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Venere in Pelliccia

Sabato 11 Gennaio 2014 20:34
Vanda, prosperosa attricetta, arriva in ritardo all’audizione per il ruolo di protagonista nell’adattamento teatrale del romanzo erotico di Von Sacher Masoch, che dà anche il titolo alla pellicola. Nel teatro è rimasto solo Thomas, regista e adattatore dello spettacolo, il quale, raggirato dall’invadenza della donna, le concede senza troppe aspettative un’audizione fuori tempo massimo. Vanda si rivela perfetta per la parte già dalle prime battute. Thomas ne rimane ammaliato e mentre fuori urla la tempesta, anche lui si rende conto di non essere così diverso dal protagonista maschile del suo adattamento.
 
Le vicende si svolgono interamente in un teatro. Il palcoscenico è ancora allestito dal precedente spettacolo. Un adattamento musicale di Ombre Rosse, specifica un po’ stizzito Thomas.
E’ lì che si muovono i due protagonisti, fra le macerie di kolossal hollywoodiani che hanno depauperato il teatro della sua identità.
 
Se ai suoi albori il cinema veniva considerato da molti intellettuali una pratica di serie B rispetto alle altre arti, Venere in pelliccia sbandiera virtuosamente l’emancipazione dell’arte cinematografica. La fotografia e i movimenti di macchina allontanano il film dai fallimentari esempi di teatro filmato. 
Ogni elemento si presta a molteplici chiavi di lettura: l’enorme cactus sul palcoscenico è prima un elemento del deserto culturale in cui si muovono i protagonisti (reduce dal musical Ombre Rosse), poi un rimando all’architettura greca, infine una dominante forma fallica. Il palcoscenico stesso è sia teatro che inconscio, dove si celano i desideri rimossi di Thomas, i quali verranno fuori una volta abbattute le barriere fra persona e personaggio durante la lunga audizione.
Lui e Vanda entrano ed escono continuamente dai personaggi che interpretano sul palco; quei personaggi che sono sia scudo che chiave delle rispettive perversioni sessuali.
 
La figura dell’attrice e quella dell’autore finiranno quindi con il confondersi, così come schiavo e padrona, realtà e finzione, teatro e cinema, in qualcosa che somiglia in parte ad un abbozzo di realismo ontologico; un realismo di tipo strutturale, interno al linguaggio, ottenuto attraverso un processo di sottrazione lontano da qualsivoglia spettacolarità (il film ha un’unica location) e da istanze veriste/naturaliste. 
 
 
Il cinema prende vita grazie allo spazio teatrale e il teatro fa lo stesso grazie al dispositivo cinematografico: durante l’audizione, l’assenza degli oggetti di scena nella partitura fisica dei protagonisti viene accompagnata da effetti sonori che ne compensano l’assenza stessa (il rumore della tazzina di thè e quello della penna che scorre sul foglio di carta). Ed ecco come il metodo delle azioni fisiche senza accessorio teorizzato da Stanislavskij si arricchisce di efficacia estetica attraverso un intelligente uso dell’audiovisivo.
Venere in pelliccia è un film che riflette sulla messinscena come gioco dell’artificio e sul rapporto tra arte, finzione e inconscio. L’unica assenza incolmabile è quella del pubblico, senza il quale il teatro non vive (l’incontro dei protagonisti non basta a restituirne l’essenza) rimanendo irrimediabilmente confinato nell’anticamera di se stesso. Nonostante questa macchia, Polanski sembra cogliere comunque il punto nodale dello stile moderno nel cinema, creando un legame imprescindibile fra riflessioni metalinguistiche e consapevolezza del mezzo cinematografico.
 
Angelo Santini

L'Ufficiale e la Spia

Mercoledì 20 Novembre 2019 10:31

J’accuse di Roman Polański è stato oggetto di una rovente discussione prima dell’inizio della competizione veneziana. Il film del regista polacco, per la presidente di Giuria Lucrecia Martel, non avrebbe dovuto competere nel concorso ufficiale, che assegna i premi della kermesse. Invece, il direttore della Mostra Alberto Barbera, si è schierato a favore dell’artista Polański, non giudicando l’uomo, sul quale pende ancora un’accusa di molestie sessuali. Sta di fatto che l’opera presentata al Lido aveva tutte le carte in tavola per ricevere un premio, e questo gli è stato assegnato: il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria. Lucrecia Martel sperava che il regista avesse girato un altro “Pirati” (1986) o un’altra “Nona Porta” (1999); in questo caso non avrebbe avuto problemi a escluderlo dal palmares. Invece, obbligata o meno, ha dovuto far dietrofront e dare un Leone di prestigio al film. Comunque, a parte la polemica, J’accuse è un film interessante, sicuramente non qualcosa di indimenticabile, ma una spy-story confezionata con precisione e con una messa in scena impeccabile.

