Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » Recensioni » Visualizza articoli per tag: fuoritraccia
A+ R A-
Visualizza articoli per tag: fuoritraccia

Corso di Ufficio Stampa & Grandi Eventi

Martedì 19 Luglio 2011 10:20

L'Ass. Culturale "FuoriTraccia" organizza corsi di Ufficio Stampa & Grandi Eventi

Una serie di incontri che introducono in maniera pratica e reale al lavoro dell'addetto stampa e dell'organizzatore di eventi. Un percorso formativo, lungo il quale scoprirete come diventare registi di un grande evento, e acquisirete in modo semplice ed efficace le principali regole di questo mestiere
Il corso è suddiviso in 2 week end per un totale di 24 ore di lezione durante le quali responsabili di comunicazione, addetti stampa, giornalisti e responsabili marketing illustreranno ai partecipanti come ideare, pianificare, organizzare e promuovere un evento. Professionisti del settore che insegneranno le tecniche di project management e le strategie di comunicazione mirate attraverso approfondimenti, esercitazioni pratiche.
Il corso è a numero chiuso: max 20 partecipanti.

Intervista a Roan Johnson

Venerdì 20 Marzo 2015 17:55
Il regista e sceneggiatore Roan Johnson, dopo l’esordio al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2011 con la sua brillante opera prima, I primi della lista, torna dopo tre anni con una piccola commedia generazionale, ambientata nuovamente nella sua Pisa. Fino a qui tutto bene, storia di cinque amici per la pelle e dei loro ultimi tre giorni nell’appartamento pisano che li ha ospitati negli anni dell’università. Il film, vincitore del premio del pubblico come miglior film nella sezione Prospettive Italia, è stato realizzato in partecipazione, vale a dire che nessuno è stato pagato per il lavoro, ma tutti hanno avuto una percentuale di diritti del film. Roan ci racconta la sua esperienza.
 
Il film è nato dall'idea di girare un documentario sull'università di Pisa. In cosa consisteva il progetto nello specifico?
 
Loro ci avevano chiesto di fare un documentario e per noi pensare a un documentario sull’università è come pensare a un documentario sul mondo, ci sono mille punti di vista, mille sfaccettature e quindi abbiamo optato per uno step intermedio, anche perché loro non avevano i soldi per fare un vero e proprio documentario. Abbiamo deciso di fare comunque una ricerca e abbiamo inviato una mail a tutto l’ateneo con delle domande accademiche, ma soprattutto personali; del momento di vita che stavano vivendo, dell’esperienza dei fuorisede e varie cose. Ci sono tornate indietro 400 mail, abbiamo estratto quelle che ci interessavano di più e abbiamo intervistato 40 ragazzi. È venuto fuori un montatino di interviste che si chiama L’uva migliore, proiettato all’università di Pisa. Il giorno della proiezione c’era anche Beppe Severgnini, che ha apprezzato l’iniziativa e ha scritto un articolo sulla prima pagina del Corriere. All’università si sono gasati e ci hanno spinto a fare il documentario. Noi eravamo allettati da questa proposta, ma non avevamo trovato quello che ci serviva. Stavamo per rinunciare poi a Ottavia (Madeddu, ndr), che mi aveva aiutato nella ricerca, è venuta in mente l’idea del film. 
 
 
Quanto c’è di autobiografico?
 
Qualcosa c’è. Abbiamo riscritto le storie e le sensazioni che ci hanno dato i ragazzi, però c’era anche tanto di nostro. Io ho vissuto in diverse case con diversi coinquilini ai tempi dell’università. Abbiamo fatto una specie di mescolanza tra i racconti dei ragazzi di oggi e quello che abbiamo vissuto noi al nostro tempo.
 
Quali sono state le difficoltà produttive rispetto a I primi della lista? 
Come siete arrivati all’idea di realizzare il film in partecipazione? 
 
Io stavo aspettando di fare un altro film con Carlo Degli Esposti, che dovrei girare il prossimo anno, solo che c’era giustamente una sorta di coda. Carlo, produttore de I primi della lista, stava per produrre i film di Martone, Tavarelli e Amelio. Quindi davanti ad Amelio non è che dici “Vado prima io”. Quando abbiamo capito che sul teritorio c’era un aiuto da parte dell’Università di Pisa, del Comune e della Toscana Film Commision, ci siamo resi conto che forse ce l’avremmo fatta anche da soli andando in partecipazione. Non siamo nemmeno tornati a Roma a chiedere ai produttori. Sapevamo che ci saremmo sentiti dire che come minimo avremmo dovuto aspettare un anno. Io sapevo che poi avrei dovuto girare l’altro film e Fino a qui tutto bene non l’avrei più potuto fare. Avevo l’impressione che o l’avrei girato ad agosto o non l’avrei girato più. Il progetto mi era entrato dentro, perché era una storia che mi piaceva tanto poter raccontare con quella libertà. Così abbiamo deciso di rischiare e in questo devo ringraziare gli studenti che abbiamo intervistato, perché sono stati loro a darci questa sensazione di coraggio. Erano tutti ragazzi che non volevano arrendersi di fronte alla crisi. Io non c’ho manco colpa di questa crisi, dicevano, perché mi dovrei trincerare e non seguire le mie passioni. Quindi ci siamo buttati a occhi chiusi e ce l’abbiamo fatta. 
 
