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Visualizza articoli per tag: gianfranco rosi

Sabato 17 dicembre, presso la Casa del Cinema di Roma, si è conclusa la seconda edizione di DOC/it Professional Award, premio della categoria al miglior documentario dell'anno, realizzata da Doc/it Associazione Documentaristi Italiani con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in collaborazione con la Casa del Cinema, Zétema Progetto Cultura e Roma Lazio Film Commission.

Cinque le opere in concorso per un montepremi complessivo di oltre 14.000 euro.
El Sicario Room 164 di Gianfranco Rosi vince il DOC/it Professional Award 2011 del valore di 3.000 euro che va ad aggiungersi ai numerosi altri premi vinti nel corso dei 43 festival a cui ha partecipato.
Il Castello di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti vince il Premio AAMOD, 3 minuti di archivio per un valore complessivo di 5.250 euro.
Cielo senza Terra di Giovanni Davide Maderna e Sara Pozzoli vince il Premio FAKE #FACTORY, consistente in servizi di produzione o coproduzione di un film documentario, per un valore di 2.500 euro.
This is my land… Hebron di Giulia Amati e Stephen Natanson si aggiudica il Premio AMG INTERNATIONAL equivalente in mezzi tecnici per le riprese di un film documentario, per un valore di 2.000 euro.
Sempre a This is my land Hebron va anche il Premio UCCA del valore di 10.000 euro per la distribuzione del film nel circuito UCCA.

A Left by the Ship di Emma Rossi Landi e Alberto Vendemmiati va il Premio AUGUSTUSCOLOR, ovvero sviluppo e telecinema per mt. 2.000 di neg. S16mm oppure per mt. 5.000 di neg. 35mm, per un valore di 1.500 euro.

Una giuria composta da oltre 100 professionisti del settore fra autori, produttori, direttori di festival, critici e tecnici, ha avuto modo di visionare i 26 titoli finalisti e votarli on-line tramite la piattaforma
www.italiandoc.it.

Per maggiori informazioni www.documentaristi.it

 

