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Kore-eda apre la Mostra del Cinema

Giovedì 18 Luglio 2019 22:38
La Vérité di Kore-eda Hirokazu sarà il film di apertura della 76esima Mostra del Cinema di Venezia
che inaugura il Concorso ufficiale.
 
 
La vérité (The Truth), diretto da Kore-eda Hirokazu (Un affare di famiglia; The Third Murder; Like Father, Like Son), si fregia di un cast importante con star internazionali del calibro di Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke.
Il regista, dimostratosi onorato di aprire la kermesse con il suo lavoro, spiega come le riprese si siano svolte lo scorso autunno a Parigi in dieci settimane. La storia, sviluppata quasi interamente all’interno di una piccola casa, narra le vicissitudini di una famiglia che si agita in un microcosmo  di menzogne, orgogli, rimpianti, tristezze, gioie e riconciliazioni.
Stando alle parole di Alberto Barbera, direttore della Mostra del Cinema,  “Kore-eda per il primo film realizzato al di fuori del suo Paese ha avuto il privilegio di poter lavorare con due grandi star del cinema francese. L’incontro fra l’universo personale dell’autore giapponese più significativo del momento, e due attrici tanto amate come Catherine Deneuve e Juliette Binoche, ha dato vita a una  poetica riflessione sul rapporto madre-figlia e il complesso mestiere d’attrice, che sarà un piacere presentare in apertura alla prossima edizione della Mostra del Cinema di Venezia”.
La vérité sarà proiettato in prima mondiale mercoledì 28 agosto nella Sala Grande del Palazzo del Cinema al Lido di Venezia.
 
 
Chiara Nucera

 

La SIC a Venezia 76

Venerdì 19 Luglio 2019 13:35
E’ stata presentata questa mattina la 34esima selezione della Settimana Internazionale della Critica (SIC), sezione autonoma e parallela organizzata dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) nell’ambito della 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia (28 agosto – 7 settembre 2019).
La sezione, composta da sette opere prime in concorso e due eventi speciali tutti in anteprima mondiale, è curata dal Delegato Generale della SIC Giona A. Nazzaro affiancato da Paola Casella, Simone Emiliani, Beatrice Fiorentino e Roberto Manassero.
I sette lungometraggi concorrono a due premi principali: Premio del pubblico, realizzato grazie al sostegno del Comune di Taranto; Gran Premio Settimana Internazionale della Critica, realizzato grazie al sostegno di SIAE – Società Italiana degli Autori ed Editori e assegnato da una giuria internazionale al miglior film in concorso. Inoltre, i film della sezione concorrono all’assegnazione dei seguenti riconoscimenti: Premio Circolo del Cinema di Verona, assegnato da una giuria composta da soci under 35 del Circolo di Verona e destinato al film più innovativo della sezione; Premio Mario Serandrei – Hotel Saturnia per il Miglior Contributo Tecnico, sponsorizzato dall’Hotel Saturnia di Venezia e assegnato da un’apposita commissione di esperti.
 

I film della SIC, come tutte le opere prime di lungometraggio presentate nelle diverse sezioni competitive della Mostra (Selezione Ufficiale e Sezioni Autonome e Parallele), concorrono all’assegnazione del Leone del Futuro – Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”. Una Giuria Internazionale assegnerà senza possibilità di ex-aequo un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore.
I membri della commissione selezionatrice tengono a precisare il carattere “politico” delle opere presentate, a passo con I tempi e con le tematiche al momento scottanti, si parlerà infatti di frontiere, integrazione, multiculturalità anche se non mancheranno accenni surreali tipici di un cinema che ha fatto scuola e soprattutto la delicatezza di uno sguardo femminile che si stacca da un coro di modi convenzionali di gestire il racconto. Giona A. Nazzaro ci tiene a sottolineare quanto questa selezione, ma in generale l’intero lavoro della SIC, occupi un posto ben preciso nel dibattito politico attuale con alcuni film che sicuramente poco piaceranno “a Trump o Salvini”. Il compito di seleizione è durato mesi e sono state visionate circa 400 opere da tutto il mondo, per arrivare alla scrematura definitiva che verrà presentata al Festival. Ci si augura che tutti questi lavori, che da uno sguardo iniziale sembrano decisamente molto convincenti, possano trovare una distribuzione anche nei circuiti tradizionali, perchè come sottolinea Paola Casella, si è cercato di badare non solo all’importanza e alla bellezza oggettiva dei lavori ma anche sulla fruibilità da parte degli spettatori non addetti ai lavori.
 
