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C'era una volta a New York

Domenica 02 Febbraio 2014 00:38
1921. Ewa Cybulski (Marion Cotilard) arriva dalla Polonia in America con la sorella Magda. Giunte a Ellis Island, Magda viene messa in quarantena per la tubercolosi ed Ewa si ritrova a Manatthan sola e senza un posto dove andare. Riceverà aiuto da Bruno (Joaquin Phoenix), magnaccia ubriacone, che la spingerà a prostiuirsi con la promessa di farle guadagnare abbastanza soldi per liberare la sorella. 
L’arrivo di Orlando (Jeremy Renner), affascinante illusionista cugino di Bruno, restituirà ad Ewa la speranza di un futuro migliore. 
Fra Bruno e Orlando non corre buon sangue a causa di vecchi rancori e il loro rapporto rimarrà ulteriormente compromesso quando finiranno per contendersi l’amore di Ewa. 
 
James Gray mette in scena un melodramma post-moderno, contaminato da quelli che sono i temi trainanti del suo cinema: la famiglia e il labile confine fra bene e male. Così facendo stravolge il genere di riferimento (come già fece in Two Lovers, liberamente ispirato a Le notti bianche di Dostoevskij); mentre nel melodramma classico infatti i personaggi sono tratteggiati in modo netto e sono quasi sempre suddivisi in modo manicheo tra buoni e cattivi, in questo film sono caratterizzati, spesso un po’ superficialmente, da un’ambiguità di fondo che la piega degli eventi porterà a galla.
Marion Cotillard non patorisce una “performance sublime” nonostante abbia imparato a parlare il polacco, anzi, il suo personaggio, nella seconda metà del film, è costretto a riciclare sempre le medesime frasi (nei medesimi intenti) ripetute a pappagallo come se fossero lo “spiegone” di una soap opera. 
Joaquin Phoenix, ormai attore feticcio di Gray, dimostra sempre un’intensità grandiosa nella ruolo del tozzo ubriacone. 
La suggestiva fotografia di Darius Khondji, ispirata ai dipinti di Everett Shin e a quelli di George Bellows, scava nella sporca realtà di un basso varietà itinerante, creando un’atmosfera mitica e al tempo stesso austera. Per il resto però il film fa fatica a colpire, nonostante segua fedelmente uno dei tratti peculiari del melò: mirare ostinatamente a commuovere il pubblico. 
Il vero difetto del film di Gray non sono tanto i dialoghi stucchevoli, la totale inadeguatezza di Jeremy Renner nel contesto degli anni Venti, le artificiose trovare strappalacrime e nemmeno l’incapacità di seguire un fil rouge fino alla fine (l’illusorietà del sogno americano? La religione?), ma il suo svolgimento essenzialmente troppo noioso. 
Come se non bastasse, l’utilizzo della incipit fiabesco “C’era una volta ” in omaggio ai capolavori di Sergio Leone, non aiuterà gli incassi del film, come pensano furbamente i distributori italiani. Anzi, favorirà solo le crescenti critiche di Hypster incazzati che rivendicheranno il titolo originale (The Immigrant), vedendo la traduzione come un’associazione inadeguata e un compromettere la stessa opera, messa in scena poco riuscita dell’illusorietà del sogno americano con tanto di morale francescana in chiusura. 
 
Angelo Santini