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Visualizza articoli per tag: francesca tulli

Crimson Peak

Giovedì 15 Ottobre 2015 08:08
Il regista messicano Guillermo del Toro viene definito in tanti modi, sceneggiatore, autore, scrittore, collezionista, Maestro di genere. Famoso per la sua precisione e attenzione per i dettagli, ha un gusto inconfondibile e firma ogni sua fantasia con passione prendendosi i rischi del caso, spesso frenato dalle case di produzione e dalla critica ma acclamato dai suoi sostenitori. Crimson Peak è nato così dalle pagine della sua agenda, disegnato anni fa, fedele a quel soggetto in ogni dettaglio è una “gothic romance” e come tale ne conserva la dolcezza e l’inquietudine come Jane Eyre, il figlio dello scrittore Stephen King l’ha definito una versione “insanguinata de l’età dell’Innocenza”. Agli inizi del 900 Edith Cushing (Mia Wasikowska) è una giovanissima scrittrice di romanzi, osteggiata per i contenuti delle sue storie tutt’altro che romantiche non adatte ad una donna, piene di fantasmi e suggestioni dell’infanzia. Vive a Buffalo sola con il padre (come nella “Bella e la Bestia”) corteggiata da Alan McMichael (Charlie Hunnam) il “dottorino” che la conosce da quando era bambina. Lo straniero venuto dal vecchio continente per fare fortuna il baronetto Sir Thomas Sharpe (Tom Hiddleston) cerca lavoro come ingegnere nell’ufficio di suo padre e la incontra per caso e come in ogni buon libro, dal primo istante in cui si guardano negli occhi i due si innamorano perdutamente. Vivono una favola meravigliosa, tra balli e passeggiate nel parco, ostacolati dal padre della ragazza che non sopporta né lui né i suoi macchinari moderni (fortemente steampunk) e visti con sospetto dall’accigliata sorella di lui Lady Lucille Sharpe (Jessica Chastain) che fin da subito condivide con il fratello dei macabri piani per il futuro. Del Toro ha più volte ricordato che nella tradizione queste vicende finiscono con il matrimonio, che porta inevitabilmente ad un lieto fine ma non è il caso di questa pellicola. Giunti in Inghilterra come marito e moglie, lui le mostra la sua nuova casa, un maniero spettrale dove le assi di legno del pavimento affondando nell’argilla rossa del sottosuolo, il soffitto cede alle intemperie facendo circolare nell’aria foglie morte e polvere secolare, sui muri si muovono indisturbate grosse falene notturne. Per i due innamorati non c’è altra scelta, la ricchezza economica degli Sharpe è la dimora che hanno ereditato è parte di loro li costringe come se fosse viva, a restare chiusi dentro quelle mura come fossero insetti in una giara. Edith e Lucille dividono lo stesso tetto, due donne opposte, una apparentemente fragile, ingenua, solare, vestita di bianco, l’altra apparentemente forte, sicura di se, passionale, crepuscolare, vestita sempre a lutto e visibilmente squilibrata. La farfalla e la falena. Sono loro le protagoniste, le donne che sono capaci di sopportare tutto per amore, l’amore visto come una forza distruttiva e incontrollabile che le distrugge, le cambia. L’amore che ci “trasforma tutti in mostri” (tema anche affrontato dallo stesso nella serie TV The Strain) il più oscuro dei sentimenti umani. Crimson Peak è stato da subito bollato dai media come “il film con la casa dei fantasmi” ma il regista ha invertito la definizione spiegando che si tratta più di una storia con “dei fantasmi all’interno” e ha dichiaratamente evitato ogni facile inquietudine che viene generata nello spettatore quando in un racconto ci sono possessioni demoniache esorcismi e interventi del diavolo. Le presenze non sempre al centro della vicenda sono i silenziosi spettatori della vita di Edith, il film non fa nessun riferimento allo spiritualismo religioso. Cos’è un “Fantasma” per Del Toro viene spiegato benissimo nel suo film “spagnolo” La Spina del diavolo a cui Crimson Peak deve molto in auto citazioni e parallelismi concettuali, il fantasma è un ricordo, qualcosa di “indelebile” che non potrà mai essere eradicato del tutto. Le creature si muovono con le mani scheletriche di Dough Jones, contorsionista, attore e animatore, famoso per aver interpretato “l’uomo pallido senza occhi” de Il labirinto del Fauno. Gli enormi set plasmati dal nulla sono interamente artigianali, la stessa dimora è costruita su tre piani dotati di stanze multi funzionali carrucole e ascensori come a teatro, la cornice della collina rossa dove ha le fondamenta, dà l’impressione di un set esterno su di una altura innevata ma è in verità un capannone dove la nebbia finta fa perdere la concezione dello spazio. Illusioni ottiche e fotografia tecnicolor con forti tonalità di blu e rosso alla Lamberto Bava. I costumi sono realizzati con dettagliatissimi ricami e stoffe realmente antiche da Kate Hawley (costumista de Lo Hobbit). La colonna sonora di Fernando Velazquez ci accompagna dall’inizio con la più “creepy” delle ninne nanne. Visibilmente ineccepibile non va incontro ai gusti di tutti, chi si aspetta di vedere un horror da “salto sulla sedia” può restare a casa a guardarsene uno in dvd, lo stesso vale per chi si aspetta un film d’azione dal ritmo frenetico e non guarderebbe mai un adattamento di un libro di Jane Austen alla tv. Il film è un incubo meraviglioso consigliato a chi non ha mai smesso di leggere i romanzi d’amore e a sognare nel bene e nel male.
 
