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Corpo Celeste

Giovedì 14 Luglio 2011 15:11

Un esordio notevole che ricorda i "primi" Dardenne

Applaudita a Cannes, e pluripremiata con il "Nastro d'argento " e con il "premio Amidei" come migliore regista esordiente,  l'opera prima di Alice Rohrwacher CORPO CELESTE è senz'altro uno dei migliori esordi degli ultimi anni .

La regista, neanche trentenne, non vanta una lunga esperienza. La vediamo prevalentemente alle prese con il montaggio di documentari in passato. Chissà che non sia stata proprio quest'esperienza            nell'ambito documentaristico a donarle la straordinaria abilità di "saper guardare". La storia, infatti, si snoda silenziosa, ma carica di una "sana rabbia adolescenziale", tra i mille dettagli che fanno sentire ancora di più che dietro la macchina da presa c'è una donna.

Un esordio che in qualche modo ricorda i primi fratelli Dardenne di "Rosetta" e "L'enfant", in modo particolare per la capacità di spiare quella vita quotidiana, che da sola basta a raccontare una generazione, una terra, una fede.

Protagonista del film la piccola Marta, che dopo aver vissuto per un periodo in Svizzera torna con la mamma (Anita Caprioli) e la sorella, a Reggio Calabria. Qui ci presta i suoi occhi per guardare in faccia una comunità cattolica "brutta" a tal punto da diventare grottesca e un'immensa periferia fatta di cavalcavia e tristi fiumare, che accrescono quella sensazione di desolazione e freddo che accompagna tutto il film.

Si è parlato inoltre, ancor prima dell'uscita in sala, di un'opera di denuncia verso la chiesa, e la regista stessa ha così smentito “Non volevo offendere la Chiesa, anzi, sono un’ammiratrice di padre Giacomo Panizza delle Comunità Progetto Sud e se dovessi scegliere tra Chiesa e tv, per mia figlia Anita che sto crescendo come atea, direi Chiesa”

Effettivamente, la sceneggiatura stessa non mette in evidenza critiche troppo forti, ma nonostante questo lo spettatore non può esimersi dal fare una riflessione intima e onesta sulla chiesa e i suoi apparati.

Renilde Mattioni

iI cigno nero

Giovedì 18 Agosto 2011 14:07

Lo sguardo incrocia l’oscuro infinito. Specchi, finestrini, superfici riflettenti che mostrano qualcosa di inquietante, più lo si mette a fuoco e più diventa perturbante perché sempre più familiare, intimo, è la nostra immagine! 

Il doppelgänger si stacca dal suo corpo, indossa scarpe da balletto, si muove a passi di danza, quelli del cigno, nero. Oscuro e seducente, umano tra gli umani, in vita per la morte, in un lago di cigni, in un lago di sangue.

L’incedere incerto, intimorito di una macchina da presa che va incontro a qualcosa di spaventoso, gli sta addosso, ci vuole avvertire: guarda che non è come sembra! Guardiamo ansimanti, palpitanti, è un balletto, eppure noi stiamo così, in una di quelle paure gelide, paure senza oggetti delle paure, agghiaccianti, pugni nello stomaco, fiati spezzati, respiri mozzati, paura assoluta, totale e totalizzante.  Panoramiche risuonano tra le viscere.

Piume ispide come aculei, aghi, unghie come artigli che feriscono al passaggio ogni lembo di pelle. Una metamorfosi del corpo e della mente per accedere all’ossessiva, impossibile perfezione, maligna, distruttiva, disumana.

 

Negli anni ʽ80 fu David Cronemberg con La Mosca, remake del film L'esperimento del dottor K del 1958, a mettere in scena un Body Horror, con Jeff Goldblum in una metamorfosi distruttiva frutto dell’ossessione del riconoscimento sociale e della fama. Cigno e Mosca, una ballerina e una scienziato, corpi disumanizzati, menti oscurate, l’umano non umano.

Noi, la nostra immagine e corpo ovunque intorno. Una trasfigurazione, Io e l’altro, ma sempre io... qualcosa ci spaventa di noi, non si vede, solo percezione, sentore e monito, tangibile come un respiro, tocca le corde, i nervi, scorre dentro.

Volti disegnati ci seguono con lo sguardo e perseguitano, la mia immagine come un’ombra. Ho paura di me. Ma mi cerco. La paura di se stessi è protagonista.

Cigno nero e cigno bianco, carnefice e vittima nella stessa immagine, rappresentazione e materializzazione. Pensiero, configurazione infine metamorfosi di uno schizofrenico fantasmatico. 

