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Altman

Lunedì 24 Novembre 2014 17:00
Altmaniano. "Giocare il colpo grosso" (Sally Kellerman); "Aspettarsi l'inaspettato" (Robin Williams); "Decidere le proprie regole" (James Caan); "Quanto siamo vulnerabili" (Julianne Moore"). Altmaniano, soprattutto, secondo Keith Carradine è la capacità di "far vedere agli americani chi siamo". E in questa ordinaria carrellata di definizioni, utilizzate a mo' di dissolvenze per legare i vari capitoli della carriera di Robert Altman, di fronte alla risposta di Carradine c'è da alzare le mani  e fermarsi un momento a riflettere.
Tra una buona dose di leziosa retorica - che brav'uomo Bob, che gran padre di famiglia anche se non c'era mai - ed un pizzico di autocompiacimento da parte dello stesso protagonista nelle interviste, il documentario riesce a creare un curioso spunto di riflessione: perché non ci sono dei Fellini o dei Bergman americani? C'è da chiedersi quanta verità nasconda una domanda come questa e quanto si possa essere oggettivi nel rispondersi. 
Mann ricostruisce la storia di Altman uomo ed artista lasciando l'originalità fuori dalla lista dei buoni propositi ed adagiandosi su un'elencazione semplicistica. Sfrutta infatti una coralità fittizia che si accontenta di dar voce a qualche familiare e raggruppare un po' della buona Hollywood davanti ad un fondale nero, nel commosso ma incerto tentativo di definire un aggettivo: altmaniano. Quella che avrebbe potuto essere una ricerca trainata da un coraggioso punto di vista, è più vicina ad un progetto che non riesce a scavare sotto la superificie del luogo comune; un omaggio troppo enciclopedico alla memoria di Altman, che gira attorno alla tanto agognata definizione di "altmaniano" senza mai afferrarla davvero eccetto, forse inconsapevolmente, che nello sguardo dello stesso Altman malizioso ed allusivo, a tratti saccente, indubbiamente sarcastico e provocatorio. 
Difficile dire se sia stato Altman a "fare il culo ad Hollywood" (Bruce Willis) o se siano stati gli studios a farlo uscire a testa bassa dell'eterno scontro - a conti fatti, tralasciando la prevedibile pacca sulla spalla dell'Oscar alla carriera. A giudicare dal materiale presentato nel documentario, il distacco sfacciato degli anni in fiore cede il passo, negli anni della vecchiaia, ad un alone di tristezza. Altman si butta nel teatro, sconfigge un micro ictus, perde peso per guadagnare salute, ritrova se stesso in un progetto di tv sperimentale; ma l'ombra di amarezza con cui afferma che non avrebbe potuto far nulla per gli studios se non cambiarli, e che loro non lo hanno voluto, ha il peso della delusione di chi ha accusato il colpo. Nel fare il culo ad  Hollywood e alla sua coerente avidità, Altman si è dimostrato fantasioso ma poco costante, mosso da una rabbia instancabile e dalla comprensibile esigenza di trovare un posto, mentre Hollywood gli impediva l'accesso sia alla setta del blockbuster che a quella del cinema d'autore. 
Emblematico è il racconto sullo screening di M*A*S*H col produttore della Fox convinto da due belle ragazze europee a non tagliare le scene del film, nell'ottica di un Paese e di un sistema produttivo che molte volte è mosso dalla casualità e da circostanze fortuite, più che da uno sguardo lungimirante. Quella che diventerà la "migliore commedia bellica americana dall'avvento del sonoro" segnando la storia del war movie, deve molto non alla Hollywood pioniera, ma ad un Altman pionere. Un pioniere che ha arricchito il cinema americano senza mai davvero arricchirsi grazie ad esso, che si è fatto strada come un virus autoimmune, attaccando dall'interno, alimentandosi dei deficit del proprio habitat, ridicolizzandone i grandi principi in maniera troppo intelligente per essere ingenua come tenta di farci credere lui stesso: "se è ripugnante, vuol dire che lo è ciò che vedo".
 
Chiara Del Zanno
 

Storie Pazzesche

Mercoledì 17 Dicembre 2014 23:49
L'ultimo film prodotto dai fratelli Almodovar e firmato dall'argentino Damiàn Szifron è il matrimonio ufficiale tra il black humor ed il guilty pleasure, un mix che solletica le fantasie più scomode di ognuno di noi portandole in scena con effetti catastrofici. È come imbattersi in uno specchio e sorprendere a tradimento il proprio profilo peggiore, mortificante ed intrigante allo stesso tempo, almeno quanto le più scandalose iniziative prese sotto stato d'ebbrezza. 
Storie pazzesche esordisce con un micro episodio di 6 minuti in cui si ravvisa subito un concentrato di esilarante genialità costruito ad hoc. Un piccolo cortometraggio autonomo e perfettamente compiuto, una felice mossa produttiva che ha sedotto anche il pubblico del web, trascinandolo al cinema con un'efficacia da trappola per topi. 
Perché Storie pazzesche funziona, alla grande e senza riserve. Il meccanismo del gioco si intuisce dopo appena qualche minuto, poi non resta che accettarne le regole e gustarsi lo spettacolo. Finalmente torna in sala uno spettatore intrattenuto e divertito. L'effetto domino si ripropone in tutti gli episodi del film, ma puntualmente l'escalation di comportamenti deliranti dei protagonisti lascia basiti. Una comicità tanto schietta, persuasiva e ben ragionata da farsi complice lo spettatore mentre gli si insinua nella mente: "dai, non dirmi che in fondo non vorresti farlo anche tu".
Una lite tra automobilisti, un malavitoso che entra nella tavola calda sbagliata, un padre di famiglia che inizia una guerra contro l'amministrazione, una giovane sposa appena tradita. Come una raccolta di novelle sulla degenerazione degli impulsi più selvaggi, il film racconta con goliardia e schiettezza una società in cui tutto può capitare a tutti, ma soprattutto in cui subire un'ingiustizia può far perdere il controllo in un attimo. Questo abile lavoro si dimostra un ritratto a tinte psichedeliche dell’istintività umana, dei suoi raptus di follia, delle reazioni meno nobili e dell’innato ed innegabile desiderio di vendetta.
Szifron realizza un cocktail di vicende anomale, sostenuto da una regia estremamente fluida e da una sceneggiatura più che robusta. La chiave vincente è una comicità grottesca che non dimentica mai di prendersi sul serio: i personaggi scoppiano uno ad uno ma il film non li deride. C’è una sorta di solenne rispetto nei confronti di queste schegge impazzite, ben distante dalla parodia o dalla gag. La sapiente calibratura del sistema di fascinazioni, tensioni e suspense dei singoli capitoli è una delle operazioni più riuscite dello sceneggiatore-regista. Come un grande comico supportato da una grande spalla, Szifron insieme al suo cast artistico sente il pubblico, ne prevede le reazioni e gestisce i tempi comici modulandone sempre l'intensità. Un dosaggio perfetto di tutti gli elementi: eccessivo senza mai nauseare. Allucinato ma profondamente onesto.
Storie pazzesche è il film su tutti quegli insospettabili vicini di casa che sembravano delle persone così per bene, eppure.
 
Chiara Del Zanno