Francesca Tulli
 

Il Ponte delle Spie

Venerdì 04 Dicembre 2015 13:16
Sul ponte delle spie di Steve Spielberg, si combatte una lunghissima partita a scacchi, fatta di mosse e contro mosse. Tom Hanks è l’avvocato James B. Donovan, a lui nel 1957 durante la Guerra Fredda, viene affidato il compito di rappresentare in tribunale un anziano pittore senza patria il “colonnello” Abel (Mark Rylance) accusato, a buon ragione, di essere una spia russa. I due sono uomini stoici, uomini che non si sono mai piegati, l’uno osservante della legge, incorruttibile sul lavoro, padre di famiglia, dalla dialettica invidiabile. L’altro alla fine della sua vita, fedele sempre a se stesso e alla sua arte. La stima reciproca porterà inevitabilmente i due protagonisti a spalleggiarsi in un gioco più grande di loro. Mentre il governo ipocrita degli Stati Uniti spinge perché Abel finisca sulla sedia elettrica e l’avvocato difensore venga messo alla gogna dall’opinione pubblica, i Sovietici catturano vivo il (non ancora) famoso pilota americano Gary Powers (Austin Stowell) in missione segreta e un povero studente della stessa nazionalità Frederic Pryor (Will Rogers), colpevole solo di aver deciso di studiare economia e comunismo all’ombra del muro di Berlino. I due ragazzi diventano la merce di scambio con cui Abel potrebbe tornare in patria, il resto è storia. Storia vera, come fu per Schindler’s List, ancora una volta Steven Spielberg, perpetua il suo impegno a far conoscere alle nuove generazioni (e non solo) gli uomini giusti che hanno fatto (davvero senza retorica) la differenza. Si parla troppo spesso di come il regista, abbia ormai perso la scintilla che lo faceva grande negli anni 90. È Innegabile che anche in questo film, il ritmo sia soggettivo (quasi assente) le sequenze delle arringhe in tribunale sono estenuanti e faticose come quelle del suo “Lincoln” nel 2012, anche questa volta la “guerra” di sfondo ricorre come tema portante, ma questa “guerra” qualcuno al cinema la deve pur fare, e Spielberg dimostra ancora di padroneggiare la materia, la sua fotografia viene continuamente imitata, copiata, rimasticata ma mai raggiunta. Il ritratto di Berlino Est è crudo, agghiacciante, Donovan si muove nel suo cappotto a testa bassa, sotto la neve mentre il muro viene costruito, mattone su mattone. La pesantezza della storia. Il ponte del titolo è lo scenario perfetto per la sequenza cruciale, in cui la notte disegna le figure dei protagonisti quasi fermi congelati, come in un quadro. I dialoghi sono scritti da Matt Charman e dai fratelli Choen (e si vede) restano impressi come il sorrisone di Tom Hanks e gli sguardi bassi, buoni e disarmanti, di Mark Rylance (non a caso l’attore è stato scelto dallo stesso regista per interpretare “Il GGG Grande Gigante Gentile” nel suo prossimo film) è delizioso e invidiabile il suo approccio alla paura. Thomas Newman non sostituisce John Williams come compositore della colonna sonora ma fa la sua parte. Il trucco, la ricostruzione minuziosa dei costumi d’epoca, le facce delle comparse e dei comprimari, sempre “piene” sempre precise, si può intuire che si tratta di un film di Spielberg anche solo da questo, c’è una firma inconfondibile dietro a tutti i suoi lavori, una precisione invidiabile, con i suoi quasi, settanta anni, il maestro di storia più amato dal mondo, ha ancora tanto da insegnare. 
 