Quindi sei partito subito dal presupposto di non rivolgerti alle case di produzione. Perché? Quali sono secondo te le falle della nostra industria cinematografica? 
 
La trafila Rai-Ministero presuppone una serie di tempi molto lunghi e comunque una sorta di imbuto creativo. Certo, almeno che tu non abbia alle spalle una forza produttiva e creative come Sorrentino e Garrone. La commedia, considerata il genere più forte perché fa botteghino, paradossalmente deve avere degli stilemi molto omologati. Si pensa che vada un certo genere di commedia, quando invece, secondo me, riuscire a fare una commedia originale, diversa, che racconti qualcosa in più del semplice divertimento in sala, diventa paradosalmente più difficile che fare un film d’autore, non solo da un punto di vista dei finanziamenti, ma soprattutto dal punto di vista artistico-creativo. Avevo già provato altre volte a portare dei film, concepiti come low budget, a produttori più piccoli, indipendenti e loro mi dicevano che chiedendo pochi soldi a Rai Cinema e al Ministero sicuramente ce li avrebbero fatti realizzare. Quindi comunque sempre di là dovevo passare. Sapevo che comunque c’era una tempistica e mi sono convinto che saremmo stati in grado di farcela da soli. Ho preso questa scelta solo quando sono stato sicuro che amici professionisti, come il direttore della fotografia Davide Manca o il fonico Vincenzo Santo, accettassero anche loro quest’impresa un po’ folle. È stato lì che mi son convinto. Abbiamo avuto la conferma che anche gli attori stavano a questo gioco. Addirittura abbiamo avuto delle sorprese; io Alessio Vassallo, che comunque era già inserito in molte fiction Rai, onestamente non l’avrei nemmeno chiamato. Quando lui è venuto da me a dirmi che voleva fare il film, io gli ho spiegato che sarebbe stato in partecipazione e che avrebbe dovuto dormire con gli altri attori per tutto il periodo delle riprese. A lui non fregava nulla, gli piaceva il progetto, gli era piaciuto I primi della lista e voleva lavorare con me. Gli ho fatto comunque un provino ed è stato veramente eccezionale. È ovvio che questa della partecipazione non può essere una regola, lavorare con il rischio enorme di non vedere mai i soldi. Anche perché a me non piace lavorare gratis e non mi piace far lavorare gratis gli altri. Però ogni tanto ci può essere un'eccezione. Questo per me e per la storia del film era sicuramente il momento giusto per fare questo esperimento  
 
 
Hai parlato degli stilemi omologati della commedia di cassetta, tra questi ci sono senza dubbio le star.  La maggior parte degli attori del tuo film, invece, sono sconosciuti al grande pubblico.
 
Penso ci sia una sorta di umoralità nel cinema italiano. Quando ci fu l’esplosione di Accorsi dopo L’ultimo bacio, se tu non facevi il film con Accorsi sembrava che il film non si potesse fare. Questo secondo me va a discapito sia del film sia degli attori, perché magari si trovano a fare ruoli che non sono giustissimi per loro o ad avere una sovraesposizione mediatica che rischia di bruciarne qualcuno. Ora Accorsi sembra che stia vivendo una seconda fase della sua carriera, però c’è stato un momento di indigestione, dopo quella prima abbuffata, in cui lui sembrava un po’ scomparso. Per quanto riguarda la commedia di cassetta, lo stesso vale per molti comici televisivi. Se ci pensi la maggior parte dei film che vanno viene sempre da gente che ha fatto televisione e così si tende a snaturare anche un po’ la figura dell’attore. Io credo che se gestito bene anche un comico può fare un ottimo film, ma non può essere una regola. Albanese è diventato un attore molto bravo, ma ha fatto un percorso molto studiato ed è arrivato anche a fare film con Soldini e Amelio. 
Il mio obiettivo è sempre quello di trovare gli attori giusti per i ruoli giusti e non mi frega niente se siano famosi o meno. Per me è uno sforzo trovare le facce e le personalità giuste, perché se ne sbagli anche solo una il film zoppica. Per fortuna in questo caso ho avuto il 100% di libertà e gli attori si sono rivelati tutti molto gentili e disponibili. Si sono messi in gioco totalmente, hanno vissuto nella casa per 5 settimane fra prove e riprese. Io li amo. Credo che il film si fondi su loro 5 e se è venuto bene è soprattutto grazie a loro. 
 
