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Freaks Out

Giovedì 28 Ottobre 2021 21:43
“È un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I pazzi sono al potere.” Lo scriveva Philp K. Dick nel 1962, quando non immaginava che nel futuro qualche decade più avanti uno “scellerato” regista italiano, Gabriele Mainetti, assieme al suo storico amico e sceneggiatore Nicola Guaglianone, avrebbero preso alla lettera le sue parole, scrivendo una romana versione de 
“La svastica sul Sole” (seppur non dichiaratamente) dove i protagonisti sono quattro “X-Men” nostrani. Al contrario dei Mutanti protagonisti dei fumetti Marvel, però questi “sfigati” fenomeni da baraccone, sono ben lungi dall’essere l’archetipo degli eroi. Il Circo Mezzapiotta, intrattiene un pubblico di grandi e piccini, proponendo delle singolari attrazioni: Cencio l’albino (Pietro Castellitto) comanda gli insetti (tranne le api che per motivazioni personali “non gli stanno simpatiche”), Mario il clown (Giancarlo Martini) controlla i metalli (si potrebbe definire ironicamente l’anello mancante nel processo involutivo tra Magneto e il Ragionier Fantozzi) e Fulvio il forzuto (Claudio Santamaria), un uomo scimmia polemico e attaccato al “danaro”. La luce del gruppo è la giovane Matilde (Aurora Giovinazzo) una sperduta “Dorothy” (come viene definita nel film stesso) troppo lontana da Oz e dalla sua casa nel Kansas, controlla l’elettricità, creando intorno a sé un vortice di polvere di fata, fatto di lampadine rotte e polvere. La compagnia si scioglie metaforicamente sotto le bombe dei Nazisti, quando il capo e figura paterna per i protagonisti, l’ebreo Israel (Giorgio Tirabassi), esce dall’anonimato per cercare fortuna in America, lasciando il gruppo con la prospettiva di tornare ma venendo poi catturato e deportato. La ragazza, così, prosegue il suo viaggio da sola convinta di essere stata abbandonata e finisce per unirsi alla sacca di resistenza Partigiana del Gobbo (Max Mazzotta), in mezzo ai boschi – i richiami ai “Bastardi senza Gloria” di Tarantino, qui si sprecano -.
Gli altri tre proseguono alla ricerca di un nuovo ingaggio, trovandolo nel grottesco circo gestito da Herr Franz (Franz Rogowski), un esaltato freak nato con sei dita, coperto dal fratello gerarca che nell’ombra escogita piani segreti e malvagi. Tra i fumi delle allucinazioni prodotte dall’etere Franz ha delle visioni del futuro e come nel sopracitato libro di Dick vede i filmati della disfatta nazifascista attraverso una tecnologia ancora da scoprire. Si convince che i freaks siano la chiave per evitarla e si mette alla ricerca di uomini speciali che possano servire la sua causa, uomini che, senza saperlo, stanno camminando nella sua stessa direzione, finendo proprio nella tana del lupo. 
Il film, di produzione Italo-belga, vanta un comparto di effetti visivi notevole. I costumi e gli scenari evocano le giuste atmosfere circensi, complice il patrimonio artistico di Roma, quello naturale di Viterbo e dell’Aspromonte. Nell’esagerazione generale emergono i difetti legati alla stesura della sceneggiatura (il romanesco può stancare e spinto all’inverosimile scadere nel ridicolo) e l’esasperazione di alcune prove attoriali. L’ottima introduzione, così come la coerenza del finale, vengono smorzate purtroppo nella parte centrale dalla lunghezza eccessiva del film (140 minuti complessivi). Presentato alla 78esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è una proposta nuova ma sicuramente meno rivoluzionaria, nonostante l’immane lavoro, di “Lo chiamavano Jeeg Robot” (2015) ma altrettanto citazionista e curiosa, a fronte di un budget enorme per l’Italia, si parla infatti di 12 milioni di euro ufficiali che diventerebbero quasi il triplo secondo fonti non ufficiali.
 
