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Visualizza articoli per tag: isabella ferrari

Il venditore di medicine

Giovedì 08 Maggio 2014 20:42

Presentato in anteprima fuori concorso, al Festival Internazionale del Film di Roma, Il Venditore di Medicine, uscirà in cinquanta sale italiane il 30 Aprile. 

Il film, con tutto il suo stampo da documentario, presenta una tematica forte e delicata, forse trascurata nel nostro paese, e raramente trattata dal cinema italiano.
Il regista, Antonio Morabito, ci mostra i retroscena del sistema sanitario. Il comparaggio che avviene negli ospedali o studi medici, sotto l'impronta e la spinta di uomini in giacca e cravatta. Bruno (Claudio Santamaria) è uno di questi, un informatore medico/sanitario mandato dalla casa farmaceutica Zafer, sotto la supervisione di Giulia, una capoarea senza scrupoli interpretata da Isabella Ferrari.
 
La storia assume l'ottica privilegiata del "malfattore" che, spesso, si trova in situazioni di difficoltà morale. In realtà non c’è nessuno che in questo film interpreta la parte “buona” poiché ci viene rappresentato un genere di umanità in cui ognuno cerca di arrampicarsi più in alto degli altri.
 
Bruno esaudisce richieste di medici facilmente corruttibili, nella sua valigetta, oltre ai nuovi farmaci da presentare, porta sempre dei regali come palmari, promesse di auto o vacanze, per consolidare l'affare con il medico di turno. L’unico incorruttibile è il professor Malinverni, interpretato da Marco Travaglio, adeguatissimo per il ruolo.
Parallelamente alle prescrizioni per i pazienti, anche Bruno è succube dei farmaci, che non può fare a meno di usare per placare i suoi stati d'ansia essendo divenuto vittima del lavoro.
Egli vive una contraddizione tra realtà privata e lavorativa, alternata da ripensamenti affettivi e determinazione professionale. Su di lui incombe la difficoltà di gestire i rapporti coniugali senza farli pesare sulla sua professione. 
L’interpretazione di Santamaria, conferisce vigore al protagonista e lascia penetrare disagio e desolazione, rabbia e dispiacere. Ma allo stesso tempo ne scaturisce un personaggio severo con tutto ciò che gli ruota attorno. Le vite umane intese attraverso i toni più puri dell'affettività e del calore umano passano così in un sottile secondo piano. L'unica cosa che conta è non perdere il posto di lavoro, anche compromettendo la salute degli altri pur di non fallire. 
Il caso di Bruno, percosso dal suo blocco psichico, dalla scelta della propria sopravvivenza su tutti, è solo un esempio, che diviene espressione lampante e si spera mai regola, inserito nel dramma attuale dell'intera classe medica, celato inconsapevolmente, alla fiducia del singolo cittadino.  
 
Morabito ha saputo raccontare, senza indugiare in toni eccessivamente tragici, una vicenda che ha una chiave di lettura molto più profonda e preoccupante di quanto mostri sullo schermo. Lasciandoci ad una triste riflessione e suggerendo perplessità sull’importanza che il sistema sanitario dovrebbe dare alla salute, a prescindere dalle case farmaceutiche e dai marchi sponsorizzati sulla pelle dei singoli individui.
 
Francesca Savoia
 

Profeti

Giovedì 26 Gennaio 2023 13:24

L’ultimo lavoro di Alessio Cremonini, regista del precedente “Sulla mia pelle” che raccontava il celebre caso di cronaca di Stefano Cucchi, sposta ora la propria attenzione sul terreno bellico della Siria (già esplorato con il precedente “Border”),  al tempo della presa di Kobane da parte dei curdi contro l’esercito del’ISIS, nel 2015.

Lo schermo si illumina con il primo piano della protagonista: Sara Canova (Jasmine Trinca), seduta su un pavimento di una stanza che sembra essere un bagno. S’intuisce poco dell’ambiente ma la camera si sofferma sul suo viso piangente, disperato. Ecco quindi che la scena cambia e ci mostra un flashback di 105 giorni prima, quando la donna che poco prima avevamo visto disperarsi in quel primo piano struggente e senza soluzione, sta intervistando una giovane combattente curda che le mostra fiera i motivi della sua militanza con queste parole: “Combatto per i curdi, per la libertà e per le donne. Perché noi donne siamo il principale nemico dell’Isis. Ma l’Isis non è l’unico problema. In Medio Oriente, se sei una donna, devi imparare a difenderti il prima possibile. Qui, la maggior parte dei regimi è basata sulla sottomissione, sull’oppressione delle donne. È per questo che le uniche persone che possono cambiare questa mentalità sono le donne”.

Si apre, con queste parole, calme, serafiche espresse con la freddezza fiera di una militante risoluta ma al tempo stesso consapevole, uno dei filoni principali della pellicola di Cremonini: il femminile nell’accezione antitetica di una occidentale e una estremista asservita al Califfato islamico.

La narrazione prende forma quando, mentre sta lavorando e sta esplorando una chiesa cristiana abbandonata e semidistrutta, la giornalista viene rapita dall’Isis che ne fa un ostaggio da lì per i successivi 141 giorni. Ma Sara non può abitare nello stesso luogo in cui sono presenti degli uomini, così viene ospitata da Nur (Isabella Nefar), una foreign fighter cresciuta a Londra che ha sposato, oltre che la causa del califfato, anche un mujahidin che la sottomette al suo volere e di cui è perdutamente innamorata.

Le due donne iniziano una convivenza che ne mette in risalto le differenze. Da una parte c’è il femminile occidentale: duro; con un forte senso di riscatto. Indipendente e concreto, che identifica la propria spiritualità senza dover passare necessariamente per il canale della religione.

Dall’altra parte c’è il femminile islamico. Anzi, estremista: asservito all’uomo che è considerato “un essere superiore”. Devoto e manicheo, che non ammette sfumature di confine sulla condotta morale (religiosa): propria e degli altri, a cui non è data possibilità di scelta.

C’è nella pellicola un continuo sguardo divino: la camera scruta dall’alto i personaggi come un Dio inflessibile che mostra il proprio volere senza restrizioni: un infedele decapitato, il sogno della conversione, le preghiere verso la Mecca, sono scene osservate dall’occhio rigoroso del regista che ne esplicita sullo schermo il senso ieratico senza orpelli ma con disincanto. Con discrezione ma autorevolezza.

L’uomo è sopraffatto e lo spettatore si sente parte di questa sopraffazione: la guerra, la punizione divina, il vacillare della speranza della liberazione dalla prigionia, il senso d’impotenza per la spietata uccisione di altri ostaggi... E questa sopraffazione non ha risoluzione, né per i personaggi, né per lo spettatore.

Il regista non vuole necessariamente giungere a una qualsivoglia conclusione. Vuole raccontare, informare senza giudicare- usando le parole della protagonista- un mondo di antinomie e di contraddizioni, in cui la donna è protagonista pur restando nell’ombra sgualcita di un ideale che nulla o poco ha a che vedere con lo stereotipo di genere o con un’appropriazione culturale facilona.

Valeria Volpini