Il Cigno nero, metamorfosi nella gemella malvagia, il lato scuro, freddo dell’anima esce fuori, pesante, ci schiaccia, sovrasta, lo fa in punta di piedi,  a passi di danza leggeri.

Bianchi spettrali, neri di morte, rossi di sangue, specchi non anonimi e riflettenti, ma rivelatori. Non esorcizza, Darren Aronofsky mette in scena: la morte del cigno, la morte dell’umano, la ricerca di una paranoica perfezione.

 

Disarmante, inquietante eterea bellezza, Natalie Portman è Nina, ballerina ambiziosa, partoriente della sua anima maligna, aiutata da braccia forti, quelle di Vincent Cassel, diavolo tentatore a sussurrare  “l’unico ostacolo al tuo successo sei tu. Liberati da te stessa. Perditi Nina”, e da una madre, utero incapace di espellere definitivamente la sua progenie e i suoi fallimenti.

E Lily, il sesso, edonistica ossessione. Spudorata calamita, attrazione e repulsione dell’Es freudiano.

Il carillon non basta più in un mondo abitato da presenze perturbanti, inquietanti e specchi, finestre aperte su un baratro oscuro. La storia della ragazza che si tramuta in cigno si tramuta essa stessa nelle mani di Aronofsky. 

Horror, thriller, noir, erotico, in una parola viscerale, dispiegamento allucinatorio dell’inconscio, fantasmi interiori, pulsioni, paure e desideri, Nina è l’Essere nudo e crudo, impuro, inerme, disperato, “la bambina non esiste più”.                                                                   

 

Lidia Petaccia

 

Video Festival Imperia

Lunedì 12 Settembre 2011 17:30

scadenza del bando: 16/01/2012


Il Festival è diviso in quattro categorie suddivise in sezioni:
Professionisti: sezioni film, documentario, animazione
Amatori: sezioni: lungometraggio, cortometraggio, documentario, animazione, video-album, videoclip, scuole
Internazionale: sezioni, film, documentario animazione
Explorer: sezioni documentario Turistico, documentario Naturalistico, Fil...mare

mese dell'evento: aprile 2012

QUOTA DI PARTECIPAZIONE: gratis

premi:
"Silver Frame", targhe personalizzate Video Festival

modalità d'iscrizione:
Scaricare e compilare la scheda di iscrizione e allegarla alla spedizione dei propri lavori su dvd.

Compilando il modulo facoltativo e allegando un ulteriore dvd si avrà la possibilità di ottenere il passaggio dell'opera iscritta sulla nostra emittente locale "Imperia TV".

link da cui scaricare la documentazione per l'iscrizione:
» http://www.videofestivalimperia.org/index_file/modulistica.htm

Tomboy

Domenica 16 Ottobre 2011 23:16

 

Ieri sera al Nuovo Sacher ho visto questo piccolo, breve, delicatissimo film francese presentato con successo a Berlino e in diversi festival minori. Fortunatamente e inconsapevolmente è stato proiettato dai bravi esercenti morettiani in versione originale e dico fortunatamente perché se il doppiaggio è sempre da evitare lo è ancora di più quando si tratta di film con bambini protagonisti, le loro espressioni molto naturali non possono subire un doppiaggio in studio da parte di altri bambini. E’ assurda la sola idea.

Tomboy è il protagonista e ha 10 anni. Tomboy è un nomignolo. Il nome vero è Laure o Mikael. Tomboy è un termine pressappoco simile a quello che a Roma si usa per “maschiaccio” rivolto alle ragazzine con atteggiamenti maschili nel vestirsi, nella scelta dei giochi, nel parlare. Tomboy sta scegliendo la propria attitudine sessuale e nemmeno lo sa, forse. Tomboy lo capisci subito dal titolo che la regista decide di offrirci su sfondo nero prima con la scritta azzurra, poi rosa e poi finalmente alternata azzurra e rosa. Colorata non monocromatica come è giusto che sia la natura dei bambini.

Il periodo di svolgimento dell’azione è molto breve, dura meno di un’estate quella in cui i genitori che attendono un nuovo bambino, la sorellina Lisa e Tomboy si trasferiscono in nuovo appartamento. Anche in questo è bravissima Céline Sciamma: a non prolungare troppo la fase di “osservazione” nella vita di Tomboy. E’ un breve periodo, cruciale della vita del protagonista che ci permette di seguirne con la mdp attaccata al corpo movenze, reazioni, giochi, pensieri, senza troppe filosofie. Solo il quotidiano. C’è un’altra grandissima protagonista nella storia di Tomboy e badate bene non è Jeanne la ragazzina grande che inevitabilmente si “innamora” di questo nuovo arrivato, ma la sorellina Lisa. Straordinaria sia per come “recita” ma anche fondamentale nel ruolo. Lisa è l’unica che non si chiede perché Laure abbia deciso di “essere” Mikael. Lo accetta perché le vuole bene, si fida di lei e non ha la malizia e soprattutto il preconcetto dei grandi. E fra i grandi oltre a mamma e papà (più tenero e gentile sicuramente rispetto alla reazione materna in quanto “maschio” e potenzialmente più vicino al sesso che sta scegliendo la figlia) purtroppo ci sono già anche i coetanei di Tomboy... è con loro il vero confronto.