Francesca Tulli
 

Madres Paralelas

Venerdì 29 Ottobre 2021 14:30
Torna sugli schermi il pluripremiato regista spagnolo Pedro Almodóvar, con un film che vede protagonista la sua attrice feticcio Penelope Cruz, in un ruolo che le è valso la Coppa Volpi all’ultimo Festival del cinema di Venezia.
Almodóvar, parlando del ruolo della protagonista Jenis dice che esso ci mostra un riflesso del passato nel presente. E questo passato è la guerra civile spagnola, di cui sotto la terra giacciono ancora i resti, sotto forma di migliaia di persone scomparse.
In effetti il personaggio di Penelope Cruz è una madre che iconizza il proprio spirito edipico in una figura che esprime tutte le nostalgie di un passato che è, insieme, individuale e collettivo. La Storia della Spagna franchista e dei suoi resti umani sconosciuti, privati della propria identità, accende la narrazione, la conclude. Fa sì che il passato assurga a espediente narrativo per dare corpo ai sentimenti ancestrali della genitorialità e, nello specifico, della maternità, intesa qui come spinta vitale, come accudimento estremo e contenitore di un amore manchevole.
C’è la madre adolescente Ana (Milena Smit), ancora incastrata in una gioventù che le impedisce il raziocinio di chi centellina i sentimenti, li incanala, per renderli strumento pratico della vita moderna.
C’è la madre sola, adulta, matura Janis, che padroneggia le sue emozioni da amante di un marito adultero e le rende parte di quell’amore donato alla figlia inattesa.
C’è la madre assente Teresa (Aitana Sanchez Gijon), egoriferita. Le cui cure nei confronti della figlia appaiono anodine, sterili; seppure condite dalle buone intenzioni di chi non si considera fallace.
C’è la madrepatria. La patria fatta degli uomini che hanno combattuto e sono periti in suo nome perdendo quella identità che i loro nipoti non hanno mai smesso di cercare. Tutte le madri che Almodovar disegna in questo film sono madri fragili e forti al contempo. Libere ma condizionate dal proprio passato e mondanamente radicate nella realtà delle proprie diversificate quotidianità. 
Almodóvar racconta il punto di vista di maternità differenti ma parallele in diverse fasi e con diverse emozioni. Diversificate tra loro quanto le loro caratteristiche anagrafiche e caratteriali. E lo fa con estremo rispetto, senza giudizio. Esaspera le emozioni che costruiscono ciò che vuole raccontare, senza vanificarne il senso.
I primissimi piani delle attrici nei momenti più ricchi di pathos e la centralità dei personaggi nelle inquadrature, raccontano ciò che preme di più al regista: la condizione umana e, in questo caso, materna, dove la figura del padre fa capolino ma è lasciata in disparte. Importante ma non incalzante. Necessaria ma non decisiva nella narrazione, senza per questo esserne avulsa. 
Nonostante ci siano evidenti punti di incontro con le storie dei film precedenti dell’opera di Almodóvar, a cui cari sono sempre stati questi temi, i personaggi per esempio di “Tutto su mia madre”, così come di “Volver”, appassionati e iconici, non assumono lo status di paradigma. Erano le biografie dei protagonisti portate sullo schermo ad essere paradigmatiche. Qui ogni protagonista è un simbolico esempio di figura materna, incompleta e imperfetta, come così come incomplete sono le vite di chi non può ricongiungersi col proprio passato.
 
 
Valeria Volpini

Ultima notte a Soho

Giovedì 04 Novembre 2021 14:16
Ultima notte a Soho è un film le cui atsmosfere si fondono in quelle di un romanzo di formazione, di un musical e di un horror, con la drammaturgia di una commedia adolescenziale. Tutta questa narrazione è inaspettatamente condita da elementi ideologici del politicamente corretto che fa capolino alla fine della storia e viene sbattuto in faccia allo spettatore, facendogli subire un inadeguato svelamento che, seppure risulti inaspettato e riesca a costruire un riuscito effetto sorpresa, sembra essere poco coerente con le premesse e richiama un po' ruffianamente le politiche del "me too" e del femminismo post-moderno un po' posticcio.
La protagonista Eloise "Ellie" Turner (Thomasin McKenzie) è un'adolescente orfana che vive con la nonna nelle campagne inglesi. Appassionata di musica degli anni '60, colleziona vinili nel ricordo della madre morta suicida anni addietro. Dopo una prima scena dai toni scanzonati e colorati, la storia si trasferisce presto nella grande città. Ellie va nella capitale inglese per studiare in un'accademia ciò che vorrebbe diventasse il suo lavoro: la moda. Da lì inizia un racconto che sembrerebbe essere descritto nei toni della commedia ma che finisce poi per diventare orrorifico, quando la protagonista trasloca in una casa la cui proprietaria è un'anziana donna dal carattere coriaceo e riservato. Il regista Edgar Wright si serve dello sfondo della swinging London e del tema, sempre amato dal pubblico, dell'alter ego e del doppio, stavolta in chiave d'antan e rappresentato sullo schermo dalla ormai ex "regina di scacchi" Anya Taylor-Joy che impersona Sandie, un'aspirante cantante vissuta negli anni '60.
Le due attrici protagoniste che si fondono, a un certo punto della storia, in un unico personaggio, dando corpo all'idea del regista di affrontare, in tutto questo minestrone, anche la tematica della patologia psichiatrica, sono brave e credibili, a dispetto di una trama che lascia intravedere le buone intenzioni di portare sullo schermo un film di genere misto.
C'è però poco succo. La parabola esistenziale della protagonista è puramente di forma. Cambia il modo di vestire, cambia l'atteggiamento con il prossimo, cambia il mondo di truccarsi e di vivere la propria vita sociale, ma non c'è un approfondimento introspettivo che eleva il personaggio a uno status di icona. E, senza voler ambire a tale obiettivo, non c'è nemmeno il racconto di una evoluzione umana dettata da una presa di coscienza profonda e resipiscente. 
Tutto è, per lo più, soffocato da una deriva horror che vuole ambire a pistolotto ideologico con una chiave sedicentemente innovativa ma che finisce con l'essere involontariamente trash.
Le musiche e il dinamismo delle scene che le accompagnano sono gli elementi più piacevoli di un film che nasce tondo e muore quadrato, vagando tra le forme di vari generi e che, per questo forse non trova una quadra.
 
Valeria Volpini