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Visualizza articoli per tag: mommy

E' solo la fine del mondo

Domenica 04 Dicembre 2016 14:25
Il confine tra cinema e reale è di norma sottilissimo quando lo spettatore si trova innanzi ad una pellicola neorealistica, o ispirata a fatti realmente accaduti. Tuttavia vi è quasi sempre qualcosa capace di destarci da quel magnifico sogno affabulatorio, riportandoci al mondo reale. Si tratta di un momento particolarmente lento o poco coinvolgente che sovente ci distrae dal flusso di immagini a cui siamo sottoposti, allontanandoci anche solo per pochi istanti dal film. Il regista capace di raccontare una vicenda senza distogliere la concentrazione dello spettatore, e rendendolo partecipe attivo degli eventi, è un maestro nell'arte della narrazione su più livelli. È solo la fine del mondo è un film difficile e  spesso impegnativo, ma è a tutti gli effetti un esempio concreto di narrazione perfetta, la miglior prova registica di un vero talento. Xavier Dolan, a soli 27 anni e con già 6 pellicole di qualità alle spalle (tra cui Mommy vincitore a Cannes del Premio della Giuria nel 2014), dirige l'adattamento cinematografico di un noto dramma teatrale francese di Jean-Luc Lagarce.
Un progetto ambizioso e complesso, che mette a dura prova le capacità indiscusse del regista canadese. La sfida viene superata con successo e Dolan realizza un film indimenticabile, sfaccettato, passionale e brusco. Il linguaggio dell'opera teatrale è colorato e alle volte troppo particolare, difficile da riportare in un’opera cinematografica. Ma Dolan ne fa tesoro, e senza stravorgelo, inizia a redigere nel 2010 quella che diventerà la sceneggiatura di È solo la fine del mondo. La storia di Louis, giovane scrittore di successo, che dopo dodici anni decide di tornare a trovare la sua famiglia per comunicare loro una notizia molto importante. Ad attenderlo la vivace curiosità dei suoi cari, l’aggressiva voglia di sapere il motivo della sua visita, e quel misto di ammirazione e rancore segretamente insito in ognuno di loro. Inquadrature strette, dettagli su occhi velati da lacrime che come scrigni si fanno strada in una storia pregna di emozione, contrasto e sospiri, divenendo veicolo di comunicazione tra i protagonisti. Gaspard Ulliel in una delle sue interpretazioni più profonde e sincere, regala allo spettatore l’illusoria sensazione che il Louis da lui interpertrato esista davvero. E’ con i suoi occhi, protagonisti indiscussi di molte sequenze, che ci guardiamo attorno, seguendo le oscillanti traiettorie emotive tracciate dai suoi fratelli e dalla madre. Un Vincent Cassel incandescente convince appieno, offrendo un magistrale ritratto di irrazionalità e tormento. Parole, gesti, abbracci, e urla scorrono violentemente inondandoci di quella particolare suggestione, che solo i film palpitanti di vita riescono a trasmettere. Xavier Dolan dirige il suo sesto film in modo esemplare, concedendo il privilegio allo spettatore di vivere la vicenda intensamente, prendendone parte come se fosse realtà. E’ solo la fine del mondo è un’opera che vi inebrierà fino a consumarvi lentamente, colpendo nel profondo. A fare da contorno, una colonna sonora impeccablile in virtù della sua policromia, nettamente pop, tanto evocativa quanto ipnotica. Quello che uscirà nelle sale italiane il prossimo 7 dicembre è un film impetuoso e ammaliante, che ha il grande pregio di fuggire ogni sorta di patetismo, commuovendo per la sua estrema umanità. 
 