Di seguito la selezione del concorso:
    • Jeedar El Sot / All This Victory di Ahmad Ghossein (Libano, Francia, Qatar)
    • Partenonas / Parthenon di Mantas Kvedaravičius (Lituania, Ucraina, Francia)
    • El Principe / The Prince di Sebastian Muñoz (Cile, Argentina, Belgio)
    • Psykosia / Psychosia di Marie Grahtø (Danimarca, Finlandia)
    • Rare Beasts di Billie Piper (Regno Unito)
    • Sayidat Al Bahr / Scales di Shahad Ameen (Emirati Arabi Uniti, Iraq, Arabia Saudita)
    • Tony Driver di Ascanio Petrini (Italia, Messico)

Evento speciale fuori concorso – Film d’apertura
    • Bombay Rose di Gitanjali Rao (Regno Unito, India, Francia)
    •
Evento speciale fuori concorso – Film di chiusura
    • Sanctorum di Joshua Gil (Messico, Qatar, Repubblica Dominicana)

Chiara Nucera

 

Joker

Giovedì 03 Ottobre 2019 21:53
Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è una persona ai margini della società, in una Gotham City in cui puoi morire sul marciapiede ed essere tranquillamente pestato e scavalcato. Col sogno del cabarettista e maledetto da un'involontaria risata isterica, è convinto di vivere in una perfetta tragedia.
Todd Phillips, regista della trilogia della Notte da Leoni, prende qualche spunto dalle fonti fumettistiche e si ispira a materiale quale Toro Scatenato o Taxi Driver, ma scrive una genesi del Joker prettamente originale, cercando un nuovo modo di raffigurare l'ascesa verso la pazzia e l'alienazione totale.
Con un taglio registico cupo e opprimente, egli si focalizza sulle ossessioni e le psicosi del suo protagonista, in un contesto di degrado mentale e urbano indissolubilmente legati; il Joker incarna la propagazione del caos nelle strade di Gotham City in una esclation sempre crescente di drammaticità. 
Il suo percorso da reietto a villain conclamato è senza dubbio uno dei piú riusciti dell'intero contesto fumettistico cinematografico, ed è scandito da momenti di apprensione e inquietudine che arrivano potenti e viscerali. Grazie ad uno sguardo intimo, personale, ma allo stesso tempo diretto e crudo, lo spettatore è investito dalla sofferenza e dalla lotta emotiva del protagonista, e avverte distintamente la sua voglia di un amore mai ricevuto, né in contesti sociali né famigliari. 
Ma, come a dare un po' di respiro in uno spettacolo troppo denso di contenuti, assistiamo inaspettatamente anche a situazioni ironiche e inquietantemente divertenti.
Tutto questo incredibile impianto narrativo non sarebbe possibile senza una sceneggiatura scritta eccellentemente, che conferisce spessore ai dialoghi e alle vicende, e usa precise svolte narrative per caricare di tensione la pellicola. Il contesto del film è poco intrecciato con la storia dell'uomo pipistrello, ma alcuni importanti personaggi sono inseriti ottimamente nell'economia della trama, e il pathos verso uno snodo chiave in particolare del passato di Batman è gestito in maniera impeccabile.
Ma il vero motivo dell'encomiabile rappresentazione di questo fantastico Joker è assolutamente l'interpretazione di Joaquin Phoenix. Si può dire senza mezzi termini che il suo protagonista siede allo stesso tavolo del pazzo mascherato di Jack Nicholson e del compianto Heath Ledger, dando un'impostazione personale e ulteriormente diversificata a un soggetto già ampiamente ricalcato. E' stato necessario perdere 20 chili per raggiungere la conturbante forma ossuta e scarna che riveste nel flm, ma il lavoro attoriale è stato arricchito anche da un meticoloso lavoro sulle disturbanti espressioni e sulla già iconica incontrollabile risata. Ed anche da una messa a punto sulle movenze, accattivanti e sinuose. Non c'è alcun dubbio che una prova del genere valga una seria ipoteca sull'Oscar come miglior attore.
Da citare ovviamente anche una splendida parte di Robert De Niro, che cura con la solita estrema professionalità e abilità, dando profondità e grandezza nonostante il limitato minutaggio a sua disposizione.  
Impressionante infine la scenografia dei contesti urbani in cui Arthur Fleck è vittima della violenza della città, in una ricostruzione degli ambienti metropolitani tratti da contesti di una New York anni '70, cosí come anche i costumi dell'epoca e il trucco, che conferiscono ulteriore spessore alla già densa atmosfera.
Todd Phillips in sostanza confeziona uno dei migliori cinecomic di sempre, arricchendo un'icona cinematografica di questo calibro con una memorabile interpretazione attoriale e un contesto narrativo straordinario. Un film assolutamente consigliato a chiunque, che trascende il suo universo fumettistico di origine e si confronta con una cinematografia moderna e matura.
 