Chiara Nucera
 

Sacro GRA

Giovedì 12 Settembre 2013 21:43
Bertolucci voleva essere sorpreso. E Rosi l’ha accontentato. Con un lungo lavoro di ricerca sul campo - il documentario esige un tragitto in solitaria che, col rischio dell’autismo, arriva ad un “prodotto” finale che è una sorta di sintesi di molteplici incontri, sguardi, parole, riflessioni – il documentarista di fama internazionale (lo conoscono forse di più in America che in Italia) crea una pietra preziosa fatta di tante rifrazioni cromatiche quanti sono i frammenti di vita che riprende e restituisce allo spettatore. 
Dopo tre anni passati a circumnavigare il GRA, a mappare emotivamente quel cerchio di traffico che cinge Roma, a conoscere l’umanità palpitante che lo popola, Rosi e i suoi collaboratori (Dario Zonta, preziosissimo direttore artistico e Nicolò Basetti paesaggista-urbanista che inizia l’avventura di scoperta del raccordo), ci regalano dei personaggi autentici attraverso una sperimentazione narrativa imperniata sul togliere. Trasformazione e sottrazione sono le cifre stilistiche di questo lungo lavoro che è, nelle parole di Rosi, “prima di tutto un atto di amore nei confronti dei personaggi”. Privi di una storia che li intreccia, appaiono e scompaiono (dimostrando un’ incredibile capacità di mettersi in gioco, di recitare con naturalezza, dimenticando di essere ripresi) di modo che ogni frammento di vita mostrata rappresenti, in sintesi, l’essenza dei personaggi, in cui risiede tutta la loro forza poetica. Che continua oltre i limiti del tempo del documentario.
La poeticità stabilisce un contatto diretto con la sacralità, che è la cifra del mistero di un luogo e dei personaggi che lo abitano, di cui Rosi dona allo spettatore un’ occhiatina furtiva senza svelare la loro complessità. La sacralità, e al tempo stesso la magia del documentario, consiste nella trasformazione di un luogo piuttosto squallido, scandito dal ronzio continuo delle auto nella piastra rovente di cemento, in uno spazio capace di rendere racconti delle vite ordinarie. Il raccordo si trasforma in un cerchio magico che ci conduce verso altri mondi, nei dialoghi fra un padre intellettuale che intrattiene la figlia studiosa con le sue riflessioni su Durrell, nel camper di due prostitute incasinate con la legge, nei salotti di un principe in cui si incontrano gli attori di un fotoromanzo, nell’ironia coinvolgente di un pescatore d’anguille che legge un servizio sulla pesca delle anguille, in un biologo che registra i suoni delle palme morenti, negli interni barocchi e anche un po’ trash di nobili piemontesi inspiegabilmente finiti ad abitare lì, negli sguardi di altri personaggi che osservano dai finestroni quadrati dei loro palazzi la vista sul raccordo, riuscendo a scorgervi angoli di bellezza.
Contro il mito della velocità degli anni ’60 di cui il raccordo è simbolo, contro quella macchina celibe (felice invenzione di Duchamp per descrivere opere dal funzionamento e l’utilità sconosciuti) che Renato Nicolini intravedeva in uno strumento che, anziché organizzare il traffico da e verso Roma, funzionava solo come cesura nei confronti delle contraddizioni della città, Sacro GRA è il prodotto di una lentezza ontologica e della spinta ad uscire da quella sospensione invisibilizzante attraverso frammenti di esistenze ordinarie che popolano quello spazio. Il documentario, insieme ai suoi personaggi, sospende quella sospensione. E da visibilità alla “città invisibile” costruita intorno allo spazio del raccordo. 
Il leone d’oro a Sacro GRA è un atto di coraggio, fatto da chi crede nel potere rivoluzionario del cinema e nel suo dovere morale di aderenza all’esprit du temps. Che Sacro GRA coglie sia nell’individuazione di una certa crisi identitaria che, più di quella economica, marca le vite delle moltitudini; sia in un movimento che consiste nello spingere sempre più avanti la barriera fra fiction e documentario, nello spostare il lungometraggio fuori da ogni canone di raccontato. 
 
Elisa Fiorucci

Fuocoammare

Lunedì 22 Febbraio 2016 13:31

Dopo un anno e mezzo di riprese e documentazioni sul luogo nasce Fuocoammare, scaturito proprio “dall'esigenza di fare da eco alla tragedia dei profughi di Lampedusa”,  quello che secondo Gianfranco Rosi, recentissimo Orso d'Oro a Berlino proprio per questo lavoro, “è un film politico a prescindere” in quanto tale materia è la sostanza di cui si nutre e dalla quale prende le mosse l'esigenza alla base del film.