L’ufficiale e la spia, titolo italiano, tratta del caso Dreyfus, capitano in forza all’esercito francese. Reo di aver passato informazioni strategiche ai nemici tedeschi. Ma la sua colpevolezza è solo una questione di razza, essendo il soldato di origine ebraica. Siamo esattamente nell’anno 1894 quando delle lettere compromettenti vengono intercettate ed attribuite al povero Dreyfus (Louis Garrel). Tutta l’intelligence francese, compreso il neo capitano Picquart (Jean Dujardin), non hanno dubbi: l’ex capitano deve scontare una pena durissima nella fantomatica Isola del Diavolo. La sua vita deve finire in quella cella sperduta in mezzo all’oceano. Ma Picquart scopre i magheggi politici, che hanno portato all’ingiusta carcerazione di Dreyfus. Eticamente corretto il capitano intraprende una battaglia lunga 12 anni (Dreyfus verrà prosciolto solo nel 1906), che lo porterà a scoprire la verità. In questo viaggio anch’egli troverà grandi ostacoli,che influenzeranno negativamente la sua esistenza. Ma quando entra in gioco il famoso scrittore democratico Emile Zola (François Damiens), con la sua lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, scritto focoso che riprende per l’appunto il titolo del film “J’accuse”, l’opinione pubblica vacilla e con essa anche le più alte cariche istituzionali. Dapprima tutto sembra un fuoco di paglia, ma con l’andare degli anni le prove di colpevolezza di Dreyfus cadono come il più instabile dei castelli di carte.

Polański si affida ancora una volta al fidato amico e scrittore Robert Harris, autore del romanzo storico (2013), che ha come protagonista il malcapitato Dreyfus. I due avevano già scritto insieme la sceneggiatura di “L’uomo nell’ombra” nel 2010. Il film qui a Venezia ha ricevuto anche il premio Fipresci dalla federazione internazionale della stampa cinematografica.

Nel trafiletto pubblicato su Facebook, subito dopo la visione del film, abbiamo affermato che J’accuse è un film legato indissolubilmente al suo autore: un opera estremamente autoreferenziale. E’ anche vero che nel cinema di Polański poco non è autoreferenziale, ma non abbiamo potuto esimerci di costatarlo per l’ennesima volta. Qui il legame con il suo protagonista ghettizzato è veramente forte ed ancora ferocemente attuale. E anche qui come in passato troviamo tutte le sue ossessioni. La paura di essere costretto a rimanere in un luogo chiuso: la prigione sull’isola del Diavolo né è la testimonianza. Il timore profondo per l’acqua, che circonda irrimediabilmente la prigionia di Dreyfus. L’uomo Polański è così un’isola, tagliato fuori dal mondo. E’ uomo sotto costante accusa.

Ritroviamo nell’Ufficiale e la Spia anche quel senso spiccato per la chiusura degli avvenimenti presentati, che sublima con il ritorno alla libertà di Dreyfus. E non possiamo dimenticare certe scene prettamente teatrali, fotografate con spessore da Paweł Edelman. Le inquadrature sembrano quadri con un focus chiaro e pulito all’interno di stanze buie, colme di corruzione. La luce è la protagonista per poter fare la giusta chiarezza sugli avvenimenti.

Dal punto di vista registico c’è poco da dire, nel senso positivo del termine. La direzione è formale, compatta, meticolosa e un filo didascalica. Ed l’unico inciampo da parte del regista, che realizza un film tecnicamente perfetto, ma forse poco empatizzante per il pubblico. La macchina da presa è usata con attenzione nel mettere in risalto la cattiveria. L’energia e l’intensità che viene messa in scena per svilire e denigrare il personaggio pubblico Dreyfus, ma anche l’uomo, è possente (la scena dove gli vengono tolti i gradi in una pubblica piazza né è l’esempio lampante). I tempi sono dilatati. La verità va ricercata con scrupolo e dedizione, nulla va lasciato al caso.

J’accuse è un film contro l’antisemitismo, per un mondo che si dimentica troppo velocemente della storia e dei processi che ha subito. In Italia uscirà il 21 Novembre. Nel suo incedere con l’inchiesta si avvicina ad uno Spotlight del 900.

David Siena