Omar Mourad Agha
 
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In una Gotham ambientata agli inizi degli anni 80 (in particolare nel 1981), evocante una New York dalle tinte noir del cinema di Scorsese, si svolge la vicenda che vede protagonista Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), un aspirante comico dal turbolento passato familiare che sbarca il lunario con un lavoro da clown che gli permette di sopravvivere e di prendersi cura della madre malata.
Quanto la vita possa essere una commedia delle parti e un ambiguo coacervo di paure, incertezze e rivendicazioni è una consapevolezza che rende profondamente umani chi la raggiunge. Tra un complesso edipico malamente sublimato e una improbabile sintomatologia psichiatrica che lo costringe a scoppi di una risata scrosciante e inadeguata,  Arthur Fleck sembra arrivare a tale consapevolezza in un momento della sua vita in cui ciò che lo rende umano lo allontana, allo stesso tempo, da ecumenici sentimenti di pietas. 
Il viaggio dell’eroe che Todd Phillips racconta in “Joker” è uno spietato viaggio interiore di un personaggio che prima (e qui mai) di essere un cattivo da fumetto è un esempio di una tragica parabola discendente che raggiunge il suo climax nella esaltazione della vendetta. Una mirabolante crescita emotiva che parla, urla, allo spettatore che non può fare a meno di prendere una netta posizione a favore del protagonista in un moto di empatia e protettività che nella storia gli sono continuamente negate. 
La crescita emotiva di Arthur, che nella definizione della sua nuova identità diventa Joker, è una discesa agli inferi; uno psicodramma permeato di citazioni (dal cinema muto di Chaplin e Keaton al Joker di Heath Ledger) e che rivolge la sua perturbante evoluzione nel rapporto verso l’altro. Si potrebbe definire una decrescita emotiva che punta la sua direzione verso l’involuzione della società nei suoi lati più avvizziti e spigolosi, nella sua drammatica insofferenza verso la fragilità della diversità. 
 “Il lato peggiore della malattia mentale è che la gente si aspetta che tu ti comporti come se non l’avessi” dice il Joker di Phillips, il cui fisico emaciato e il cui ghigno sanguinolento sintetizzano la metafora della follia umana ravvisata ancor più che nella malattia mentale del protagonista, nello stato emotivo del ferale e aggressivo universo sociale che lo circonda. 
La valenza del film non trova il suo spessore nella trama o nell’azione, che è quasi assente, ma nella capacità di raccontare come si possa rendere diabolico l’umano e umano il diabolico e di come entrambe le dimensioni siano profondamente connaturate con la capacità del singolo di relazionarsi col prossimo e con l’ambiente in cui è immerso (“Ora devono rendersi conto che esisto” dice Arthur).
L’esorcizzazione delle fragilità mentali, le cui espressioni trovano la massima rappresentazione nell’interpretazione magistrale di Phoenix, prendono forma con una violenza iconografica rappresentata con un gusto estetico e una narrazione che alterna momenti di delicata dolcezza ad attimi di puro splatter. 
Quello che Philips racconta sullo schermo non è un antieroe da fumetto, né il contraltare del protagonista “buono” da combattere, ma un personaggio che ricorda i tormentati protagonisti delle tragedie di Euripide, con una morale subissata dalle continue vessazioni di una vita ingiusta ma profondamente terrena. 
 
