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Il primo workshop sulla scrittura del reale interamente organizzato all'interno di un festival capitolino che si terrà 22/23 e 29/30 giugno, Cinema dei Piccoli, in collaborazione con MedFilm Festival 2013
Scrivere un documentario sembra un ossimoro, ma non lo è. Anche la sceneggiatura della fiction quanto più è solida tanto più permette al regista di muoversi con maggior libertà, di smontarne persino alcune parti. L’indeterminatezza, invece, quasi mai aiuta il regista a trovare un percorso più efficace. Piuttosto per il documentario si può parlare di scrittura aperta. C’è, tuttavia, un momento in cui il frutto della propria ricerca va raccolto in un passaggio che rappresenta anche un bilancio. Lo script o, più televisivamente, il dossier, sarà di sicuro utile al produttore o al broadcaster, ma è anche una verifica che serve all’autore per mettere ordine nella propria testa.
Gianfranco Pannone, L’officina del reale.
Nella splendida cornice di Villa Borghese, all'interno della suggestiva location del Cinema dei Piccoli e con la collaborazione del MedFilm Festival, Cinema del Mediterraneo a Roma giunto ormai alla sua 19esima edizione, prenderà il via Scrivere il Documentario: il primo workshop sulla scrittura del reale interamente organizzato all'interno di un festival capitolino.
24 ore totali di lezione ed esercitazioni lungo due intensivi week end, per un numero massimo di 20 partecipanti che, divisi per coppie, realizzeranno uno script/dossier per un documentario di mezzora, il tutto sotto la guida di docenti d'eccezione: il regista Gianfranco Pannone e lo scrittore e autore di documentari Cosimo Calamini.
Un confronto che terrà conto di approcci anche diversi alla scrittura, considerando un’adeguata ricerca sul campo e una necessaria chiarezza di esposizione in fase di scrittura.
Dopo l'orario di lezione sarà possibile partecipare ai numerosi eventi proposti dal MedFilm Festival.
Il programma si articola secondo le seguenti modalità:
Durante il primo week end (sabato 22 e domenica 23 giugno, dalle 9.30 alle 16) ci si relazionerà con :
analisi degli approcci metodologici, strutturali e tematici per la realizzazione di un documentario
presentazione e valutazione delle idee dei partecipanti e formazione di coppie di lavoro
analisi di script di lavori degli stessi docenti e confronto con i film documentari realizzati a partire da quegli stessi elaborati
Nel secondo week end (sabato 29 e domenica 30 giugno, dalle 9.30 alle 16):
Mediante uno scrupoloso lavoro di approfondimento e confronto, verranno esaminati gli scritti realizzati dai partecipanti
Ricerca e riconoscimento di potenzialità e limiti della scrittura di un documentario all'interno del proprio progetto
Quota di partecipazione: 250 euro (nella classe sono ammessi anche semplici uditori al costo di 100 euro per l'intero ciclo di lezioni)
Le iscrizioni scadranno il 19 giugno
Gianfranco Pannone (Napoli 1963) è laureato in Lettere a Roma e diplomato in Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Tra il 1990 e il 1998 ha prodotto e diretto la trilogia composta da Piccola America, Lettere dall’America, L’America a Roma e nel 2001 Latina/Littoria, quest’ultimo miglior film documentario al Torino Film Festival 2001. Tra i suoi medio e lungometraggi Pomodori (1999), Sirena operaia (2000), Pietre, miracoli e petrolio (2004), Io che amo solo te (2005), Cronisti di strada (2006) Il sol dell’avvenire (2008), ma che Storia…(2010) Scorie in libertà (2011-‘12), Ebrei a Roma (2012). I suoi film documentari gli sono valsi partecipazioni e riconoscimenti in molti festival italiani e internazionali, oltre che la messa in onda sulle principali televisioni europee. Insegna Cinema documentario al Dams dell’Università Roma Tre e regia al Csc – Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e dell’Aquila. Saggista e autore, ha tra l’altro scritto il libro L’officina del reale.(ed. Cdg) con M. Balsamo e Docdoc – dieci anni di cinema e altre storie (Mephite Cinemasud).
Cosimo Calamini (Firenze 1975) è laureato in lettere a Firenze e diplomato in sceneggiatura presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Lavora a Roma come sceneggiatore cinematografico (Mar Nero), di film - documentario (Tra due Terre, Non Tacere, Scorie in Libertà) ed è autore di documentari storici per La7, History Channel e RAI3. Con Garzanti ha pubblicato i romanzi: Poco più di niente (2008), vincitore del premio internazionale Feudo di Maida per la narrativa e Le Querce non fanno limoni (2010), finalista al premio Chianti.
Info e iscrizioni
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+ 39 342 3577589
“Era il 1985. In uno dei nostri viaggi, dentro un cinema di Reykjavik, Guido ed io restammo imbambolati di fronte alle riprese dell’ultimo 007. Bond terribilmente a suo agio in ogni situazione, noi sempre in difficoltà nei posti più improbabili. Decidemmo la rivalsa: girare un film su noi e lui, dove alla fine Guido ed io avremmo avuto la meglio”.