Sembrerebbe un'ottima frase di lancio se poi tutto non riconducesse ad un film asettico diviso nettamente in due parti, inframezzate dai racconti di un medico responsabile dei soccorsi, che si occupa con grande umanità di tutti i casi che l'isola accoglie.
Un senso critico nasce spontaneo, quello che ci fa chiedere cos'è la politica e qual è davvero la funzione di un film documentario e, forse, esperti del settore fomentati a parte, è anche ciò che diversi spettatori si sono chiesti vedendo questo lavoro.
Fin da quasi subito si avverte preponderante il senso di un'urgenza narrativa vuota, che non viene esplicitata nella gravità degli accadimenti, per un film che non entra nel merito della vicenda che sceglie di raccontare, o meglio ne tratta una parte che potrebbe tranquillamente essere considerata marginale. Ci si chiede qual è il doveroso confine tra realtà e finzione, come in passato mi accadde davanti alla visione di Sacro GRA, opera precedente del regista che gli valse il Leone d'oro nel 2013 alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. 
Davanti ai lavori di Rosi, mi approccio con un certo sconcerto, sentendomi privata di qualcosa, come se il diritto di vedere e sapere mi sia stato negato,  rimpiazzandolo con una farsa ben architettata, questo quello che ho provato davanti al Leone d'Oro, questo quello che ho riprovato davanti a Fuocoammare. Perché c'è la necessità di fare un lavoro così poco coraggioso? Probabilmente perché mantenendo i piedi entro un certo confine, che sia per tutti inequivocabilmente politically correct, non c'è il rischio di non compiacere la grande massa di spettatori e la grande massa di addetti ai lavori che sposano un certo tipo di cinematografia che poco osa, mai sull'orlo, che nulla dice e che nulla toglie, ma che concettualmente impoverisce negandoci il diritto di sapere. Rosi sembra osare poco, anzi per nulla, indugiando su elementi totalmente spettacolarizzanti, come una lacrima di sangue che solca il viso di un disgraziato vivo per miracolo dopo la traversata, un tempo troppo lungo, per poi negarci completamente ciò che sarebbe lecito sapere, mostrandoci i morti ammassati nella stiva di una carretta del mare solo per la lungimiranza di uno dei soccorritori che spiega al Maestro quanto sia importante vedere ciò che realmente accade, l'impatto dirompente di un avvenimento storico di portata mondiale e che ci tocca così da vicino. Rosi ci priva e si dilunga su tutta una parte fondamentalmente inutile e appesantita di racconti infarciti della noia di un'isola dove non accade niente, dove si vive di mare e attraverso i profughi che quello stesso mare a volte restituisce alla terra, altre inghiotte. Non vi è nemmeno l'elemento di forte contrasto tra piani narrativi, dato da una vita routinaria e tranquilla e la disperazione di chi giunge sulle nostre coste, perché c'è sempre un filtro patinato, l'occhio del regista che tutto mitiga e tutto alleggerisce, sospendendo nel tempo e nello spazio tutto ciò che ci scorre davanti.
Rosi mette in bocca ai protagonisti frasi, suggerisce scene, fa spiegare in camera, da quello che dovrebbe essere uno dei mentori della vicenda, quanto sia terribile ciò che accade, filtrando il  tutto e non avvicinandosi mai abbastanza alla tragedia e alla vita sottratta a causa di sordide politiche internazionali, di leggi oscene, di guerre scellerate, di paesi resi schiavi, cosa che invece qualche anno prima aveva fatto, molto meglio e molto più esplicitamente, “Mare Chiuso” (2012) di Stefano Liberti e Andrea Segre, affidando la narrazione per brevi tratti ad immagini potenti come un pugno nello stomaco, quelle dei telefonini degli stessi naufraghi sui barconi. Il non osare diventa una mancanza di onestà intellettuale per un mondo che, come l'occhio pigro del suo protagonista lampedusano, si rifiuta di vedere. Quell'occhio pigro coincide con lo sguardo del regista. E ora che la tragedia è stata massmedializzata, vincendo pure un premio internazionale, infarcita di curate immagini atte solo a rievocarla, quasi da farla sembrare irreale, stiamo tutti molto meglio? Probabilmente questo film mette in pace gli animi, come fece un po' Bertolucci con The Dreamers raccontandoci che tre ragazzotti che giocavano alla politica erano il 68' francese, magari lui lo fece con un po' più di disincanto e soprattutto si trattava di una storia di finzione, ma un documentario dovrebbe assumersi anche il dovere di cronaca, perché il cinema non è solo un bel gioco ma, in alcune occasioni, dovrebbe essere impegno civile. 
 
Chiara Nucera
 
 
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Fuocoammare, unico film italiano in concorso al Festival di Berlino 2016, è nientemeno che un documentario sulla problematica e scomoda situazione che vive giornalmente l’isola di Lampedusa nel Mar Mediterraneo. Migliaia di profughi cercano la salvezza, rifugiandosi su questa piccola isola. A bordo di improbabili navi o traghetti, famiglie in fuga dal proprio paese di origine spendono cifre assurde per cercare di sfuggire a morte certa, ignare del fatto, che una probabile e mascherata dipartita è proprio lì davanti a loro. Meraviglioso e lucente mare, che ha la doppia valenza di portatore di vita e di tragedia. Blu profondo, luogo nefasto e tomba di speranzosi esseri umani alla mercé dei mercanti di uomini. 
 
