 
Francesca Tulli 
 
 
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Cantami, oh diva, dell'orfano Bruce l'ira funesta...
Batman v Superman, in fin dei conti, è una sorta di lunghissima elaborazione di un lutto quasi atavico, di un ritorno, via via più consapevole, fondativo, alla tragedia, intesa nella sua ineluttabile necessità di far convivere spirito apollineo e spirito dionisiaco, istinto vitale e pulsione di morte. 
È da quando, da Socrate in poi, l'uomo ha tentato di riportare il caos a un impossibile senso ultimo che, secondo Nietzsche, l'umanità inganna se stessa, imbastendo la trappola più letale nella ricerca di un'entità natura superiore che ordini il disordine: Dio, qui incarnato nell'alieno/altro che fluttua nell'aria con i suoi tratti vagamente inquietanti, capace di gesti eroici e di furie da vecchio testamento, poiché come sostiene Lex Luthor, senz'altro ludi magister sinistro e “jokeresco”, ma dosato in modo intelligente, nell'essenza stessa dell'onnipotenza è racchiusa anche la crudeltà.
Nella contesa fra le tensioni dell'animo, fra l'uomo che volle frasi (semi)dio e dio che volle farsi uomo, è chiaramente quest'ultimo a dover suggellare il passaggio definitivo (ma fino a quanto/quando?) dalla sostanza eterea alla carne. Ma è il percorso che conta e questo vede l'uomo, Bruce, molto più rilevante, col suo dolore e la sua rabbia cieca, molto umana, del proprio alter-ego mascherato, scagliare Dio, con la quale, per allegoria, condivide la “madre”, giù dallo scranno, portarlo a fare i conti con le proprie responsabilità ontologiche, come se davvero si trattasse di un Dio biblico, di una qualunque concezione di Dio.
È il percorso umano, inverso, per un certo senso, ma anche assimilabile a quello alieno/divino, che fa scaturire una più ampia riflessione sulla responsabilità, individuale, prima di tutto, e collettiva, in seguito: “cosa posso fare io?” di fronte all'ignoto, a ciò che mi sembra ostile, a ciò che, banalmente, mi rifiuto di indagare per paura, ma anche di fronte alla realtà quotidiana, con il suo carico, ineliminabile, poiché vitale e necessario, di “indiscreta alterità” culturale, religiosa, sociale. 
Nel film di Snyder, con una prima e un'ultima parte folgoranti, qualche digressione di troppo e vari intoppi, tutto sommato perdonabili, nella lunga parte centrale, “bene” e “male” non sono concetti manichei e il regista dimostra uno sguardo lucido e visionario, al tempo stesso. Non c'è nessuna presenza ultraterrena che sgravi l'essere umano dalla necessità di scegliere fino a che punto spingersi per quello a cui tiene, per quello a cui crede o anche per ciò che brama, questioni queste che sottendono una letteratura che pare non avere nulla a che fare con i fumetti, ma che si rivelano basilari per una riflessione post-umanista sensata, mai così importante, tra l'altro, come risulta essere in questi poco umani(sti) tempi. 
Interessante, parimenti, la dicotomia solo apparente fra passato e futuro. 
I ruderi di casa Wayne si intravedono, quasi totemici, in mezzo agli arbusti del parco all'interno del quale è edificata la nuova casa del milionario di Gotham City, casa questa volta di vetro, ispirata a villa Farnsworth (ringrazio l'architetto lucchese Leonardo Benedetti per la consulenza), completamente trasparente, alla mercé degli sguardi come l'animo scoperchiato del supereroe che fu, e che, adesso, è qualcosa di molto diverso: un uomo disincantato, furibondo e violento, tormentato da visioni che hanno l'aspetto di tremendi incubi.
Non è dall'oblio del passato che è possibile rinascere. Il passato è piuttosto una traccia mnestica sulla quale l'uomo nuovo, un Bruce nuovo, finalmente pacificato coi propri demoni interiori, coi propri lutti, può ri-edificare il proprio futuro e, per estensione, un futuro tout court.
Dopo il lavoro esemplare di Christopher Nolan, con la raffinatezza e la precisione tecnica di Bale, come Bruce, e con la creazione filmica di alcuni caratteri memorabili, non era facile portare a casa il risultato. Zack Snyder ce la fa, grazie anche al suo nuovo eroe, il molto osteggiato, ai tempi del casting, Ben Affleck, perfettamente in parte e valore aggiunto del film. Per merito dell'attore di Berckley, Bruce Wayne acquisisce infatti un'inedita maturità, intesa anche come desiderio introspettivo, e uno charme dalle venature sensuali, presagio di un cambiamento che, mi auguro, si delineerà con maggiore chiarezza nei lavori a venire. 
 
Ilaria Mainardi