 
Come li hai selezionati?
 
Quando io e Ottavia abbiamo scritto la sceneggiatura avevamo molto chiaro quali erano i personaggi. Avevamo solo scelto Paolo Cioni, non a caso il suo personaggio si chiama Cioni 
Per gli altri abbiamo fatto un casting abbastanza aperto su internet. Ci sono arrivate 2000 mail che abbiamo provato a scremare. Non conoscevo Melissa Anna Bartolini, che ci ha mandato tre clip di tre puntate con i The Pills. Lì lei parlava in romanesco e io pensavo fosse romana. Invece è arrivata e aveva un accento totalmente diverso, poi ho scoperto che era di Firenze. Lei era venuta per il ruolo di Ilaria, poi siamo riusciti a spostarla. Però anche Ilaria per me non poteva assolutamente essere del nord, doveva essere di un posto un po’ sfigato. Io me l’ero sempre immaginata di un paesino della Calabria o della Sardegna. Poi è venuta Silvia D’Amico, che io avevo visto a teatro un paio di volte. Ottavia se l’era ricordata e continuava segnalarmela. A lei abbiamo fatto un solo provino per capire che era quella giusta, mentre gli altri hanno dovuto fare un po’ un tour de force. Vassallo, già te l’ho raccontato, si è presentato lui. Guglielmo Favilla lo conoscevo già, perché lui, oltre ad aver fatto il Centro Sperimentale, è di Livorno e anche se non pisani non ci dovremmo mai mescolare, mi è sempre stato simpatico. Aveva già interpretato un piccolo ruolo ne I primi della lista e prima ancora un altro piccolo ruolo, tagliato al montaggio, nel Terzo portiere (episodio del film 442 – il gioco più bello del mondo, ndr). Quindi è stato un misto fra gente che conoscevo già e gente che ho scoperto.
 
Qual è secondo te il futuro della commedia italiana?
 
In questo momento c’è una sorta di schizofrenia, perché da un lato se ne producono molte con budget grossi e che tendono a fare molto incasso. Però mentre prima andavano più a botta sicura, ultimamente ci sono state un po’ di delusioni rispetto a questa modalità. 
È un meccanismo un po’ strano, perché mi è capito spesso di andare a vedere film che dovrebbero fare tantissimo ridere, ma non di non ridere per niente. Il cinepanettone è morto, quidi già c’è stata un'evoluzione, ma onestamente non è che vedo una grande spinta. D’altra canto, quali sono le grandi commedie che provano a prendere una via un po’ più originale? Mi viene in mente Zoran il mio nipote scemo, Si può fare, però non è che vedo tanto altro. C’è stato un momento molto felice di Soldini e sicuramente Virzì ha provato per molto tempo. Il capitale umano mi è piaciuto tantissimo e aspettavo una svolta simile in Virzì. Anche Tutti i santi giorni si muoveva su una direzione diversa del solito Virzì, era una direzione più indie, più da sundace, più europea e a me è piaciuto molto. C’è una lotta ed è difficile capire chi la spunterà, ovviamente io tifo per questo secondo tipo di commedia e vediamo che succede. È vero che se i film italiani incassano è comuqnue un bene per l’industria, ma è anche vero che c’è una sorta di feedback con il pubblico; se tu dai al pubblico dei film il pubblico inizia a rispondere, a capire e seguirti. 
 
Il film che stai preparando?
 
Se io non avessi fatto Fino a qui tutto bene sarebbero passati cinque anni dal primo primo film e cinque anni senza girare per un regista vuol dire che non impari. Poi io, non essendo nato come regista, ma come sceneggiatore, tutte le volte che vado sul set imparo qualcosa e mi sento di migliorare. Se sul set non ci vado, vuol dire che non miglioro, anzi è probabile che ci arrive poi con ancora più ansia. 
 
Qualche anticipazione?
 
Sarà una sorta di prequel, nel senso che I ragazzi saranno di 19 anni. Ambientato sempre ai giorni nostri. Finalmente giro a Roma, anche perché Pisa ormai è una sorta di maledizione; tutti i film che faccio sono ambientati a Pisa, invece io abito a Roma da 15 anni, tanto che conosco quasi più Roma di Pisa e mi viene naturale pensare a storie ambientate qui. Anche se produttivamente sarà più un casino, ma sentimentalmente mi ci sento più calato dentro. 
 
Tu hai cominciato come sceneggiatore. Ora sei alla tua seconda opera da regista e stai preparando la terza, senza contare l’episodio di 442. Hai intenzione di dedicarti interamente alla carriera da regista o tornerai anche a scrivere cose per altri?
 