Valeria Volpini
 

A Marriage Story. Storia di un matrimonio

Lunedì 18 Novembre 2019 00:22
Nicole (Scarlett Johansson) è un'attrice lanciata nel mondo di Hollywood, Charlie (Adam Driver) un giovane regista teatrale di talento in forte ascesa a New York. Dal loro incontro nasce un amore intenso e passionale, che piega carriere e scuote gli animi nelle fondamenta. Uno di quelli che non può finire con una semplice firma sui documenti di divorzio, tra belle e nostalgiche parole, ma fa riemergere tutte le incomprensioni e i rancori repressi. Tra urla di dolore e litigi a cuore aperto, va in scena il capitolo finale della storia di un matrimonio.
Noah Baumbach cura una regia precisa e al tempo stesso discreta, che ci porta alla giusta distanza dai personaggi. Le inquadrature danno l'impressione di una messa in scena teatrale piuttosto che strettamente cinematografica, acquisendo spessore e vitalità. Una dimensione più intima passa attraverso primi piani o mezzi busti che segnano tutta la sofferenza dei protagonisti.
Ne risulta un ritratto del dramma realistico ed empatico, pregno di sentimento, in cui la separazione segue dei passaggi a volte molto marcati ma sempre spontanei. Ci si può facilmente immedesimare in questa storia, nella fine di questo amore, forse malinconico, in cui si tende per tutto il tempo a desiderare una via di fuga, una svolta salvifica inaspettata. Ampio risalto è dato ad entrambe le parti, in modo quasi del tutto simmetrico sembrerebbe. Le situazioni di lui e le situazioni di lei hanno lo stesso peso, a partire da una versione delle locandine in cui prima una figura e poi l'altra si guardano e, come sfondo, uno spaccato urbano di due diverse città, due luoghi che inesorabilmente creano una frattura.
New York e Los Angeles, agli antipodi della nazione, sono quasi comprimari che dettano il tono della messa in scena, raccolta e quasi soffocata nella Grande Mela, più aperta e vivace nella Città degli Angeli.
Ma la vera colonna portante di un film così riuscito è senza dubbio la sceneggiatura. La compattezza complessiva della vicenda è figlia di dialoghi fluidi e ottimamente costruiti, e lo sviluppo degli episodi appare molto naturale. Un ritmo serrato e frizzante mantiene alto il livello di tensione dello spettacolo, soprattutto in un paio di sequenze in particolare, ma degli opportuni cambi di registro evitano di appesantire eccessivamente lo spettatore.
In questo contesto gli attori stessi appaiono in grande spolvero. A partire dai protagonisti principali, che danno molto del loro per garantire la genuinità delle emozioni che permeano la pellicola, soprattutto la Johansson, in una delle sue migliori interpretazioni. Anche i comprimari sono ottimamente in parte, Ray Liotta e Laura Dern, nel ruolo degli avvocati dei due coniugi sono sempre molto precisi e puntuali nel tratteggiare la spietatezza e l'egocentrismo dei loro ruoli.
Storia di un matrimonio è un film forte, che sbatte in faccia allo spettatore la sofferenza e le problematiche insite nelle relazioni, ma d'altro canto non lesina sulla tenerezza di certi gesti e sulle ragioni che ci portano comunque a cercarci l'un l'altro. In fin dei conti è un film che parla semplicemente d'amore e lo fa con una potenza ed un'espressività che ormai si vede raramente sul grande schermo. Lo fa da grande film.
 
Omar Mourad Agha

La verita'

Lunedì 09 Settembre 2019 20:46
Il regista Hirokazu Kore-eda non è sceso a compromessi. Per il suo La Verité avrebbe voluto l’apertura del Festival di Cannes 2019. Ma proprio dove l’anno scorso è stato premiato con la Palma d’Oro (Un affare di famiglia), ha trovato un muro alto da scalare. Il direttore Thierry Frémaux gli ha negato questo privilegio e Alberto Barbera (direttore della Mostra di Venezia) non ha perso l’occasione per portare il film del regista nipponico al Festival della laguna. Omaggiandolo proprio dell’apertura. La Verité è il primo film del cineasta girato fuori dal Giappone. Ha scelto la Francia e per il suo nuovo lavoro ha voluto una star del calibro di Catherine Deneuve, la quale interpreta Fabienne, un’attrice ormai a fine carriera. E come tutte le dive è narcisista e poco rispettosa verso il proprio sangue. La famiglia per lei è solo un peso. Soprattutto la figlia Lumir (Juliette Binoche) e il marito di questa, l’ex-alcolizzato Ethan Hawke. E’ corretto dire fin da subito che il film non è all’altezza dei lavori precedenti di Kore-eda. Probabilmente non aver lavorato in patria e le grandi differenze culturali tra oriente e occidente hanno influito sul risultato. Il linguaggio dell’autore non si riconosce in pieno, ne scaturisce un’opera poco eterogena, eccessivamente verbosa e in parte didascalica. 
 
