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Smetto quando voglio

Martedì 25 Febbraio 2014 12:15
In Italia tutti gli stupefacenti e le sostanze psicotrope sono iscritti in due tabelle che vengono aggiornate dal Ministero della Salute. Se una sostanza fa parte di almeno una di queste due tabelle è illegale. 
Sette ricercatori universitari senza contratto, frustrati dall’assenza di prospettive che si pone loro davanti, decidono di mettere a frutto le proprie conoscenze per creare (e vendere) una smart drug purissima e del tutto legale (non essendo presente nelle tabelle del Ministero).
Scordatevi i precari di Virzì e i film piagnoni sulla “generazione mille euro”. Nell’opera prima del salernitano Sydney Sibilia i molteplici riferimenti a icone della cultura contemporanea sono altri: dalla commedia all’italiana a Breaking Bad, passando poi per i Soliti Sospetti e The Snatch.  
La fotografia satura e allucinogena è legata rigorosamente alla materia del film: la droga e i suoi effetti di alterazione. 
Non è un caso se questo film viene realizzato mentre sono in atto dibattiti sulla legalizzazione della cannabis; quando quello stucchevole paternalismo tipicamente italiano viene messo a dura prova dalle condizioni in cui versa il Bel Paese.
Lo spettatore non riesce mai ad assumere una visione moralizzatrice sulle attività (criminose o meno) dei protagonisti, nemmeno quando qualcuno di loro si lascia prendere un po’ troppo la mano e la situazione degenera in un delirio esilarante. 
“Vendere droga ai ragazzini” è sempre stato uno dei tabù morali inviolabili nella nostra società, ma nonostante ciò, non possiamo fare a meno di tifare per la banda dei ricercatori, il cui unico modo per far parte del sistema è sovvertire il sistema stesso. 
La sola cosa che potrebbe lontanamente indignarci, invece, è il fatto che sette fra le migliori menti del paese siano costrette a impieghi di fortuna per stipendi da fame.
Lo stato di alterazione, di cui è costantemente pregna la fotografia, non è quindi solo quello psico-fisico dei clienti tossicomani di turno, ma quello di un’intera società drogata e in prossimità di un'overdose letale.
Smetto quando voglio, però, è una commedia priva di particolari ambizioni civili; il suo scopo non è quello di portare a galla i nostri più reconditi istinti sovversivi e qualunquisti contro il governo ladro e una casta di politici magnoni (vedi Viva l’Italia di Massimiliano Bruno). Il suo scopo rimane quello di far ridere. E ci riesce, grazie ai simpatici protagonisti, perfettamente in sintonia fra loro, e ai tempi piacevolmente dilatati che caratterizzano la prima metà del film. Molti di noi sono finiti per snobbare simili intenzioni, essendo abituati a una commedia popolare desolante, vestito su misura per il comico televisivo di turno, dilagata a macchia d’olio in Italia negli ultimi decenni. Smetto quando voglio ci dimostra invece che si può ridere al cinema senza essere dei totali decerebrati e senza votare Berlusconi.  
L’unico punto debole del film sembra essere il finale troppo affrettato e confuso. Qui Sibilia non sfrutta a pieno (anzi, non lo fa proprio per niente) il fattore suspance che caratterizza un certo cinema di genere, contaminazione verso la quale il film sembrava accostarsi.  
“Errore di gioventù”. 
 