Io credo che in qualche modo, avendo fatto il regista, abbia acquisito anche più strumenti come sceneggiatore. A me piace molto scrivere e mettermi a servizio di altri, ma Fino a qui tutto bene è stato uno spartiacque e dopo questo film mi sono convinto che da grande voglio fare il regista. Poi a me piace molto lavorare in gruppo, mi piace molto stare in mezzo alla gente, mentre la scrittura è un lavoro più solitario. Il problema è sempre il tempo, dopo I primi della lista sono stato fermo tre anni, però ora ho girato Fino a qui tutto bene, ho terminato due puntate per Sky e sto per girare l’altro film, quindi bisogna capire la tempistica. Non mi va di fare troppe cose tutte insieme. 
 
 
Di che tratta questo progetto Sky?
 
È una serie, si intitola I delitti del BarLume ed è tratta da romanzi di Marco Malvaldi, che è uno scrittore giallista pisano per l’appunto. Cappuccio aveva già girato due puntante, poi ci sono stati dei problemi, non si sono trovati bene e mi hanno chiamato quest’estate per realizzare altre due puntate, che sono fondamentalemnte due film da novanta minuti. Sono entrato come a metà del film di un altro regista, il cast l’avevano già scelto: ci sono Filippo Timi e Lucia Mascino. Anche questo è stato un bel rischio, ma si è rivelata un’esperienza molto importante per me. Ho avuto a che fare con un alto budget, una troupe più grande e delle dinamiche produttive opposte rispetto a quelle di Fino a Qui tutto bene e mi sono trovato a gestire cose molto diverse da cui ho imparato molto. Ho trattato la serie come se fosse un mio film, ho provato a dare il mio tocco, la mia visione e sono rimasto molto soddisfatto e stiamo capendo se farne altre due l’estate prossima.
 
Poi Sky sta realizzando ottimi prodotti, basti pensare alla serie di Gomorra..
 
Sky è stato fondamentale. Dovendo battersi contro il duopolio monolitico di Rai e Mediaset, nelle fiction ha dovuto rischiare facendo cose che su Rai e Mediaset non avrebbero mai fatto. Questo in qualche modo, oltre a produrre delle bellissime serie, ha fatto sì che anche la Rai si iniziasse un po’ a smovere. Vedo un po’ di cambiamenti anche in Rai, speriamo che vadano veloci e che diano veramente alla serialità la possibilità di evolvere. Con le serie americane ci siamo abituati a un impianto narrativo, a un’originalità e a una direzione degli attori meravigliosa. Credo che la serie tv sia un nuovo passo in avanti della forma e della narrazione audiovisiva, quindi spero che anche in Italia riusciamo a stare al passo. 
 
Angelo Santini

Uno degli appuntamenti formativi di FuoriTraccia| Cose dell'altro Cinema. La Casting Director Marita D'Elia ha incontrato gli attori, 2 e 3 febbraio, in un workshop di preparazione intensivo interamente dedicato allo studio dei provini cinematografici. maggiori dettagli Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

VISIONI FUORI RACCORDO FILM FESTIVAL

Venerdì 18 Novembre 2011 23:35

Uno spazio dedicato al cinema delle periferie. È il Visioni Fuori Raccordo Film Festival, la  rassegna cinematografica che da 5 anni ormai si propone aprire lo sguardo sulle periferie del nostro Paese, le sue aree marginali e le sue realtà invisibili e parte giovedì 24 novembre al Nuovo Cinema Aquila Dieci i documentari selezionati tra i quali la giuria, composta da Cecilia Mangini, importante esponenti del cinema italiano, Marco Bertozzi, documentarista e storico del cinema, e Antonio Medici, critico cinematografico e docente universitario, assegnerà il premio alla Migliore opera, che sarà inoltre inserita nella programmazione primaverile del Nuovo Cinema Aquila e due menzioni speciali: Memoria e Migranti. Per dare trasparenza al lavoro dei giurati e al contempo favorire una concezione dei festival come luoghi di riflessione e confronto culturale, i giudizi dei giurati su ogni film in concorso e la riunione della Giuria saranno ripresi e trasmessi online. Due Eventi Speciali arricchiscono il programma durante i quali saranno presentati alcuni lavori: Poi venne la casa vera di Paolo Isaja e Maria Pia Melandri (giovedì 24 novembre alle ore 21), documentario che ripercorre il “problema della casa” a Roma dal dopoguerra ad oggi, e This is my land… Hebron di Giulia Amati e Stephen Natanson (venerdì 25 novembre alle ore 21), un viaggio in una “terra contesa” alla scoperta degli aspetti più nobili, mostruosi e contraddittori dell’animo umano, già vincitore del Festival di Bellaria. Il festival si chiude sabato 26 novembre alle ore 22.00 con l’Omaggio ad Ansano Giannarelli, autore e regista recentemente scomparso, fra gli ‘ispiratori’ e grande sostenitore del Festival di cui è stato più volte membro della Giuria e la  presentazione, frutto della collaborazione dell’AAMOD e di Rai Teche, il film La ‘follia’ di Cesare Zavattini prodotto da Rai con la collaborazione di Reiac Film. Il documentario, realizzato da Giannarelli nell’82, che parte dal backstage del film di Cesare Zavattini, La vertitàaaa per approdare  ad  una riflessione metalinguistica e un ritratto/autoritratto del maestro e del suo allievo, Giannarelli che lo racconta come un maestro di “intelligenza sovversiva e di spiazzante semplicità, un teorico rivoluzionario e un cineasta ostinatamente dilettante”. Il Festival è diretto da Luca Ricciardi con il coordinamento artistico di Giacomo Ravesi e realizzato grazie al contributo della Regione Lazio – Assessorato alla Cultura, Arte e Sport e al sostegno della Roma Lazio Film Commission e dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e prodotto dall’Associazione LABnovecento in collaborazione con il Circolo Gianni Rodari Onlus .