Lumir arriva a Parigi con tutta la famiglia in occasione del lancio della biografia di Fabienne. Durante il viaggio da New York ha avuto il tempo di meditare sul tempo che passerà con la madre. Tempo sicuramente colmo di insidie, che probabilmente farà riaffiorare scomodi ricordi. Lumir è una sceneggiatrice. Lavora nel campo del cinema come la mamma, palcoscenico dove prende vita la loro competizione. L’unico punto di unione è la nipote Charlotte (Clémentine Grenier). Ma quest’ultima niente potrà fare per impedire a Lumir di litigare con Fabienne, visto che nella biografia ci sono fatti rielaborati a piacimento dall’attrice. 
Nella villa di famiglia anche i soffitti e le porte conoscono molto bene il clima poco armonioso, che durante gli anni si è istaurato tra madre e figlia: bugie sempre all’ordine del giorno e poco affetto.
Fabienne intanto si sta preparando per un ruolo in un film di genere. E nel particolare deve proprio interpretare una madre.
 
La Veritè è un progetto molto caro a Kore-eda; lo ha diretto, ma anche sceneggiato e montato. Inizialmente era stato scritto per il teatro e l’ambientazione avrebbe dovuto aver luogo in un camerino.
Si vede fin da subito che il regista giapponese non abbandona le proprie riflessioni/ossessioni, che sono il suo marchio di fabbrica. Protagonista principale è il senso di famiglia, che venga dallo stesso sangue o da chissà dove. 
E’ un maestro a muoversi con la macchina da presa negli interni della villa, seguendo le protagoniste e le loro emozioni. Interagisce con il pubblico che cerca anch’esso la verità. Ma tutto questo è perlopiù un déjà vu dell’autore. La diversità culturale, come accennato in premessa, non aiuta nello sviluppo completo dei personaggi: ruoli che abbracciano troppi cliché. Si rimane in superficie, dove purtroppo si apprezza meno meticolosità e distinzione rispetto al modus operandi di Hirokazu Kore-eda. Altra sbavatura è rimarcata dalla non perfetta gestione dei tempi. 
 
Di livello le performance delle due protagoniste: Deneuve è a suo agio in un ruolo che rispecchia in parte il suo vissuto. La forza della sua immagine dona a Fabienne quella giusta aurea di attrice navigata, che sa quello che vuole. Il ruolo di madre vera e propria si vede solo quando recita, attimi in cui la finzione è usata per mettere in scena una realtà mai consumata. Juliette Binoche si immedesima perfettamente in un’anima fragile e non c’è momento in cui questo non si noti, anche negli sprazzi di eccitazione e vigore. Insomma entrambe sono completamente nella parte. Ethan Hawke purtroppo non lascia traccia.
 
David Siena

Seberg

Martedì 03 Settembre 2019 20:54
Nel terzo giorno di Mostra del Cinema di Venezia, il palinsesto offre una biografia sulla carta decisamente accattivante. Protagonista incontrastata è Kristen Stewart, stella in perenne ascesa, sempre ben accolta al Lido da una nutrita schiera di fans. Questa volta la giovane attrice americana interpreta un’icona del cinema francese ed in particolare della Nouvelle Vague: Jean Seberg, nell’omonimo film (Fuori Concorso) diretto dal semi esordiente regista Benedict Andrews. Il film racconta solo una parte della vita dell’attrice, quella del ritorno in America, dopo il successo planetario avuto con Fino all'ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard. Prima di addentrarci nella trama e nella disamina critica della pellicola, vorremmo soffermarci un attimo sulla one woman show che interpreta Jean Seberg. La Stewart, dismessi i panni della vampira Bella della saga Twilight, si è messa alla prova con registi quotati come Olivier Assayas (Sils Maria e Personal Shopper) e Woody Allen (Cafè Society), dimostrando di essere qualcosa di più di una Biancaneve che va appresso al Cacciatore. Profondità ed adattamento al ruolo ormai gli calzano a pennello. E dopo aver visto Seberg possiamo confermare quanto appena detto, peccato per l’opera in se, che al di là della prova della Stewart, il biopic non esce mai da un piattume figlio di una regia debole e di una scrittura senza mordente.
 
