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Visualizza articoli per tag: shame

SHAME

Martedì 24 Gennaio 2012 13:34

Attesissimo da settembre, dall'ultimo Festival di Venezia, arrivato in sala e finalmente visto ieri sera il secondo film del giovane regista inglese Steve McQueen del quale forse non si sa molto ma del quale sicuramente resta impossibile dimenticarne il nome.
Impossibile da dimenticare anche il titolo del film e finalmente un applauso alla BIM che lo ha distribuito senza aggiungere, tradurre o manipolare nulla. Un titolo che racchiude come vedremo l'essenza del film. Secondo plauso agli amici del Nuovo Sacher che hanno aumentato a due i giorni di proiezione in versione originale del film e questa per i puristi del Cinema è gioia vera, inoltre lunedì e martedì sono anche a mio avviso i due giorni più belli per frequentare le sale.
Detto questo tornerei alla presentazione dell'autore di "Shame", il giovane englishman di origine africana dal nome e cognome così hollywoodiani. Steve McQueen si era presentato quattro anni fa vincendo la Caméra d'Or per la migliore opera prima al 61° Festival di Cannes con "Hunger" ispirato alle ultime settimane di vita di Bobby Sands, interpretato dal tedesco Michael Fassbender all'epoca ancora poco conosciuto e che anche in "Shame" è protagonista assoluto della storia e della scena.
"Shame" è totalmente ambientato a New York e narra la via senza ritorno di Brandon, un uomo totalmente in preda all'idea e alla pratica del sesso. La sua "malattia" del sesso è vissuta in maniera insaziabile con prostitute, donne e uomini occasionali, riviste, siti hard o addirittura in momenti inaspettati da solo sotto la doccia o andando a urinare durante una pausa di lavoro. Chi aprirà la valvola alla pressione della macchina-Brandon sarà l'arrivo in città della sorellina Sissey, una fragile, dolcemente ingrassata Carey Mulligan che ha molti aspetti in comune con l'Irene di "Drive".
Come "Hunger" anche "Shame" è ambientato in uno spazio temporale estremamente ridotto e ha una connotazione fortemente "British" a cominciare dalla fotografia e dalla non-necessità di esplicare tutto con la sceneggiatura. Ecco. Ho appena fatto riferimento a uno degli elementi che daranno a questo film il mio alto gradimento: se forse il plot di "Shame" è fin troppo chiaro e privo di colpi di scena è vero che molte inquadrature (e almeno tre o quattro in particolare) sono splendide evocazioni e suggestioni che il regista ci da l'opportunità di riuscire a cogliere in perfetta autonomia di visione grazie a una fotografia asciutta, primi piani soffertissimi e mai "lacrimosi", carrellate sulle vie di una New York notturna che dai tempi di "After hours" di Scorsese non rivedevo (e che mi chiedo se Woody Allen abbia mai vista) e infine a una scelta delle musiche, sia quelle originali di Harry Escott che i motivi classici di J.S.Bach, che danno un senso doloroso ma profondamente spirituale al calvario di Brandon.
Brandon è incapace d'amare e addirittura di corteggiare. Se ci prova fallisce anche in quello che è il suo "impegno" quotidiano, la sua attività principale. L'unica persona che può farlo piangere o arrabbiare è Sissey che in una bellissima e jazzata versione di "New York, New York" riuscirà anche a smuovere quella pietra di suo fratello. Si, perché il testo di questa canzone che tutti noi fischiettiamo allegramente è in realtà il rovescio della medaglia di una città che dietro le luci e i divertimenti a portata di mano nasconde gli affanni e le frustrazioni di tante singole persone.
Altro grande merito del film oltre allo stile artistico e alla bravura di un Michael Fassbender giustamente premiato con la Coppa Volpi è senz'altro la scelta più che coraggiosa del soggetto. Se fino a oggi la sesso-mania o comunque la necessità del sesso come unico elemento vitale per nascondere altre mancanze era stata narrata (e in alcuni film anche molto bene) in versione di legame di coppia ecco che il regista inglese focalizza il tutto su un solo personaggio che sicuramente qualcosa di brutto nella propria infanzia avrà pur vissuto (lo si intuisce da una frase della sorella nel finale del film "Noi non siamo brutti, siamo cresciuti in posti brutti").
Se capolavori come "L'impero dei sensi" o "Ultimo tango a Parigi" e più recentemente "Une liaison pornographique" o anche "Intimacy" hanno splendidamente raccontato questo tema riguardo la coppia, non ricordo film di questo livello puntati su un singolo, sulla dipendenza dal sesso in una realtà solitaria come quella vista ieri sera in "Shame".
La disperazione di un uomo che anche quando per un attimo o per un giorno decide di buttare via tutto per pensare ad altro, non trova niente intorno che possa sostituire la "droga" della quale è ormai schiavo. E come per i drogati incalliti non c'è più soddifazione neanche appena assunta l'ennesima dose ma solo all'idea di procurarsela così in quel preciso momento, in quello che dovrebbe essere il momento del godimento, del piacere c'è la smorfia di dolore di Brandon.
E della sua infinita solitudine. Chapeau!