Info: www.fuoriraccordo.it

 

The Neon Demon

Mercoledì 08 Giugno 2016 21:54
Io penso che il mistero in un film ci deve sempre essere, infatti mi abbinano sempre a David Lynch forse per questa cosa che non si capisce mai cosa succede.
Lory Del Santo
 
Jesse (Elle Fanning) , sedicenne di provincia, si trasferisce a Los Angeles per fare della sua straordinaria bellezza un lavoro, ma si troverà a contatto con un ambiente spregiudicato che non le perdonerà un tale dono. 
The Neon Demon, ultima fatica del regista danese Nicolas Winding Refn, è una dura critica al mondo della moda con moltissimi spunti di riflessione, un'opera che l'autore stesso dichiara matura, un punto d'arrivo di tutto il suo percorso precedente. Refn riversa qui tutte le influenze del cinema di cui si è nutrito, mostrandolo come un baluardo ma al tempo stesso volendosene distaccare, prendendone le distanze in nome di una personale presunta originalità. Ci parla di concetti filosofici, di bellezza, inoltrandosi nel suo profondo significato, del mondo dell'effimero che conduce facilmente alla perdizione, di una dura e cinica materialità che contrasta con i sani principi morali.
In the Neon Demon troviamo tutto. Ad iniziare da Bava, Argento per poi passare a De Palma, Lynch, tutto ma proprio tutto. Lo troviamo nelle inquadrature, nell'indugiare con lo sguardo sui personaggi, nei movimenti di macchina, come se studiare i grandi maestri fosse stato un lavoro certosino. La pecca purtroppo sta proprio nel non riuscire a trovare una propria identità decadendo ad una mera copia sbiadita di tutto ciò che c'ha sbattuto al muro prendendoci di peso dalla poltrona.
Elle Fanning, giovane e brava protagonista, si mostra candida e insidiosa al tempo stesso, in lei c'è tutta l'ambiguità e la malattia dei contrasti lynchani, c'è anche la Carrie di De Palma (la scena d'apertura sembrerebbe un mix tra Omicidio a luci rosse e  Carrie lo sguardo di Satana) e poi tutto ciò che turba i nostri sonni, gli infiniti ossimori tra bene/male, provincia/città, giorno/notte, castità/sesso, realtà/allucinazione divengono, senza bisogno di essere annunciati, altrettanti infiniti richiami all'autore di Twin Peaks, a quella Laura Palmer che dovrà essere uccisa, alla Mulholland Drive inghiottita da una scatola blu tra eros e thanatos. É un gioco di specchi e di rimandi, specchi fisici che riflettono le immagini e le amplificano, obiettivi fotografici che immortalano in una sovraesposizione mediatica pericolosissima, ammiccando anche un po' all' Holy Motors di Carax, per due ore di pellicola che forse sono più ostiche delle tematiche affrontate.
Il grosso gap generazionale che accusa Refn è insito proprio nel non riuscire ad essere qualcosa di più di un richiamo, nel diventare noioso a tal punto che per spegnere la monotonia bisogna virare precipitosamente sullo splatter con sbudellamenti vari e cannibalismi al seguito secondo la migliore tradizione cinematografica.
Refn vuole a tutti i costi fare l'esoterico. Dichiara di essersi avvalso delle letture di tarocchi di Alejandro Jodorowsky, delle lunghe chiacchierate quotidiane via Skype con il maestro, tanto da riversare tutta la sua influenza nel loghetto col triangolino che campeggia su locandina e in varie scene del film, un po' insomma come pensare che ingellarsi i capelli alla Elvis equivalga a far rivivere Elvis stesso.
Lui si difende dicendo che chi non ammette di aver “rubato” da qualcuno sta mentendo, in effetti in questo non c'è nulla di male, ma il contrasto rispetto al passato sta nell'apparire acerbo e compiaciuto, come se per comprendere Tarantino ci dimenticassimo di Fernando Di Leo o di Enzo Castellari. Del resto, soprattutto le nuove generazioni di spettatori, Di Leo non sanno neppure chi sia come può accadere che di Refn lo si faccia passare per un talento visionario con buona pace di De Palma e compagnia bella.
 