Siamo a fine anni 60 e precisamente nel 1968. Jean torna nella sua amata patria. L’FBI le è perennemente addosso. Gli agenti federali la sorvegliano 24 ore su 24 alla ricerca di legami compromettenti con il leader politico delle Black Panther: Hakim Jamal (Anthony Mackie). Tra l’attivista dei diritti civili e l’attrice nasce qualcosa di più che una semplice amicizia. A questo punto per gli organi di sorveglianza americani la Seberg è una nemica degli Stati Uniti ed ogni uscita pubblica o meno con Hakim Jamal è un buon pretesto per screditarla e denigrarla. Viene anche spesso spaventata ed intimorita. L’opinione pubblica gli rema contro, fino a portarla più volte a tentare il suicidio. Il caso viene affidato all’agente Jack Solomon (Jack O'Connell), per il quale le problematiche si faranno sempre più spinose più si avventurerà nella vita di Jean. Questa bellissima icona del cinema che fu, con i suoi cortissimi ed affascinanti capelli color platino, dovrà abdicare in giovane età. Jean Seberg muore quarantenne il 30 Agosto del 1979.
 
La regia di Benedict Andrews si concentra sui volti di Kristen Stewart, costantemente inquadrata da vicino e lei è sempre pronta a sviscerare la sue gioie, ma soprattutto i suoi tormenti. Qui il film prende un po’ di respiro, riallacciandosi proprio con il cinema francese della Seberg, colmo di primi piani esplicativi. Ma l’opera meritava una più mirata complessità. La sola performer, seppur brava, non può da sola portare a casa il risultato. Tutto il resto è diretto senza approfondimento. Le svolte narrative sono pressoché inesistenti. I momenti più importanti che hanno caratterizzato la sua esistenza sono scene fast food senza un vera esplorazione.
 
Il film, dal taglio più commerciale che d’autore, si limita a rimanere in superficie. 3 days to Quiberon, visto al Festival di Berlino ed. 68, diretto dalla regista Emily Atef ed incentrato su un’intervista a Romy Schneider (per intenderci la famosissima Principessa Sissi) è l’esempio di come una regia intima riesca a farci percepire il vissuto del personaggio, non limitandosi a solo inquadrare, ma anche a raccontare. Tra ricordi e vita reale, la narrazione non si perde nelle sole scenografie, cosa che purtroppo succede in Seberg.
 
David Siena

Tenet

Giovedì 27 Agosto 2020 10:35

Tenet è la sfida contro il tempo di Christopher Nolan, il regista inglese assembla un cast stellare per presentarci un film (volutamente) imperfetto e svegliarci dal torpore della quarantena. Il “protagonista” (John David Washington) dimostra una cieca fede nella causa a cui si è affidato, come “premio” riceve la possibilità di salvare il mondo da un disastro, dalla “terza guerra mondiale” o meglio l’estinzione istantanea dell’intera razza umana, per farlo egli deve comporre un algoritmo con il compagno di avventure Neil (Robert Pattinson) di cui non dovrebbe fidarsi, per poi disassemblarlo e permettere che questo mondo marcio sopravviva. Tenet è uno spy drama, a tutti gli effetti, il cattivone è un russo stereotipato (interpretato da Kenneth Branagh) Adrei Sator il trafficante d’armi  è il marito di Kat (Elizabeth Debicki che interpreta la stessa identica parte nella serie TV The Night Manager) una “bond girl” bellissima e ribelle. Al centro della vicenda c’è un concetto molto interessante: grazie ad una tecnologia del futuro le azioni compiute possono essere riavvolte nel tempo, così che la stessa traiettoria di un proiettile possa tornare indietro e trapassare il malcapitato al contrario, le automobili possono correre in retromarcia senza farlo davvero, le bombe possono esplodere distruggere un palazzo e poi sotto gli occhi dei presenti è possibile annullarne ogni effetto e farle tornare spente davanti alle macerie che tornano da sole al loro posto riformando l’edificio. Lo stesso vale per le persone e gli eventi ma con effetti più devastanti sulle linee temporali. Giocando su espedienti abbastanza prevedibili ogni elemento del film è condizionato da questo gioco basato in parte sulle teorie quantistiche, attraverso lunghissime spiegazioni minuziose e assolutamente stranianti. La perplessità nasce dal voler accettare a tutti i costi qualcosa che non si può davvero “cercare di capire” dal principio perché dopo su tutte le chiavi di lettura si impongono altri fattori “la forza dell’ignoranza” e i paradossi. Il non sapere rende i coinvolti liberi di agire grazie al loro libero arbitrio e il cuore: come fu per Interstellar (2014) è l’unica bussola da seguire. A differenza del film con McConaughey però, Nolan sacrifica la necessaria crescita dei personaggi e dei loro affetti dimenticando di dare spazio all’empatia, rendendo sterile gran parte del progetto. Meraviglioso il comparto sonoro, come fu per Dunkirk (2017) Best Sound Mixing agli Oscar del 2018, ogni rumore, ogni esplosione porta una eco indelebile. La colonna sonora è stata affidata al giovane talentuoso Ludwig Goransson (compositore delle musiche di The Mandalorian, 2019) segue tutto il film ravvivando l’azione. Indubbiamente porta la firma del suo regista che come ci si aspetterebbe da lui ha inserito easter eggs già dal titolo: Tenet, parola che compone la  misteriosa frase palindroma in latino del cosiddetto quadrato magico (o quadrato del Sator) “Sator Arepo Tenet Opera Rotas” troviamo anche riutilizzate all’interno del film tutte le parole, in modo  intelligente. Inutilmente complicato fa indubbiamente parlare di se.