Francesca Tulli

Heart of the Sea. Le origini di Moby Dick

Domenica 13 Dicembre 2015 13:48
Ron Howard, come altri coraggiosi registi del passato, naviga nelle profonde e torbide acque dove alberga la balena bianca. Non tocca il romanzo di Herman Melville (1851) ma si affida al recente libro del 2000 di Nathaniel Philbrick, che racconta a suo modo le vicende della Hessex, la vera nave che secondo le cronache incontrò la fine dopo aver sfidato la natura. Owen Chase (Chris Hemsworth) è un baleniere di umili origini, amato dalla moglie e in attesa del primo figlio, il suo sogno è diventare capitano ma nonostante la bravura, sembra destinato ad essere sempre e solo il “primo ufficiale” di bordo. George Pollard (Benjamin Walker) Capitano lo è davvero, per nobili natali non per altri meriti, e la sua inettitudine, mette più volte a rischio l’avventura in cui si imbarca con il giovane Chase sull'Hessex. L’equipaggio è formato da uomini in cerca di redenzione e giovani orfani, uno di loro Tom Nickerson (Brendan Gleeson) in vecchiaia, sopravvissuto alla fine del viaggio, trova il coraggio, per soldi e spinto dalla moglie, di raccontare i veri accadimenti del suo passato all’emergente scrittore di passaggio Herman Melville (Ben Wishaw) in cerca di ispirazione per il suo nuovo romanzo Moby Dick. L’avventura viene esposta senza abbellimenti, mostrandosi una lunga traversata nel mare aperto, l’equipaggio è ansioso di udire il primo uomo urlare “Soffia” e di incontrare i giganti degli abissi che possono riempire la pancia della nave di olio e ricchi proventi. Le balene, che inizialmente sono carne da macello e soldi guadagnati con il sudore di uomini che fanno solo il loro mestiere, diventano le protagoniste quando si fanno portatrici della forza della natura che, si sa, non va mai sfidata. Crudo e grottesco il ponte che si riempie di sangue e viscere della prima balena catturata, finto e surreale il “mostro” digitale del “titolo” e il resto del “banco” di balene che lo accompagna . La sceneggiatura è semplice a tratti prevedibile. Gli attori si tormentano e si sottopongono a sforzi inumani per reggere una pellicola come tante. Chris Hemswoth, rinuncia addirittura a “metà” della sua prestanza fisica, si sottopone a una rigidissima dieta per ridurre i suoi muscoli e sembrare un naufrago “smunto e provato”, uno sforzo lodevole ma non premiato dal regista che lo fa solo percepire attraverso il trucco pesante e gli abiti logori. Il target del film non è chiaro, troppo cinico e noioso per convincere i bambini, non abbastanza rimarcabile per abbagliare gli adulti come “A Beautiful Mind” (2001). La combinazione Howard, Warner Bros, Blockbuster sembra non funzionare, se non per un godibile pomeriggio con gli amici al cinema.  
 