Un incipit in perfetta sintonia con un titolo bizzarro che, tuttavia, non rivela nulla del nucleo centrale del documentario. Perché Noi non siamo come James Bond è, prima di tutto, il racconto di un’amicizia autoironica e commovente che cita James Bond come modello di perfezione per la vita imperfetta dei due protagonisti. “Per noi Bond rappresentava il prototipo di come dovrebbe essere il mondo…e alla fine si è rivelato che non è mai stato così”, spiega Guido Gabrielli, protagonista e coautore. L’avventura che intraprendono Guido e Mario (Balsamo, scrittore, autore e regista di documentari, corti, videoclip e pubblicità progresso) è un viaggio intimo intorno alle riflessioni, alle decisioni, alle difficoltà che hanno accompagnato le loro vite. I dialoghi serrati fra loro – nella spiaggia isolata di Sabaudia, in un bar, in un treno, negli spazi domestici di ciascuno dei due - sovrappongono al presente alcuni echi del passato attraverso i quali ripercorrono momenti della loro amicizia che vibra tutt’oggi della stessa intensità.
Diversi fattori contribuiscono a fare del documentario una testimonianza lucida e al contempo appassionata, delicata ma forte, di un rapporto duraturo che riempie di significato quegli anfratti dell’esistere in cui spesso l’angoscia ci sospinge. In primo luogo la volontà di raccontarsi, di mettersi a nudo di fronte ad un pubblico, di mostrare le debolezze – umane, troppo umane – che spesso, per vergogna o per paura, vengono relegate alla solitudine dell’isolamento (“mettersi in scena soggettivamente vuol dire giocare a carte scoperto col pubblico”, afferma Mario). Anche Guido, refrattario a parlare di sé e della sua malattia, si affida alla mano dell’amico che lo conduce in questa biografia a due senza mai lasciarlo, rispettando i suoi bisogni e le sue volontà (significativa in questo senso è la scena del litigio, durante la fase di lavorazione, dovuto ad alcune parti del montato che Guido si rifiuta categoricamente di includere nel montaggio finale; scena che Mario lascia fluire con una telecamera fissa, posta al di fuori della stanza in cui i due discutono ed in cui vengono proiettate proprio le scene che Guido vorrebbe eliminare, per poi tornare a riprendere i volti dei due nello scambio acceso di idee). In secondo luogo, proprio la messa in scena della malattia – sconfitta da entrambi ma con strascichi pesanti e visibili – diventa uno strumento per esorcizzare la paura della morte, per elaborare la malattia stessa ed approcciarsi alla quotidianità con la voglia rinnovata di andare sino in fondo all’intensità dell’attimo.
Come nell’episodio Medici di Caro Diario e nel film rivelazione dell’ultimo festival di Cannes La guerre est declaré (che si apre con la stessa scena iniziale, quella di una tac) vi è anche qui quell’esplicita scelta autoriale di filmare i discorsi e i pensieri che danno vita ai primi - indugiando sovente sui primi piani dei protagonisti, raccontando le loro emozioni - piuttosto che le azioni, in un intreccio inestricabile fra vita vissuta e vita filmata che testimonia la sottile barriera esistente fra cinema di finzione e cinema reale. Anche la scelta del genere documentario è informata dall’idea che non c’è una realtà sola così come non c’è una finzione sola. In questo modo il loro racconto – che è un racconto privato e personale – assume i connotati di un discorso universale che fa appello a quella capacità umana di condivisione e sostegno reciproco che non ha tempo né luogo. Alla domanda di Guido “Perché ci siamo ammalati?” risponde l’interrogativo di Mario “Perché siamo guariti?”, entrambe rimaste prive di risposte possibili, tranne un’unica certezza: “essere in due aiuta. L’amicizia quantomeno ti permette di vivere bene.”
La complicità tragicomica delle coppia – due giovani gemelli diversi, uno carrierista e l’altro anarchico, accomunati dal desiderio di mordere la vita, chi in un senso chi nell’altro – guida lo spettatore in questo documentario on the road, sospeso fra buddy-movie e bromance, che tocca i luoghi dell’anima piuttosto che quelli fisici (anche quando i due, vestiti come dei perfetti James Bond, attraversano le strade di Perugia colorata di musica durante l’Umbria Jazz, improvvisandosi artisti di strada) in una danza fra autore e testimone che è una costante del cinema di Mario Balsamo.