Francesca Tulli

Ema

Lunedì 28 Settembre 2020 17:05
Pablo Larrain (Neruda) torna sui luogo del delitto con Ema, un film presentato in concorso a Venezia 76, dopo una pausa di 2 anni dall'appannato Jackie, anch'esso lanciato dagli stessi lidi.
Protagonista della vicenda è la ragazza che dà il titolo alla pellicola, una conturbante ballerina interpretata da Mariana Di Girolamo, nell'atto di separarsi dal marito coreografo Gastòn (Gael Garcìa Bernal) e di restituire ai servizi sociali il bimbo adottivo in affidamento. Una vicenda che sembra già avviata verso una rapida conclusione si rivelerà un interessante intrigo famigliare nel momento in cui Ema vorrà smascherare le vere motivazioni dietro al disfacimento della sua famiglia.
Il primo impatto con il film in questione è visivamente travolgente, Larrain dà sfoggio di un'arte registica di grande livello nel dipingere a schermo colori sgargianti e dinamismi ipnotici. Caleidoscopiche tonalità fanno da sfondo a movimenti seducenti, in un'improbabile unione tra atmosfere alla Gaspar Noè e coreografie che strizzano l'occhio a David Bowie.
Spiccano su tutti i giochi di fuoco, brillanti e fiammeggianti nel loro rosso purificatore, mentre la protagonista muove gli ingranaggi dei suoi piani contro la decadenza morale di una città tanto stimolante nei sensi quanto opprimente nella sua realtà.
Di fronte a tale estasi cromatica la trama passa quasi in secondo piano, nonostante abbia le carte in regola per inserirsi nella scia di una cinematografia di almodovariana memoria. Tra voglie di rivalsa personale e maternità insoddisfatte però manca ogni tipo di spessore nelle dinamiche e nelle interpretazioni, che invece caratterizzano da sempre i film del regista spagnolo. 
La colpa non è neanche negli snodi narrativi, che nel finale chiudono la vicenda in una maniera inaspettatamente precisa, ma è soprattutto nella sceneggiatura troppo effimera e frammentaria. Spesso le emozioni sono veicolate da immagini più che da parole e nel complesso il quadro appare decisamente debole.
Le prove attoriali, non aiutate dalla scrittura, si affidano quindi a interpretazioni molto fisiche, su tutte la parte della Di Girolamo. La giovane attrice è sinuosa e felina nel portare avanti il suo inganno per le strade della città, mentre il resto del cast rimane molto in secondo piano, nascosto dalla sgargiante cortina che Larrain è comunque abile a creare davanti allo spettatore.
Nel complesso Ema è un film che indubbiamente colpisce, con un'apparenza gloriosa e magnifica, capace di creare suggestivi giochi visivi anche per l'occhio più esperto, ma nasconde una struttura troppo debole per tenere in piedi la bellissima macchina messa in moto dal regista cileno. Una visione che seduce ma non lascia il segno.
 
Omar Mourad Agha