Francesca Tulli
Non tutti sanno che la frase più detta nella saga di Star Wars non è “Che la Forza sia con te” ma “Ho un brutto presentimento.” Quando nel 2012, George Lucas siglò l’accordo con la Disney che segnò il destino della saga e si decise per proseguire con gli Episodi 7, 8 e 9 molti fan la usarono per esprimere il proprio scetticismo. Con la regia di J.J. Abrams e la produzione della presidentessa della Lucasfilm Kathleen Kennedy ha visto la luce il primo film di questo progetto “Il Risveglio Della Forza”. Tanto tempo fa, in una Galassia lontana lontana, Luke Skywalker l’ultimo dei cavalieri Jedi guardiani di pace e di giustizia, è sparito, la Resistenza sotto la guida del Generale Leia Organa invia il suo miglior pilota Poe Dameron (Oscar Isaac) e il suo droide BB8 alla sua disperata ricerca. All’ombra della Nuova Repubblica (nominata ma inesistente) è nato circa quarant’anni dopo la caduta dell’Impero Galattico, una forte opposizione militare, il Primo Ordine, tra le alte gerarchie Kylo Ren (Adam Driver) emulo di Darth Vader, si mette sulle tracce della mappa che conduce a Luke. Tra i biechi soldati dell’impero, FN-2187 (vi dice nulla questo numero? ) altrimenti detto “Finn” (John Boyega) si rifiuta al suo primo incarico di sparare e uccidere degli innocenti per conto del Primo Ordine e diserta. Sul desertico pianeta di Jakku, vive Rey (Daisy Ridley) una giovanissima ragazza che si guadagna la giornata barattando rottami e pezzi di ferraglia con esigue porzioni di cibo. I tre “nel momento sbagliato e nel posto sbagliato” si ritrovano a combattere “l’unica lotta esistente” quella contro la nuova manifestazione del Lato Oscuro della Forza. Ripescando le atmosfere meravigliose degli scenari immaginati da Ralph McQuarrie nel 1977 e avvalendosi del supporto del vecchio cast originale e della colonna sonora di John Williams, Abrams prende lo schema di “Una Nuova Speranza” e lo rivomita a suo gusto. Avvalendosi dei potenti mezzi a sua disposizione rimodella perfettamente (in scala 1:1) le astronavi più amate dal pubblico creando una simpatia quasi obbligatoria da parte degli appassionati che non possono restare indifferenti davanti al Millennium Falcon che spicca il volo dopo 32 anni. Si coltiva gli animi feriti di chi aveva storto il naso, quando Lucas si avvalse (quasi) solo di CGI per creare le creature nei prequels e ripesca gli scarti di lavorazione di John Mollo per plasmare le nuove razze aliene di passaggio servendosi della forza e del realismo dei “pupazzi” (fastidiosa solo la Motion Capture usata su alcuni personaggi chiave, tra cui quello interpretato da Andy Serkis, il Leader Supremo Snoke). La Disney decide di “decanonizzare” tutto il materiale cartaceo ufficiale scritto in 35 anni da svariati scrittori e sceneggiatori, composto da fumetti e romanzi che completavano “l’Universo Espanso” di Star Wars (che mai dall’83 in poi aveva subito incongruenze) per creare una nuova linea temporale in cui muoversi, ma furbamente depreda le idee migliori dei suddetti autori per rimescolarle a piacimento senza fargli avere nessuno profitto. Un vero “plagio”. Ma conquista il mondo. Fa un incasso senza precedenti per la sola prevendita e ingolfa le sue tasche con le speranze e i sogni di chi questa saga la vive con entusiasmo da sempre. Il “Risveglio” è un film per adolescenti infiocchettato da una cappa nostalgica e da citazioni perfette dette al momento appropriato per generare entusiasmo (puro) dove il vero problema non è la “scarsezza di progressi” che fanno i protagonisti per dimostrare davvero il loro posto e il loro valore (potenzialmente gli attori hanno tutti talento da vendere) ma è l’antagonista. Kylo Ren è il personaggio meno carismatico della storia della Fantascienza cinematografica moderna, un bamboccio assetato di vendetta, che pesta i piedi perché vuole troppo e le sue azioni si ripercuotono rovinosamente sull’intera vicenda. Non mancano le battute facili, che vengono tanto criticate (a buona ragione) nei film della Marvel, alcune obiettivamente divertenti altre esagerate e inopportune. Spesso si dice che il problema di Guerre Stellari “Siano i fan” (io ne faccio orgogliosamente parte) alcuni lo hanno definito un “fan movie” ad alto budget, altri hanno semplicemente detto che non si può “non” considerare una parte della saga, ma bisogna avere il coraggio di uscire dai social e di riconoscere che si può avere la facoltà di dire e di pensare dopo tanti anni che “non è Star Wars” non è la Space Opera che fino ad oggi abbiamo conosciuto (con i suoi alti e bassi) e questa opinione deve essere rispettata senza il pericolo di essere sventrati da una spada laser a croce. I digiuni di Star Wars (o gli affamati meno esigenti) lo possono senza dubbio trovare godibile, è accessibile anche a chi non sa nulla dei precedenti (ma sprona ad un ripasso veloce). E’ innegabile che quello che sta portando è un vero “Risveglio” dell’argomento che si era acquietato dal 2005 anno in cui uscì al cinema La Vendetta Dei Sith e questo è un bene. L’impressionate bisogno di tutti di condividere “la Forza” è un buonissimo auspicio per il futuro, questa saga ha il potere di unire, commuovere e generare amicizie. Augurandoci che questo non porti solo alla moda e alla strumentalizzazione dell’argomento in questione, che la Forza sia con noi. Sempre.
 
