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The Happy Prince

Giovedì 22 Febbraio 2018 13:31
E’ parecchi anni che Rupert Everett ha in mente di girare un film su Oscar Wilde. Addirittura si mormora che abbia blindato Colin Firth per il personaggio di Reggie Turner, ancora prima dell’Oscar e della fama, che ha investito il protagonista del Discorso del Re. Quindi ci si aspettava un’opera riuscita o comunque che facesse buona luce sugli ultimi giorni di vita dell’immenso artista irlandese. Purtroppo la scrittura e la regia di Everett, che interpreta lui stesso Wilde, è confusa. Visione ridondante e a tratti un po’ stucchevole. La sua non dimestichezza con la camera da presa si nota fin troppo. Il mix viaggio mentale e presente (i due strati narrativi del film) imprigionano nuovamente lo scrittore, come nella pellicola stessa, in un loop oscuro e sinceramente non edificante. I raccordi registici non sono il suo forte. Per carità, raccontare la depressione comporta già di per sé l’immersione in un contesto greve, ma l’eccessivo uso di ricami sconfortanti, non rendono grazia all’indiscussa purezza d’animo del drammaturgo, scomparso nel 1900.
 
The Happy Prince ci immerge, come appena accennato, nel periodo finale della vita di Oscar Wilde. Lasso di tempo contrassegnato dall’esito negativo del processo a suo carico per “gross public indecency”. Con questo termine veniva identificato il procedimento penale contro l’omosessualità. Condannato a 2 anni di carcere, Wilde ne esce a pezzi. Tutto il successo avuto in passato viene spazzato via in un lampo. Il suo teatro bandito e soltanto dei frammenti del suo genio lo aiutano a barcamenarsi tra pochi intimi. A Parigi, dove si è trasferito dopo la prigionia, riesce ad allietare le giornate e gli animi di due poverelli con delle fiabe. La moglie Costance (Emily Watson) non ne vuole più sapere e la strada che lo porta ancora una volta verso Lord Alfred Douglas (Colin Morgan), suo storico pupillo, si rivela sbagliata e non costruttiva. Tra le vie della capitale francese barcolla schiacciato da un’inaspettata povertà. Si ritrova seduto sotto la pioggia, fuori da un bar, sperduto e senza l’ombra di un soldo per pagare il conto (evento realmente accaduto). Rincasa in un albergo da quattro soldi, con il buio nel cuore, dove lo aspettano i suoi spettri e una imminente dipartita. Gli affetti di una vita gli sono vicini: Reggie Turner e Robert Ross (Edwin Thomas). Il primo grande amico, il secondo amante, entrambe lo spronano a reagire, ma Wilde è convinto che la forza della sua scrittura e l’amore legato ad essa lo possano salvare. Ma l’autodistruzione prende il sopravvento e si perde irreparabilmente in se stesso.
 
Everett non racconta con adeguata dimestichezza il personaggio Wilde. Riesce in qualche scena, quella della stazione è ben strutturata, a far intravedere l’uomo, finalmente raccontando nel profondo. Si blocca subito dopo: tante micro situazioni disconnesse tra di loro (narrazione zoppicante), della sua memoria, non creano il fil rouge adeguato. Lo spettatore deve sforzarsi a connettere le immagini, cosa alla quale dovrebbe pensare il regista. Non crea omogeneità. Il grado di nobiltà di Wilde e la sua lotta morale contro l’ingiustizia si intravedono solo in lontananza.
 
Tecnicamente troviamo qualche buon risultato. La fotografia è allineata ai colori e alle luci dell’epoca. Il punto più alto è la vista sul golfo di Napoli, resa calda e poetica. I costumi sono curati. Tutti i protagonisti indossano abiti di pregevole sartoria, che rendono grazia alla borghesia di fine ottocento.
 
The Happy Prince, dopo anni di rinvii dovuti alla scarsità di fondi, ha visto la luce grazie alla tenacia e alla passione verso Oscar Wilde di Rupert Everett. Il regista ha avuto l’ardire di sviscerare una parte dell’esistenza del poeta, poco nota al grande pubblico. Questa infelice parabola meritava qualcosa di più. Un tono più irriverente ed impetuoso, in linea con il carattere del saggista. Nella visione (annebbiata) del regista britannico, Wilde muore sì per amore, ma non ne si sente il trasporto. Anche i personaggi di contorno risultano poco incisivi e non rafforzano la causa.
 
David Siena