Angelo Santini

Ho ucciso Napoleone

Sabato 28 Marzo 2015 12:05
Anita (Micaela Ramazzotti) è una donna in carriera fredda e determinata. Lavora per un’azienda farmaceutica che commercia in pillole dimagranti e il suo unico obiettivo nella vita è la carriera. Ha una storia d’amore clandestina con il suo capo viscido e fedifrago, Paride (Adriano Giannini), che la mette incinta e la licenzia. Con l’aiuto di Biagio (Libero De Rienzo), giovane avvocato apparentemente timido e impacciato, Anita mette in piedi un piano vendicativo ai danni dell’azienda, per riprendersi il suo posto di lavoro e spodestare Paride. Ma da gelida manovratrice la donna diventa a sua volta la pedina di un gioco più grande e malsano del suo. 
Napoleone è il pesce rosso che la figlia dei suoi vicini di casa le affida per l’inverno, ma che Anita butta prontamente nel cesso pochi secondi dopo aver chiuso la porta in faccia alla ragazzina. Ma Napoleone è anche lo stratega, l’uomo d’azione pragmatico e manipolatore, che la protagonista uccide metaforicamente e  condanna all’esilio. 
Dopo il successo di Amiche da morire, Giorgia Farina torna dietro la macchina da presa con un’altra commedia dalle tinte black tutta al femminile, scritta a quattro mani con Federica Pontremoli. Micaela Ramazzotti passa da essere la bambinetta ingenua di Virzì, Avati e Luchetti alla spietata dark lady rigida e borghese. I capelli da diavolessa, gli occhi pestiferi e i costumi iconici “un po’ alla Joan Crawford” di Maria Rita Barbera le conferiscono un’aura meno attinente alla vita reale di tutti i giorni e più fumettistica. 
Ho ucciso Napoleone non è iscrivibile in quel genere di commedie “che fanno ridere ma fanno anche riflettere”. Quella di Giorgia Farina è una commedia leggera, che si ferma in superficie e lascia poco spazio alla riflessione. Il vero problema, d’altro canto, è che non fa nemmeno ridere. A parte in qualche raro momento, i tempi comici e l’enorme potenziale del cast non sono mai pienamente sfruttati. Le stilizzazioni dark, noir e potenzialmente pulp si confondono in un frivolo calderone pop da commediola americana anni ’80. La regista perde l’occasione di mettere in scena un personaggio femminile atipico per il cinema italiano, che ci ha abituato a vedere le donne come femme fatale, come sante (madri, mogli o figlie) comunque subordinate al personaggio maschile di turno. Complice anche la Ramazzotti che, purtroppo, non riesce a reggere il peso del suo personaggio.
Nel film nessuno è come sembra, tranne la protagonista stessa, che stronza era e stronza rimane anche alla fine della sua crociata personale, pur attraversando diversi stadi. Il ribaltamento diabolico nella seconda metà del film, però, non si avvale di armi narrative efficaci. Scatta così, di punto in bianco, senza aver seminato prima le motivazioni di questa svolta nella caratterizzazioni dei personaggi.  
Anche quando cerca di superare gli stereotipi del gentil sesso vittimista, finisce per crearne altri, quello degli uomini mammoni ad esempio, o delle stesse donne sull’orlo di una crisi di nervi che si imbottiscono di pillole dimagranti fino al coma farmacologico per affermare la propria femminilità. 
Prodotto da Angelo Barbagallo per la Bibi Film, insieme a Rai Cinema, Ho ucciso Napoleone è nelle sale dal 26 marzo in 270 copie.
 
Angelo Santini
 

Jeeg trionfa all'Isola del Cinema

Venerdì 29 Luglio 2016 20:39
Si è svolta mercoledì scorso nell’Arena de L’Isola del Cinema, presso l'Isola Tiberina, la cerimonia di premiazione del Premio Groupama Assicurazioni Opera Prima e Seconda assegnato a Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. Il premio, ideato dal main partner della XXII edizione de L’Isola e rivolto ai cineasti esordienti o alla loro seconda esperienza dietro la macchina da presa, è stato conferito da una giuria d’eccezione - composta da Gloria Satta (giornalista de Il Messaggero), Stefano Amadio (giornalista di Cinemaitaliano), Arianna Finos (giornalista de La Repubblica), Gabriele Niola (critico cinematografico per MyMovies), Antonio Urrata (direttore generale Fondazione Ente dello Spettacolo) – che ha decretato la pellicola vincitrice tra le sei in concorso: con Lo chiamavano Jeeg Robot, anche Assolo di Laura Morante, L’attesa di Piero Messina, La macchinazione di Davide Grieco, Pecore in erba di Alberto Caviglia, Suburra di Stefano Sollima. 
 
 
Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti vince con giudizio unanime il Premio Groupama Assicurazioni Opera Prima e Seconda, aggiudicandosi anche l'ambito Premio del Pubblico.
 
Assegnati anche i riconoscimenti speciali de L’Isola del Cinema a Claudio Santamaria, Greta Scarano, Giulia Elettra Gorietti, Giorgio Colangeli, Libero De Rienzo, Alberto Caviglia e agli sceneggiatori di Assolo
 
Nel corso della cerimonia, a cura di Francesca Piggianelli,condotta da Emanuela Tittocchia, sono stati inoltre assegnati i seguenti premi: 
 
•          Premio L’Isola del Cinema regista rivelazione: Pecore in erba di Alberto Caviglia
•          Premio L’Isola del Cinema per la migliore interpretazione maschile: Claudio Santamaria per Lo chiamavano Jeeg Robot
•          Premio L'Isola del Cinema per la migliore interpretazione femminile: Greta Scarano per Suburra
•          Premio L’Isola del Cinema miglior attrice non protagonista: Giulia Elettra Gorietti per Suburra
•          Premio L’Isola del Cinema miglior attore non protagonista: Libero De Rienzo per La Macchinazione
•          Premio speciale L’Isola del Cinema alla carriera: Giorgio Colangeli per L’attesa
•          Premio speciale L’Isola del Cinema alla sceneggiatura: Daniele Costantini, Laura Morante, per Assolo