Francesca Tulli

Franny

Sabato 16 Gennaio 2016 12:06
Franny (Richard Gere), protagonista dell’opera prima dell'esordiente Andrew Renzi, è un vecchio solitario, miliardario e proprietario di un ospedale, che risvegliatosi da un coma è assalito dai sensi di colpa per la perdita degli unici amici che aveva. Viene contattato dalla figlia della coppia Olivia (Dakota Fanning), che in tenera età aveva soprannominato affettuosamente “Poodle”. La ragazza, prossima al parto, sta per sposarsi con il neo dottore Luke (Theo James); ai due innamorati non manca nulla in termini di volontà, ma il loro profilo economico non gli garantisce il massimo per il loro futuro, a questo penserà Franny, il loro “Benefattore” (The Benfactor è il titolo originale della pellicola). Quella che ad un primo  sguardo può passare per la filantropia di un vecchio amico, nasconde in realtà un personale e morboso bisogno di ricostruire una propria personalissima realtà, ricca di un grande vuoto emotivo, sostituendo la coppia di amici di un tempo, ormai non più in vita, con i due giovani “sconosciuti”. Così Franny, che entra nella vita dei due come uno zio premuroso, diventerà presto un peso, una figura invadente e non sempre ben voluta. Richard Gere, che con sincera generosità si mette ancora una volta a disposizione di un regista emergente per far decollare il suo film, è un esempio di reale filantropia, e non delude, non ha paura di mostrare la sua età, resta inossidabile nella classe di un attore che rasserena il pubblico e porta la pellicola a compimento, facendo uscire dalla sala lo spettatore con un sorriso. Il regista, nato nell’84, racconta Gere nella conferenza stampa tenutasi a Roma durante la promozione del film, non voleva connotare il suo protagonista con un particolare orientamento sessuale né voleva che rientrasse in altri stereotipi: Franny è semplicemente un uomo che vive l’amicizia a suo modo e fa della sua vita quello che vuole. Una buona lettura del significato di famiglia, senza implicazioni religiose o di sangue. E’ stato presentato al Tribeca Film festival del 2015 ottenendo un distributore ufficiale, la Samuel Godwyn film. Un film indipendente godibile, al pari di tanti premiati e famosi, esempio di come il cinema d’autore sia a volte sopravvalutato.   
 
Francesca Tulli

Joy

Domenica 17 Gennaio 2016 12:19
In un mondo dove le commedie sono “fuori tempo”, David O. Russel le riporta in auge e ricompatta il suo team vincente di attori protagonisti de “Il Lato Positivo”. Joy (Jennifer Lawrence) ha una famiglia rimarcabile composta da una nonna sognatrice, un padre inopportuno (Robert De Niro), un marito con cui va più d’accordo da divorziata, un figlio “invisibile”, una figlia adorabile e una madre rimbambita che vive attaccata alla tv a seguire le Telenovelas. La ragazza non sa quale direzione far prendere alla sua vita, è costretta a fare da “mamma” anche ai genitori. La sua giornata viene riempita da battibecchi e faccende domestiche surreali. L’inaffidabilità dei prodotti per la casa, la portano ad ingegnarsi per costruire un modo per pulire senza sporcarsi. Un bel giorno prende i pastelli colorati della figlia, le trecce di lana di una sua bambola e, dal niente, una lampadina si accende nella sua testa, disegna il primo prototipo di Mocio riutilizzabile e lotta perché la sua idea entri nelle case di tutti. Pronta a tutto lo brevetta lo fa sponsorizzare arriva addirittura alla scrivania di un vecchio amico del suo “quasi” marito, Neil Walker (Bradley Cooper). Egli dirige i traffici del magico mondo delle televendite e la rimbambisce di chiacchiere come faceva la nonna, il sogno americano del “tutto è possibile” diventa il vero protagonista della pellicola. Tutto fu davvero così per l’imprenditrice Joy Magnano, grazie alle sue invenzioni (più di 100) la donna con i suoi 59 anni è tutt’oggi sulla cresta dell’onda. Il film è liberamente ispirato alla sua vita. Jennifer Lawrence ha già ottenuto un Golden Globe per il ruolo da protagonista femminile nella categoria “Comedy-Musical” ed è (per la quarta volta) in lista per l’Oscar (nel 2013 ne vinse uno con lo stesso regista). La Joy cinematografica sembra una caricatura della imbattibile Katniss di Hanger Games (interpretata dalla stessa) con il doppio della determinazione e la lingua ancora più tagliente. Super Donna, Super mamma, frenata solo dalla vita che sembra voler castrare i buoni propositi dell’intero mondo. La sceneggiatura altrettanto affettata porta la firma del regista. I costumi sono indubbiamente accurati per il mood anni 90, come in un catalogo di Barbie. Il compositore della colonna sonora David Cambell convince solo nelle sequenze che vogliono diventare “cult”. Girato senza dubbio con sapienza, la fotografia dai colori saturi e la scenografia da romanzo leggero contribuisco al “troppo” stupore che lo spettatore percepisce guardando una pubblicità perfetta. La sensazione che si ha è che il regista non abbia voluto rischiare, puntando sul suo cavallo “vincente” la solita cifra. Ma questa è l’America.
 