Chiara Nucera

Giochi di Potere

Mercoledì 11 Luglio 2018 14:20
'Giochi di potere' diretto dal regista danese Per Fly è una spy story che tratta superficialmente di un amore ai tempi di Saddam Hussein. Cresciuto all'ombra di un padre molto ingombrante, un eroe nazionale scomparso prematuramente, Michael Soussan (Theo James) viene assunto dall'Onu per seguire il programma Oil-For-Food in Iraq e  mettere rimedio ad un traffico illegale di farmaci scaduti reso possibile dal regime di Saddam. Il suo capo Pasha (Ben Kingsley) un uomo di fatti, greco di nascita, duro ed egoista, si preoccupa del quanto a fondo il ragazzo voglia andare, e non vede di buon occhio la sua pericolosa amicizia con Lily (Rachel Wilson) una bella ragazza curda che  sospetta essere una spia nemica. A chiudere quella che sembra la  premessa per una barzelletta, (manca il cinese) la svolta narrativa: una chiavetta USB criptata contiene le prove decisive per incastrare i colpevoli ed inevitabilmente si tira dietro di sé una scia di morti, ed è compito di Michael capire come servirsene e chi siano i suoi veri nemici. Non a caso il titolo originale del film è 'Backtabbing for Beginner' suggerendo che il giovane protagonista è incline al ricevere delle pugnalate alle spalle. Basato su una storia vera, scritta nell'omonimo romanzo autobiografico firmato dal vero Michael Soussan, un giornalista dalla 'bocca larga' che ha svolto un ruolo cruciale per smascherare il coinvolgimento del governo USA nelle frodi perpetuate in Medio Oriente e fare luce sui molti scandali politici che hanno coinvolto l'America ma il fim non fa emergere nessuna delle tematiche portanti, lasciando spazio alla noia. La sceneggiatura ricorda una malriuscita fiction televisiva (ricorda una bruttissima copia del premiato ai Golden Globe 'The Night Manager' della BBC) soffocata da luoghi comuni ed espedienti già abusati e retorici. La scelta dell'attore principale noto per aver interpretato il protagonista di Divergment (tratto da una serie di libri di fantascienza per ragazzi) avrebbe dovuto avvicinare un pubblico di adolescenti ad una tematica di attualità ma l'importanza dell'Historical Drama non emerge mai. Il film è stato girato in Marocco, con un visibile basso budget. È una pellicola incentrata sugli intrighi di potere dove l'amore per la verità è il cuore pulsante della vicenda per questo il fatto che il copione sia prevedibile non è ammissibile. La realtà dei fatti viene portata alla luce (in versione romanzata) ma il film non decolla mai.
 
Francesca Tulli

Spider-Man: Far From Home

Mercoledì 10 Luglio 2019 10:24

Gli Elementali, mostri giganteschi con poteri primordiali legati (come suggerisce il nome) ai quattro elementi, fuoco, aria, acqua e terra, minacciano il pianeta, orfano di Tony Stark, compianto in ogni angolo del mondo. Senza gli Avengers a proteggere gli esseri umani della minacce extraterrestri, Nick Fury si rivolge ad un nuovo alleato, un alieno Quentin Beck altresì noto, in futuro come Mysterio (Jake Gyllenhaal) furioso perché a suo dire, le stesse creature, responsabili per la morte della sua famiglia, hanno devastato la sua patria natia. Seguito diretto di Avengers: Endgame  (2019) diretto da Jon Watts come il precedente stand alone Spider-Man: Homecoming (2016) prosegue le avventure del sedicenne Parker nella sua terza incarnazione cinematografica, legata all’MCU, un contesto ben più ampio in cui, lo scenario, si allarga a macchia d’olio su infinite possibilità e combinazioni. Tutte le persone scomparse con lo schiocco di dita di Thanos (Avengers: Infinity War 2018) , il famoso “snap” sono riapparse prive di ricordi e con qualche anno in più dopo la sua sconfitta, questo fenomeno è stato chiamato effetto “blip”. “Blippato” come amano dire gli studenti, distrutto dalle perdite subite, dopo aver vagato nello spazio e nel tempo, Peter Parker (Tom Holland), vuole godersi la gita scolastica che prevede un itinerario europeo, alla scoperta della scienza e offre un’ ottima scusa per trovare il modo di dichiararsi a MJ, Michelle Jones (Zendaya) la ragazza più bella e sfuggente della classe. Per questo Spidey può sempre contare sulla solidarietà del suo amico Ned Leeds (Jacob Batalon) l’unico compagno di classe a conoscere la sua identità segreta. I fantasmi del passato però lo tormentano, così come la “grande responsabilità” di prendere il posto di Tony come suo erede, tra illusioni e fallimenti, il ragazzo si trova a dover fare i conti con i super problemi che lo affliggono (metaforicamente) dal 1962, quando Stan Lee e Jack Kirby crearono il personaggio, più amato e famoso della scuderia Marvel. Posando su una base pregressa di eventi complessa e valida, il film ha un tono scanzonato, divertente, ha il  tipico umorismo adolescenziale che fa presa sulle nuove generazioni, senza invalidare la credibilità dei personaggi originali. É stato realmente girato nelle città post distrutte e devastate in CGI a Praga, Londra  e senza perdersi l’occasione di sottolinearne la bellezza tipica che offre ai turisti nella nostrana bella Venezia. La colonna sonora, del maestro Michael Giacchino si arricchisce di canzoni popolari quali il “Bongo Cha Cha Cha” e una versione remix di “Amore di Tabacco” di Mina. Al centro della vicenda il valore della “verità” nella realtà specchio di una società in cui si crede solo a quello che si vuole. Commovente per certi aspetti (ottimo il retcon con i precedenti) fa sorridere e intrattiene. Come ormai spesso accade le scene post-credits sono due, la seconda ci affaccia letteralmente verso nuovi orizzonti.