Giada Farrace

La mia vita con F. John Donovan

Mercoledì 26 Giugno 2019 17:09

Cosa dovrebbe rivelare un artista di se stesso? E cosa è davvero importante conoscere di lui? Il timore di non essere mai all’altezza delle aspettative degli altri porta ad un perenne senso di inadeguatezza, uno smarrimento che come un vortice isola dal mondo esterno.  La mia vita con John F. Donovan ruota attorno a questo tema che come un guscio anestetizzante ha circondato a lungo l’esistenza di John, portandolo alla perdita di senso nel suo reale. Nel film, a narrarci la storia di Donovan è l’attore ventenne Rupert Turner, che in una lunga intervista in occasione dell’uscita del suo primo libro, decide di parlare della corrispondenza epistolare avvenuta circa dieci anni prima tra lui e la star americana.  Nelle lettere spedite a Rupert, Donovan confidava apertamente i suoi turbamenti, le continue frustrazioni dinnanzi ad una vita costruita sulla base dell’accettazione altrui. Il rapporto a distanza tra i due, sancì qualcosa di molto più importante di una pura amicizia epistolare, portando al disvelamento di alcuni aspetti finora tenuti all’oscuro. Il settimo film di Xavier Dolan è probabilmente quello che più cerca di discostarsi dai suoi precedenti lavori, tentando di fare da spartiacque con la pregressa filmografia. Dopo un’accoglienza piuttosto tiepida a Toronto, accompagnata da numerose disapprovazioni da parte della stampa internazionale, finalmente ci è possibile rintracciare le tanto chiacchierate debolezze di questo film. Partendo da una succinta analisi della trama, si arriva alla conclusione che i continui rimaneggiamenti della sceneggiatura da parte di Dolan e del suo co-sceneggiatore Jacob Tierney, di certo non hanno giovato sul risultato complessivo. Si pensi infatti, che il film è rimasto per circa due anni e mezzo in disparte, un po’ per i molteplici progetti di Dolan e un po’ per alcune incertezze sulla storia e sui personaggi. Ebbene, tali incertezze tornano a galla in modo prepotente nella versione finale del lavoro. Ciò che si evidenzia è pertanto un’intensità che vacilla gradualmente nel corso del film, fino a perdere totalmente equilibrio. La tempesta visiva tipica del cinema di Dolan è qui riconfermata, ma è la sola a restituire sensazioni che purtroppo i personaggi e le scene non riescono a trasmettere. La forza dell’immagine è il vero fulcro del film perché incanta e ammalia, lasciando però poco spazio ad altro. Anche se si è lontani dalle atmosfere e dalla tensione emotiva di un’opera sincera come E’ solo la fine del mondo, alcune di quelle istantanee continuano ad essere presenti nel cinema del regista. La presenza costante di esse, finisce in alcuni casi per creare un’assuefazione pericolosa per lo spettatore, soprattutto se quello che viene narrato non ha uno scheletro ben definito. La sensazione che il tutto evapori è tangibile dalle primissime scene, in cui Kit Harington, bello da bucare lo schermo, non riesce ad andare a fondo e a risultare pertanto adatto al ruolo. Da ciò deriva quel mancato senso di empatia che lo spettatore percepisce da subito, sentendosi incapace di avvicinarsi davvero ai personaggi (un aspetto che può apparire improbabile ed estraneo a chi ha finora amato i film pregni di forza e sentimento di Xavier Dolan, ma che si presenta con evidenza in questo lavoro). Tra gli aspetti positivi, è imperdonabile non dedicare una menzione speciale al piccolo Jacob Tremblay, vera perla del film, capace di rapire anche solo con uno sguardo. Nel cast anche Natalie Portman, nel ruolo della madre di Rupert, una presenza che aggiunge intensità al racconto passato del giovane, ma il cui personaggio poteva essere affrontato meglio e con una sensibilità differente. Susan Sarandon si trova invece a fare i conti con il ruolo di un'altra madre, quella di Donovan, donna solare e allo stesso tempo sfacciata, con un bizzarro rapporto con l'alcol. Ma il fiore all'occhiello resta il cameo di Kathy Bates, nei panni dell'irriverente manager di Donovan, capace di restituire al film un prezioso respiro cinico e ironico. Quel che è certo, è che il vero protagonista del racconto è in assoluto lo sguardo, ancora una volta cuore pulsante e motore di molte scelte stilistiche di Xavier Dolan, autore-tessitore di intrecci visivi che quasi sempre centra il bersaglio.

Giada Farrace