Francesca Tulli

La Corrispondenza

Lunedì 25 Gennaio 2016 16:00

Giuseppe Tornatore non ha mai nascosto di essere romantico. Com’era stato per “La migliore offerta” lascia gli scenari affollati di Baarìa per dirigere un film da camera con pochi attori. Amy (Olga Kurylenko) è una studentessa fuori corso, che arrotonda facendo la stuntman, giovanissima amante di Ed (Jeremy Irons) professore della sua materia preferita: Astronomia. I due divisi dalla lontananza e dalla loro relazione segreta hanno poco tempo da trascorrere insieme e avviano una lunga corrispondenza, fatta di mail, lettere, pacchetti misteriosi, sms criptici. Nell’aula magna della loro università, Amy, durante una conferenza, apprende una notizia che le cambia la vita e la corrispondenza assume una forma del tutto diversa. L’intera pellicola è una lunga riflessione sul mistero che avvolge l’esistenza terrena, ricevere una lettera non significa necessariamente parlare con il corrispondente, essere amati non vuol dire necessariamente toccarsi, baciarsi, fare l’amore, certe volte basta un segno del proprio passaggio, come le stelle che una volta estinte lasciano dietro di se l’esplosione che genera una supernova. Fa sorridere l’efficienza dei servizi postali della sbandierata “TNT” il famoso marchio di corrieri veloci, che fa da “sponsor” al film. Paradossale è anche l’uso della tecnologia, troviamo CD rom che gettati nel fuoco vengono letti da un Haker-Smanettone improbabile con amici nei servizi segreti, schede di memoria che funzionano dopo essere state gettate in acqua, Videocamere vuote con tracce di “vita” nella memoria, non si esclude che in casi particolari questo possa essere “verosimile” ma non con questa “semplicità” e frequenza. Il Maestro Morricone musica la malinconia e l’aspetto più intimo della vicenda. Delle Location è straordinaria l’isola Piemontese di San Giulio (nel film “Borgo Ventoso”) una italianissima “Mont-Saint-Michel” immersa nell’acqua del lago d’Orta. Astronomia, teoria delle stringhe, Multiversi, lo studio degli astri e delle stelle sono il principale espediente per raccontare questo dramma, che sembra concludersi nel migliore dei modi fino alla discutibile direzione che prende il finale. Romantico e surreale, diverso nella forma dagli altri film del regista, ma contraddistinto dalla stessa tenerezza. Lento, un po’ ingenuo ma nel complesso dignitoso. 