Marco Castrichella

12 anni schiavo

Domenica 02 Febbraio 2014 15:53
Quanto è illuminante quel grande monomaniaco di Harold Bloom, il bardolatra per eccellenza, quando parla di Shakespeare!
A lui, in particolare con la creazione di Amleto, attribuisce il merito, fra le altre enormi cose, di rispondere al nostro “bisogno di identità” e a ciò i filosofi attribuivano al Socrate secondo Platone o a Gesù, secondo Marco, un personaggio letterario, venerato come Dio. Amleto, secondo Bloom, è l’autocoscienza dell’occidente e Orazio lo perdona per indefesso amore, noi lo perdoniamo perché sappiamo che potremmo essere come lui, anzi no, una parte piccola di quella grande consapevolezza. Ma potremmo essere anche come Riccardo III che non esita ad ammazzare bambini che si frappongono fra sé e ciò che va fatto.
La consapevolezza di Amleto è quella degli impulsi nietzschiani che straziano l’essere umano fra una trascendenza impossibile e una inaccettabile immanenza. Quella di Riccardo è diversa, è una morale dell’utile che non ci è così lontana: le conosciamo bene quell’avidità, quella bramosia, quella volontà di riscatto, costi quel che costi. Non faremmo (non faremmo?) come lui, ma sappiamo di cosa si tratta, perché la dicotomia buono/cattivo è roba da talk show e la morale, Kant ce lo insegna, è una cosa seria.
“12 anni schiavo” che non ha la grandezza intimista e dolorosa di “Shame” né la forza visiva dirompente dei liquami desadiani di “Hunger”, è però un film profondamente shakespeariano e dunque, come naturale conseguenza, antiretorico, riuscito.
Senza voler dimostrare, McQueen mostra: mostra un uomo nero, ma libero (ciò non è antistorico, ma dipendeva dalla legge dei singoli stati), a cui nulla cale della sorte di uomini neri come lui, ma incatenati. Mostra uomini bianchi nell’atto dello scambiarsi la mercanzia, privi di compassione. E poi, dopo circa un’ora di narrazione, sposta la lente sul vero protagonista del film, anche solo in virtù dell’ennesima gigantesca, mimetica performance di Michael Fassbender, della sua storia di neri: l’uomo che si pensa come bianco, lo schiavista atroce, il vigliacco eugenetico della frusta. Tuttavia lo eleva, lo rende altro da quella crudeltà che sferza, più violenta ancora, nei primissimi piani insistiti, dolenti di Mr. Epps: lo rende umano, simile a noi, fisico e terragno, persino, inconcepibilmente, seducente in quella fisicità ferina.
Non lo assolve, chiaro. Come potrebbe? 
Il cinema di McQueen, del resto, non ha bisogno della lezione morale, dell’enfasi, delle sottolineature drammatiche e neppure dell’overacting, abiurato in nome di una compostezza formale impeccabile, ancor più straziante nella sua limpida dignità: non ce l’aveva quando raccontava le gesta erotiche di Brandon Sullivan e neppure, narrando la salita al laico Golgota di Bobby Sands, colui che temeva la morte, ma non aveva paura di morire.
Ma come quelli ci parlavano, chiaro e forte, Edwin Epps ci parla. Nella sua scissione profonda fra subcultura della razza e natura delle passioni, una divisione che ne acuisce la rabbia, ma, al contempo, il dolore, “12 anni schiavo” racconta un eterno presente, guardandoci dritto negli occhi, non delegando nulla al fuori scena o a qualche rassicurante conversione. La poltroncina sotto il sedere dello spettatore deve bruciare perché non è certo cinema da salotto questo: è piuttosto cinema di urgenze, di conflitti vividi, come il rosso-arancio della fotografia, allo stesso tempo sudata, marcia e splendidamente caravaggesca. 
Cercare qui una trattazione pedissequa sulla schiavitù sarebbe come cercare in “Amleto” solo una disamina sulla corruzione, insita in ogni umano potere, tralasciando i becchini, Orazio, Ofelia. Tralasciando l’essenza vera di Amleto.
E risulta dunque funzionale, quasi doveroso, senz’altro logico, dopo tanto dolore, il discusso deus ex machina, inserito repentinamente a risolvere una “piccola” vicenda biografica: lo faceva anche Euripide, non a caso il più realistico e simpatetico dei classici greci.
Perché le schiavitù invece, lo cogliamo negli occhi splendidi di Solomon (eccellente il raffinato interprete londinese Chiwetel Ejiofor) , e lo sappiamo bene, guardando alla storia, anche a quella del nostro tempo, non sono mai finite.
 
Ilaria Mainardi