Francesca Tulli

Dragged Across Concrete

Martedì 04 Settembre 2018 09:35
Ormai S. Craig Zahler è un aficionado della Mostra del Cinema di Venezia. Lo scorso anno portò Cell Block 99: Nessuno può fermarmi, inserito dall’organizzazione nella rassegna di mezzanotte. Ora tarda perché al regista piace la violenza quella “gratuita”, senza offendere nessuno. I suoi sono film di genere, che trovano in una parte di pubblico un seguito sentito e tifoso. E già che ci siamo non possiamo non menzionare Bone Tomahawk, suo primo lungometraggio, che ha fatto da apripista del genere. Quest’anno ci regala “fuori concorso” un poliziesco feroce. Dragged across concrete riesce a concretizzare maggiormente, scusate il gioco di parole, rispetto alla scarsità di contenuti dei suoi due “simili” predecessori. Zahler, che scrive e dirige, irrobustisce la storia e lascia da parte l’horror, confezionando un film che strizza l’occhio sotto certi versi al noir. Meno ampolloso; si viaggia comunque su strade strette con burroni sempre in agguato. Equilibrio instabile, che non manca di creare ansia e concitazione nello spettatore. E assolutamente, sua peculiarità, si discosta dal cinema mainstream.
La storia è quella di due poliziotti sospesi per abuso di potere in cerca di soldi sporchi per garantire alla proprie famiglie un’esistenza dignitosa. I corrotti sono l’agente Brett Ridgeman (Mel Gibson) e il suo collega Anthony Lurasetti (Vince Vaughn). Durante un’investigazione vengono ripresi dalle telecamere mentre catturano dei loschi individui usando delle maniere non proprio convenzionali. Il video incriminato diventa virale e il loro diretto superiore è costretto a ritirargli il distintivo. La loro vita non era già rosea e ora che si trovano anche senza stipendio decidono di provare a rubare a dei criminali spietati un enorme quantità di denaro. Scendendo all’inferno è molto probabile bruciarsi. Brett e Anthony inciampano in qualcosa di inaspettato e fuori dal loro controllo. Forse hanno fatto il passo più lungo della gamba. Stuzzicare il Diavolo lì porterà a giocare una partita a dadi dura e furiosa.
Il film è meno violento rispetto ai precedenti del regista; ottimamente confezionato nella sua dilatata narrazione, che raggiunge alti e coinvolgenti livelli di tensione drammatica. 2h40 incollati allo schermo, l’azione è praticamente in tempo reale, in attesa dello districarsi della vicenda: amara, umana e legata indissolubilmente alle percentuali di successo che Mel Gibson elargisce ironicamente, ma neanche tanto, al suo fidato collega Vaugh. In Dragged across concrete troviamo molto della cinematografia contemporanea. Dal fato, tassello fondamentale nelle opere targate Innàritu/Arriaga: vedi il riuscito incrocio tra narrazione principale e secondaria, che vede come la vita sia ineluttabile per la giovane e neo mamma Kelly Summer (Jennifer Carpenter), tornata al suo lavoro in banca dopo la maternità. Il resto lo lasciamo scoprire a voi. Zahler si affida anche a dettami tarantiniani. Come il geniale Quentin, Zahler apprezza la logorroicità dei dialoghi, i tempi dilatati e la violenza. Di suo ci mette l’infallibile matematica. Dal destino alla scienza il passo è breve perché le percentuali di successo o di fallimento, marchio di fabbrica dell’agente Ridgeman, sbagliano veramente poco. Con tutto questo si poteva stroppiare e lasciare lo spettatore in preda a chissà quale caos, ma il regista americano riesce a far proprie queste filosofie. L’incedere beffardo è il giusto ingrediente per tenere le redini salde e consentire al film di essere compatto.
Tecnicamente ben girato. La regia è diretta e lucida. Sempre nel posto giusto per evidenziare l’azione, ma anche lo stato d’animo dei personaggi. Focalizzata anche nel mettere in evidenza gli innumerevoli scambi di vedute dei due protagonisti, fondamentali nell’avanzare dell’intrigo. Una costruzione minuziosa e perfettamente collaudata, inevitabilmente indirizzata al successo qualsiasi sia il finale. Un film consigliato a chi non vuole essere ricattato dalla regia e agli amanti dei risvolti tetri e cruenti della polizia.
 