 
Francesca Tulli

Il figlio di Saul

Martedì 26 Gennaio 2016 22:10

Visto dagli occhi di uno dei Sonderkommando il “figlio di Saul” di Làszlò Nemes è un’atroce prospettiva di vergogna per l’intera umanità. Saul Ausalnder (Gèza Rohrig) è un ebreo ungherese costretto forzatamente ad appartenere alla casta dei lavoratori “vip” all’interno del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, ha un’aspettativa di vita di quattro mesi, locali riscaldati dove dormire, un piatto di ceci al giorno, in cambio sono richieste le sue braccia forti per ammassare i cadaveri della sua gente, spalare la polvere di ciò che ne resta una volta fuori dai forni crematori, accompagnare i “morti” ancora vivi alla “soluzione finale”. Attraverso l’orrore scopriamo che un bambino nudo in mezzo a mille altri respira ancora, il corpicino innocente, soppresso nel giro di pochi minuti dal “medico” del campo, accende in Saul la voglia di tornare a sentirsi umano. Laddove non si può essere un “eroe” il suo bisogno primario diventa quello di seppellire quel ragazzo, “suo figlio” dice lui, nel più sacro dei modi, assolvere al comandamento universale di “vestire chi è nudo, sfamare chi è affamato, seppellire chi è morto”. Non si accontenta delle preghiere clandestine dei suoi compagni, cerca un Rabbino nel profondo girone dei dannati innocenti arrivati al campo e la sua ricerca, inosservata dai carnefici, attira le attenzioni dei ribelli pronti a fare un blitz per cercare di fuggire e raccontare al mondo la verità. La regia, spiega Rohrig presente alla conferenza stampa tenutasi a Roma per l'uscita del film, per evitare sguardi “pornografici” si avvale di un operatore che segue solo il protagonista, i suoi occhi stanchi che hanno visto troppo, la sua nuca mentre cammina tra inquadrature sfocate e grida agghiaccianti. Il sonoro, ottenuto con cinque settimane di sessioni per i rumoristi, è un espediente riuscitissimo per “sentire” la Shoah con rispetto e senza indugiare su aspetti gratuitamente macabri. Deve dichiaratamente molto agli scritti di Primo Levi. Non sorprende che nonostante sia stato girato in soli 28 giorni, con un budget bassissimo, abbia già vinto moltissimi premi come il Gran Prix Speciale della Giuria alla 68°esima edizione del festival di Cannes, il Golden Globe come “Miglior Film Straniero” e la nomination all’Oscar nella stessa categoria. Nonostante questo, il film non è stato fatto a tavolino da una Major di Hollywood ma con modestia da una casa indipendente, la Laokoon Filmgroup. Il 27 Gennaio ricorre la Giornata della Memoria, è molto importante non dare per scontato, in un mondo fatto anche di negazionisti e giovani fascistelli ignoranti, che tutto questo è accaduto. I nazisti non era mostri di un altro pianeta, erano esseri umani e gli uomini che fanno la guerra attraverso il lavoro sporco degli altri, esistono ancora. Oggi forse un olocausto lo progetterebbero con l’aiuto dei droni. Un film così dovrebbero vederlo tutti. Questa pellicola è la dimostrazione che il cinema non è solo intrattenimento, è uno strumento potentissimo che può svegliare le coscienze di molti. 

 
Francesca Tulli

PPZ. Pride + Prejudice Zombies

Giovedì 11 Febbraio 2016 16:23

Il rivoltante accostamento Jane Austen e morti viventi, è un idea di Seth Grahame-Smith autore del best seller PPZ:Pride Prejudice and Zombies oggi film diretto da Burr Steers per lucrare sulle orde di adolescenti alla ricerca di nuovi cult. La signora Bennet deve maritare le sue tre figlie, Elizabeth (Lily James), la secondogenita, ha preferito studiare le arti marziali dai monaci Shaolin in Cina (piuttosto che frequentare le altezzose scuole giapponesi delle sue coetanee) e non ne vuole sapere di smettere di uccidere Zombie per la patria Inghilterra in cambio di una vita modesta da moglie, fino a quando non incontra Mr. Darcy (Sam Riley) che da subito (fin troppo “da subito”) stuzzica la sua curiosità e duella con lei in quel gioco di sguardi, diverbi e cappa e spada, che finirà per dividerli prima e unirli dopo per sempre felici e contenti. Abominevole come Lizzie sia stata privata del suo carattere pungente e della sua forte personalità e ridotta ad un eroina scialba come (quasi) tutte le ragazze super forti dei film per ragazzi, rivisitare una storia o, come in questo caso, un classico letterario sembra essere un’impresa sempre più ardua, perché la buona propaganda femminista (di cui questo film è un esempio perfetto) di mettere un'arma in mano ad una donna e renderla così “sexy e invulnerabile” toglie a gran parte delle protagoniste la forza interiore, quella vera di cui davvero le donne sono capaci e che ha incantato generazioni di ragazze. Tanto Orgoglio e Pregiudizio nella sceneggiatura e pochissimi sporadici ridicoli zombie, un’occasione bruciata di vedere un'orda di barbari mangia cervelli vestiti in stile regency, quelli che ci sono hanno un buon trucco da “zombie walk” ma risultano meno minacciosi e meno numerosi (almeno per tre quarti di film) di quelli visti nelle lunghe stagioni della serie The Walking Dead e non suscitano nessun dubbio morale su “la vita e la non vita”. La scelta del cast è discutibile, ne esce bene solo l’attore inglese Matt Smith, che interpreta una ancora più caricaturata versione imbellita del Reverendo Collins, spasimante senza speranza di Lizzie, di per sè parodia dei rappresentati del clero anche nell’originale, strappa qualche sorriso facile per la sua goffaggine teatrale. Lily Collins, la protagonista, (fu Cenerentola per Branagh) sembra non credere a quello che fa, e non si prende sul serio (come potrebbe?) e il Mr Darcy con un acconciatura di capelli ridicola è messo in ombra dall’avvenenza del suo compare Mr.Bingley (Douglas Booth), scelta non voluta e paradossale. I costumi sono di buona fattura ma la scenografia a basso budget fa pensare ad una consapevolezza di scadere nel trash come la neve finta sul finale. Una nota positiva sono le musiche di Fernando Velázquez (esperto compositore di colonne sonore di moltissimi horror) e i titoli di testa “ritagliati” come un libro. Tanto imbarazzo, non abbatte i pregiudizi e non rende orgoglioso nessuno, tantomeno i fan dei due generi.