La ferma volontà di evitare la tristezza, la retorica e le lacrime, riempie il racconto di un umorismo leggero e toccante, che giunge fino alla spiaggia di Sabaudia, in un finale, sospeso anch’esso fra realtà e finzione, dove i nostri, nella stessa tenda malconcia con cui da giovani squattrinati giravano il mondo, riescono finalmente a mettersi in contatto con Sean Connery, il vero James Bond. Il quale, inaspettatamente, ammette di trovarsi in un momento difficile, dimostrando la sua umanità nella fragilità che coglie anche lui, come qualsiasi altro essere umano. Un capovolgimento totale del discorso iniziale che trasforma l’eroe in una persona comune e i protagonisti in veri eroi moderni – o postmoderni: uomini comuni che affrontano le difficoltà che la vita presenta loro con un rinnovato attaccamento alla vita e con il bisogno di continuare a lottare per tutto ciò in cui credono, sia nelle loro esistenze private che collettivamente.
Vincitore del Gran Premio della Giuria al Torino Film Festival 2012, Noi non siamo come James Bond sta tutto nelle parole di Giancarlo Pannone: “un film originale, poetico, straziante fino a far male, in una parola bello, perché maledettamente sincero e sofferto.”
Elisa Fiorucci
La vita sarà anche dura, ma il nostro mondo, ad un'occhiata veloce, con la sua accattivante società del consumo, sembra il paese dei balocchi: luci, benessere, divertimenti, lusso. Come farci un'idea obiettiva di questo posto quando si è ancora giovani e facilmente impressionabili? Questa contraddizione di fondo crea quel mental disorder che appare sullo schermo prima ancora che il film abbia inizio.
Trattasi di un Juno figlio delle ragazze madri dell'est europa e quindi della delusione comunista e della postconfusione capitalista.
Specialmente la generazione più giovane si è formata in un'ottica europea, sentendosi europea al di là delle appartenenze nazionali, e questo non per merito dei governi ma grazie all'effetto ryanair e erasmus. Ragazzi religiosamente ispirati da approcci alla vita edonistici e materialistici, in un mondo dove tutto sembra a portata di mano, il conto si pagherà a rate e con gli interessi per tutta la vita.
La regista sembra essersi immersa a lungo in apnea, come buona parte della nostra generazione del resto, in questo ambiente e conoscere bene ciò di cui parla. Questo è inevitabilmente un vantaggio che si riflette nella rappresentazione. C'è un vuoto incolmabile in queste esistenze, non si riesce a provare ammirazione mai, per nessuno dei personaggi, ma almeno i più giovani (questa parola non ha un significato anagrafico, ma comprende tutti coloro per cui non è arrivata la disillusione) si possono permettere di anestetizzarlo con una vita vissuta alla ricerca del piacere, attimo per attimo, bramando qualunque cosa faccia pulsare il sangue nelle vene, ricordandogli di essere vivi. Vuoti esistenziali che traboccano di vita. Tutto orbita intorno allo "stile", prerogativa irrinunciabile per i giovani, il nichilismo è tra noi e Antek, il figlio neonato di Natalia, la giovane mamma protagonista, può convertirsi in una sorta di accessorio di tendenza.
Tutto si compie paradossalmente nella più completa buona fede, anche i passaggi più agghiaccianti, come chiudere il piccolo in una borsa e questa, a sua volta, in un deposito della stazione, sono eseguiti senza la minima cattiveria da parte di Natalia.
La messa in scena e l'allestimento davanti macchina prendono il sopravvento. Le scene sono curate in maniera minuziosa, risultando veramente suggestive. Ricordano una Kira Muratova patinata ai tempi di David Lachapelle. Alcune di loro s'impressionano nella mente per la profonda componente estetica. Lei che porta il passeggino per la città in pattini, emblema della ribellione adolescenziale è favolosa, il gruppo di amici per la consegna dei regali nel bar, Natalia che prova un vestito chiacchierando con l'amica, straripano tutte di personalità e si potrebbe andare avanti rievocando buona parte del film. I colori sono accesissimi e parlano giovane, pop e lollipop. Perfino il gesso di Kuba è di un azzurro incantato che picchia con la realtà vissuta dai protagonisti. Una condizione sottolineata e accentuata anche da inquadrature lunghe, quasi piani sequenza, che spesso a fine scena subiscono tagli bruschi, sporchi e a nero, molto funzionali. Gli attori, quasi tutti esordienti sul grande schermo, sembrano interpretare se stessi senza bisogno di sforzarsi.
Per quanto riguarda la sceneggiatura rimangono un po' inspiegabili alcune scelte forti e ad effetto dei personaggi, ma, almeno nella prima metà, non fanno altro che evidenziare il vuoto protagonista e la sensazione che i personaggi danno di essere del tutto in balia degli eventi della vita. Si può parlare di intuizioni riuscite. Mentre nella seconda parte la parabola scade un po', viene esasperata, forse per quella avversione nei confronti del lieto fine, del tutto comprensibile del resto, radicata nel cinema indipendente che però qui porta ad un rocambolesco sad-end con la protagonista che sembra non aver imparato nulla dall'esperienza di vita raccontata e non essere cambiata.
Ciò, francamente, data la storia a cui si è assistito con piacere, sembra un po' inaccettabile.
Kami Fares