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Bianco

Giovedì 07 Marzo 2013 09:40

Un uomo bendato, legato ad un letto, in un luogo indistinto. Si apre così, dopo alcune immagini fotografiche di paesaggi d’incanto ed una voce femminile fuoricampo che rimbalza nel letto di acque calme, il primo lungometraggio di Roberto Di Vito. Che ha un solo obiettivo: realizzare il racconto “di un sequestro di persona, di una situazione di attesa irrisolta ambientata in un non luogo”. Con una sceneggiatura ridotta all’osso, basata essenzialmente sui moti dell’animo del protagonista, il film si costruisce a partire dai continui flashback rivolti alla sua vita precedente al rapimento e da una serie di immagini a cavallo fra la realtà e il sogno che rivelano tutta la sua fragilità psichica.

Etichettato come thriller, il film contiene soltanto alcuni rimandi a tale genere ma sviluppa un racconto intimo e psicologico che lo allontana da qualsiasi codificazione. Le minacce esterne, mai esasperate da un clima di terrore o di suspance, lasciano infatti il posto al crogiolo di paure e nodi irrisolti che popolano la mente del protagonista, intrappolato, già prima del rapimento, da barriere invisibili ed insormontabili, in un limbo di sopore che testimonia una sorta di paralizzante inettitudine alla vita. “Ho avuto sempre troppa paura, paura di tutto, anche quando tornavo a casa da solo”. L’immobilità a cui è costretto dai suoi rapitori non è che la prosecuzione di quello stato di torpore che egli ha sperimentato nella vita. Quella stessa immobilità è una sorta di pausa dal mondo che gli permette di elaborare i desideri mai realizzati, le paure laceranti, un anelito alla sperimentazione sempre frustrato.

Il colore bianco diventa contemporaneamente metafora di purezza e freddezza, nel limbo algido che intrappola il protagonista in una vita pensata anziché vissuta. Bianca è anche la mascherina utilizzata per i passaggi dalla realtà ai voli onirici e dalla prima ai ricordi: un velo che segna lo stacco e contemporaneamente il morbido fluire indistinto dalla realtà oggettiva alla realtà come specchio della percezione individuale.

Sperimentale e “transgender”, corredato da una buona fotografia e da spunti di sicuro interesse (peraltro ripresi da un corto omonimo girato dal regista nel 2010), il film non può tuttavia dirsi riuscito né sul piano della realizzazione tecnica né su quello della narrazione. Se a ciò aggiungiamo una performance attoriale di basso livello che, eccezion fatta per il protagonista, non risparmia nessuno, non possiamo esimerci dal valutare Bianco come un esperimento di video arte che fa un passo avanti rispetto alla formula più semplice del corto (di cui Roberto di Vito ha solida esperienza) ma non arriva alla completezza di un lungometraggio. Lasciando, tuttavia, degli spiragli alle possibilità espressive di un regista che, con coraggio e passione, cerca di farsi strada nel magma caotico delle produzioni indipendenti.


 

Elisa Fiorucci