 
Francesca Tulli

La Ricompensa del Gatto

Giovedì 11 Febbraio 2016 16:57

La ricompensa del Gatto è uno dei film d’animazione “minori” dello Studio Ghibli (famoso grazie al nome del suo fondatore Hayao Miyazaki) del 2002. La regia questa volta è di Hiroyuki Morita che adatta il manga “Baron: Neko no Danshaku” per il grande schermo. Il fumetto e il film raccontano la storia della liceale Haru che passeggiando con la sua amica per le strade del Giappone salva coraggiosamente un gatto da un violento impatto con un camion buttandosi nel bel mezzo della strada. La ragazza viene sorpresa nei giorni successivi da mille attenzioni “non richieste” (come dell’erba gatta altissima nel giardino della sua abitazione e topolini impacchettati sul fondo del suo armadietto a scuola), il tutto le sembra assurdo fino a quando non scoprirà che il gattino è in realtà il principe di un regno parallelo abitato da gatti e che questo gesto la rende degna di tutti gli onori agli occhi del grasso re felino a capo della comunità che la vuole maritare proprio con suo figlio. Sarà compito dell’affascinate ed elegantissimo Barone Baron Humbert Von Gikkingen (un soprammobile a forma di gatto che ha preso vita grazie ad un sortilegio) e dal suo fido secondo ciccione il gatto Muta (“mucca”) salvarla dal suo destino inesorabile. Dietro a questo film ci sono diverse citazioni che sfuggono agli occhi di chi non è appassionato del genere, nel precedente film “I sospiri del mio cuore” del 1995,  Baron compare in un contesto del tutto diverso, come statuetta antropomorfa nel negozio di un anziano signore Shiro Nishi e diventa il soggetto del romanzo che scriverà la protagonista che racconta di come il barone abbia perso la sua amata e di come da quel giorno abbia dedicato la sua vita alla sua ricerca. Questo personaggio è diventato così popolare in giappone da giustificare la realizzazione di questo “sequel”. L’animazione che vanta i colori tipici dello Studio è più “povera” rispetto a capolavori come Il castello errante di Howl, La città incantata o la principessa Mononoke ma lascia quella stessa soddisfazione all’occhio per metterlo una spanna sopra a tanti altri film d’animazione giapponese. Le musiche non sono di Joe Hisaishi (storico compositore delle colonne sonore di molti lungometraggi Ghibli) ma di Yuji Mori che scrisse i pezzi per “I sospiri del mio cuore” (di cui sopra). Una nota bisogna farla sull’adattamento italiano: i film dello studio sono stati affidati dalla Lucky Red a Gualtiero Cannarsi, appassionato conoscitore della lingua, che purtroppo per essere “troppo fedele” traduce da qualche anno a questa parte letteralmente dall’originale rendendo certi dialoghi indigesti e altri addirittura ridicoli. Nostalgia, dolcezza e una frivola ventata di freschezza per chiunque, il target dei film d’animazione giapponese spesso è adulto, questa volta anche i bambini possono apprezzarlo e immergersi in una favola bizzarra imparando che l’amore è la più imprevedibile delle emozioni. 

 
Francesca Tulli
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