Naturalmente non dico nulla di più ma il finale scelto dalla giovane Sciamma è assolutamente da condividere, senza scene madri o forti, vero e bello come tutto il film. Direi che ricorda molto il finale dell’ultimo film dei fratelli Dardenne “Le gamin au vélo”.

E non è poco... tutt’altro.

Marco Castrichella


 

FAUST

Giovedì 03 Novembre 2011 22:37

Proverò a raccontare se non tutte almeno una parte delle sensazioni e impressioni ricevute ieri sera durante la visione del nuovo film del regista russo che appena un mese fa si è aggiudicato il Leone d’oro a Venezia come miglior film. Ho esordito dicendo “proverò” perché gli argomenti e le sollecitazioni che riempiono quest’opera sono molteplici e tutte da considerare.

Il “Faust” chiude la tetralogia sugli uomini e il Potere anche se quest’ultima è ispirata a un personaggio letterario mentre i precedenti tre film erano su personaggi storici realmente esistiti e di rilevanza politica assoluta per il XX secolo: prima “Moloch” (1999) sulla figura privata di Hitler in compagnia di Eva Braun quindi “Taurus” (2001) sugli ultimi giorni di vita di Lenin e infine “Il Sole” (2005) sui giorni della resa giapponese vissuti dall’imperatore Hiroito. Quindi la chiusura con “Faust” naturalmente ispirato al dottore protagonista della tragedia di Goethe. Nella tragedia alla quale Goethe lavorò per tutta la sua vita, il dottor Faust viene avvicinato da Mefistofele che gli promette di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare che quell'attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust da scienziato assetato di sapere e sicuro di se come solo i luminari lo sono, accetta. Il diavolo gli fa conoscere la giovane Margarete la quale si innamora di Faust, inconsapevole del fatto che la carica di Faust è dettata soltanto dal dominio della materia e dalla ricerca del piacere. La sorte di Margarete sarà tragica.

Il regista Sokurov non si discosta molto dal sentiero goethiano ma naturalmente interviene con il suo sguardo, il suo stile inconfondibile, la fotografia così livida e grigia (bravissimo Bruno Delbonnel) che già aveva segnato i precedenti film e che qui trova magicamente la migliore rappresentazione: prima fra grotte cupe, luride che all’occasione da bettole e cucine si trasformano in luoghi per visite mediche e operazioni di vivisezione anatomica, in un borgo tedesco che tanto ricorda quelli narrati da Werner Herzog in Woyzeck o Kaspar Hauser, ma poi in viaggio fra torrenti, boschi e rocce lavate da acque gelide e va detto che la scelta delle locations sia tedesche che islandesi è stata particolarmente curata con degli scenari suggestivi incredibilmente affascinanti e selvaggi.

Il film inizia dove finisce il precedente “Il Sole” vale a dire fra le nuvole dove forse un Dio c’è ed è quello della originaria scommessa con Mefistofele... e poi giù a picco a conoscere l’uomo Faust le sue idee sulla ricerca dell’anima in una scena mostruosamente cruda e violenta. Se Faust non viene visto da Sokurov come l’uomo più affascinante e crudele del mondo (ma in effetti lo è) Satana è realmente brutto come il diavolo mostrato nudo e deriso dalle donne nella splendida scena delle fontane, nella quale vediamo (e Faust vede per la prima volta) Margarete, la fanciulla incredibilmente bella e soave come gli angeli in un dipinto del Cinquecento. La mdp segue i personaggi e come in Arca Russa li avvolge, con un sottofondo appena percettibile di una potente musica sinfonica, doveroso anche qui citare l’autore Andrey Sigle, e soprattutto i personaggi del “Faust” di Sokurov parlano, declamano, dicono moltissimo, la storia non ha misteri è un fiume di dialoghi nella migliore tradizione della cultura russa. Lo script di Sokurov è una sceneggiatura esemplare, ricchissima, completa per forma e contenuti che associata al girato genera il capolavoro.