Di tutto questo, Gianfranco Rosi ha deciso di farne un documentario. Accolto con il favore della critica della Berlinale, è stato decretato il vincitore di questa sessantaseiesima edizione. Di contro, a mio parere, il risultato dell’opera filmica è riuscito solo in parte. A differenza del premiato Sacro GRA (Leone d’oro a Venezia nel 2013), dove l’umanità nell’analizzare la vita delle persone ai margini era palpabile e creava vere emozioni, in Fuocoammare questo non è presente. Porta l’occhio dello spettatore su quello che non conta. Lo obbliga a focalizzarsi su immagini che non creano una vera empatia, ma ti costringono ad assistere ad un dolore vissuto solo in superficie e non nelle viscere.
 
Rosi ha curato anche la sceneggiatura e la fotografia di questo singolo, ma globale dramma. Quello che vediamo sullo schermo è la testimonianza di una sciagura accaduta a 20 miglia dalla costa Libica e il normale ritmo della vita di ogni giorno di una famiglia di lampedusani. Occhio puntato su un ragazzino (Samuele Pucillo, che interpreta se stesso), che comincia l’avventura della sua vita immerso in un mondo incontaminato e lucente. Impara i primi armamenti del pescatore, che sarà il mestiere che farà da grande, senza non poche difficoltà legate alla sua giovane età. 
I bambini, in questo paradiso, giocano e guardano al mondo senza pensare a quelle acque, che hanno davanti tutti i giorni, come ad un luogo di morte. Ci sparano contro con dei simbolici movimenti delle braccia senza sapere che c’è un filo diretto, che unisce quei giocosi spari e il fuoco che scaturisce in alto mare.
Samuele oltretutto ha un occhio pigro. Metafora perfetta, che ci porta a pensare al nostro modo di vedere la situazione di Lampedusa.
 
Parallela alla vita di Samuele troviamo quella della comunità, che prende il suo completo giovamento dal mare. Ci si aspetta tutto da quelle acque. Ci si immerge e si lascia che la vita marina venga all’uomo, senza quasi costringerla a farlo. In antitesi con quello che per i profughi significa e procura: un sudore tannico di corpi aggrovigliati su di una bagnarola decadente prossima alla caduta. Questi due mondi non sono pressoché mai a contatto, lì separa una voragine che porta il disequilibrio in quest’opera. Vi è estenuate massimizzazione nel dividere vita e morte, che sono le due facce opposte della stessa moneta. Non possono essere scisse. I mondi appena descritti sembrano far parte di due universi lontani lontani. L’unione è obbligatoria e fondamentale e qui latita. Solo nella figura del Dottor Pietro Bartolo, il medico che soccorre i profughi disidratati, ustionati e quasi morti, troviamo i veri momenti significativi di Fuocoammare, vera soggettiva e punto di unione tra gli isolani e i profughi. 
 
Fuocoammare, che è politico a prescindere e dove non ci sembra il caso di addentrarci, ha comunque il pregio di mostrarci la realtà complessa che vive l’isola di Lampedusa. Le immagini sono ben curate attraverso una fotografia sempre oscura e filtrante nei momenti che contano. 
Una scena che mi pone una domanda frequente nella mia mente è questa: il ricucire o il rammendare i corpi e le menti è veramente così semplice come riesce ai due ragazzotti quando giocano a fare la guerra ai dei malcapitati fichi d’India? Perché distruggiamo per poi metterci una pezza? E’ l’assurdo gioco che porta una sopravvivenza sterile ai sopravvissuti e anche ai noi, che proprio non mi dà pace.
 
David Siena