Faust, sebbene frutto di fantasia, è personaggio quanto mai legato al potere, alla bramosia di successo, di immortalità. Quindi molto aderente ai tempi che viviamo e che, se vogliamo, racchiude da solo i tre leader all’inizio nominati soggetto per la tetralogia di Sokurov. e molti altri ancora che ancora siedono sulle poltrone del potere. Basti pensare a un Putin vista la nazionalità del regista, o anche a un Berlusconi o un Sarkozy qualunque. E ci metterei anche il più grande “Belzebù” ancora vivente, il nostro senatore Giulio il Divo.

 

Marco Castrichella

J.EDGAR

Sabato 07 Gennaio 2012 17:54

Prima visione del nuovo anno con il buon vecchio Clint Eastwood che ritorna al biopic o meglio alla riscrittura della recente Storia americana. Dopo un paio di film intimisti (l'ultimo "Hereafter" addirittura sul contatto dei vivi con la morte) torna sul suo terreno preferito, quello che gli permette ricostruzioni con documentazioni storiche accurate con tanto di costumi e scenografie impeccabili. Riconosciamo da subito il Clint di film come "Bird" o "Invictus" e ancor di più del dittico su Iwo Jima. Per la sceneggiatura si avvale questa volta del giovane Dustin Lance Black lanciato a Hollywood dallo script di un altro biopic importante vale a dire "Milk" diretto da Gus Van Sant.
Eastwood accetta e si imbarca in un racconto a piani temporali alternati per cui costantemente subiamo sbalzi cronologici piuttosto difficili da digerire soprattutto per l'effetto "trucco" sui tre protagonisti principali della storia. I tre attori diciamolo subito a scanso di equivoci sono in stato di grazia: Di Caprio / J.Edgar Hoover è monumentale e regge sulle spalle buona parte del lungo film (135 minuti), Naomi Watts / Helen Gandy rinuncia a qualsiasi connottato da bellissima per intepretare la fedelissima segretaria che accompagnerà J.Edgar dall'inizio alla fine, e infine Armie Hammer / Clyde Holson braccio destro di Hoover nemmeno troppo segretamente di lui innamorato ma non corrisposto, sebbene appagato da intere giornate, pranzi e divertimenti condivisi con la sua anima gemella. L'omosessualità repressa di Hoover è presentissima nelle disgressioni eastwoodiane nell'Hoover privato, quello che nessun americano ha mai potuto conoscere visto che i dossier li ha inventati proprio lui.
Edgar J. Hoover è un personaggio se vogliamo molto simile al nostrano "Divo" Giulio, un uomo che dal 1924 fino alla morte (nel 1972) è stato direttore della F.B.I. sopravvivendo a ben otto Presidenti degli Stati Uniti d'America. Quando il Presidente Coolidge lo mise a capo del Bureau il servizio investigativo federale contava appena 600 agenti, disarmati e inefficienti ai fini di qualsiasi inchiesta quanto un burocrate di secondo piano. Con Hoover il reparto arrivò negli anni sessanta a 6.000 agenti e negli anni Hoover approntò il più efficiente archivio di impronte digitali, di dossier personali e laboratori scientifici puntualmente usati per processi di qualsiasi tipo, soprattutto per quelli politici. Di dichiarati ideali conservatori spesso agiva al limite e oltre le regole per ottenere il risultato finale, sempre lo stesso: l'annientamento dei potenziali "nemici" della democrazia americana.
Tutto questo a onore di Eastwood viene fuori anche se in modo caotico e a volte stucchevole: c'è infatti quel lato personale che tutto sommato permette allo spettatore di impietosirsi di fronte al rude e spietato G-Man. Che poi tanto coraggioso non è... sempre in seconda fila, un vigliacco forse, che ha bisogno di una scrivania rialzata per sentirsi superiore ma anche di fumetti, interviste, biografie inventate che ne narrano improbabili arresti di temibili gangsters.
I saliscendi narrativi sono il sale ma anche il limite di questo film: curatissimo ma frettoloso in alcuni passaggi fondamentali, dilatato, melenso e ripetitivo in altre situazioni, leggi il rapimento del figlio di Lindbergh o le scenne con la madre (una impeccabile Judi Dench). E poi come dicevo all'inizio il "racconto" della latente omosessualità del protagonista diventa troppo rilevante rispetto all'altissimo interesse della biografia, un po lo stesso errore che segnò a mio parere "Bird" film meraviglioso ma troppo incentrato sul rapporto di Charlie Parker con la droga.
Colonna sonora del tutto assente con un unico tema al piano, naturalmente dello stesso Clint. Anche qui un eccesso, stavolta di assenza.
Nota di merito al Fiamma che ha programmato il film nella sala grande doppiato e per noi "pochi" puristi una splendida versione originale in sala 3.
La più bella sala 3 di Roma.

Marco Castrichella