David Siena

 

La Ballata di Buster Scruggs

Sabato 01 Settembre 2018 10:03
Un noto film western recita che il destino spesso lo si incontra proprio sulla strada presa per evitarlo. Quel celebre film, diretto da Tonino Valerii, e destinato ad entrare di diritto nella storia del western all’italiana, uscì nel 1973 sotto il titolo di Il mio nome è nessuno. L’importanza del destino, e del terribile gioco operato dallo stesso all’interno di un  western rappresenta da sempre un elemento imprescindibile, concatenante per ogni personaggio, e all’interno di ogni narrazione di genere.
Dirigere un film western equivale in un certo senso a realizzare un lavoro che non può eccettuare il fattore tradizione, nonché quella lunga memoria cinematografica western che ha intessuto migliaia di immaginari. Tuttavia se da un lato si tenta di creare sempre un legame, seppur in alcuni casi molto debole, con il passato, dall’altro emerge una progressiva e ben precisa volontà di proporre nuovi modelli di narrazione. Come è avvenuto per il recente I magnifici Sette,  passando poi per Il grinta e The salvation l’orizzonte cinematografico western gode di un nuovo e fresco respiro, imperniato da personalissime scelte di script e caratterizzazione dei personaggi.
Ethan e Joel Coen da sempre spartiacque per ricercatezza e fluidità nelle storie narrate, tornano a dirigere un film ambientato nello spericolato west, dopo ben otto anni dall’ultima pellicola di genere Il grinta, con protagonista l’ ombroso Jeff Bridges. Vincitore del premio Osella alla 75 esima Mostra del Cinema di Venezia, La ballata di Buster Scruggs rappresenta forse l’esempio più recente di commistione di genere, un espediente spesso privilegiato nel cinema dei Coen. Ambientato, come sopracitato, nell’arido e spietato West, il film si articola in sei episodi, ognuno dei quali presenta come filo conduttore l’indomabile forza del destino e il labirinto costituito dalle inestricabili conseguenze di esso sulla vita umana. Ricorrente nel film è la connotazione beffarda che tende profondamente al cinismo, aspetto molto familiare e caro al cinema dei Coen. Se da un lato vi è un tentativo programmatico di realizzare un lavoro a metà strada tra il cinema di genere e la commedia amara, dall’altro emerge un evidente limite in ambito di script, forse un po’ troppo inconsistente in molte sezioni. Un vizio che tende ad inficiare alcuni episodi, i quali risultano macchinalmente inferiori ad altri in termini di qualità narrativa. A mancare forse è quella coesione che avrebbe restituito maggiore vigore e continuità alle storie raccontate. Il cast vanta grandi nomi come Liam Neeson, James Franco, Brendan Gleeson, e un formidabile Tom Waits, vera perla del film.
Quella proposta dai Coen è pertanto un’antologia nel complesso godibile, che intrattiene in misura discreta, fermandosi tuttavia a metà strada, lasciando insoddisfatti gli spettatori più esigenti.
 
Giada Farrace
 

Martin Eden

Mercoledì 04 Settembre 2019 10:38

Lo smarrimento del senso della propria arte ha condotto Jack London ad un periodo di stasi profonda, di brusca interruzione nell’intimo processo comunicativo con il mondo. Qualche anno più tardi, lo scrittore statunitense scolpisce il suo Martin Eden ispirandosi a questo punto di arresto, a quel suo autoritratto di individuo in conflitto con alcune zone d’ombra della società a cui appartiene. Pietro Marcello decide di ispirarsi liberamente a questo vivace e profondo romanzo, facendo propria la parabola dell’antieroe. La vicenda narrata dal film, parte proprio nel momento in cui la vita del giovane Martin Eden subisce un totale cambiamento. Egli, audace marinaio alla continua ricerca di nuove avventure e curioso esploratore di luoghi estranei, si ritrova a dover salvare da un pestaggio Arturo, un ragazzo appartenente all’alta borghesia industriale. Martin viene così ricevuto in casa della famiglia del ragazzo, ed è qui che tra i numerosi convenevoli per il miracoloso salvataggio, il giovane si ritrova a stretto contatto con Elena, l’incantevole e colta sorella di Arturo, di cui egli si invaghisce da subito. Un’immagine quasi eterea e inarrivabile quella di Elena, che oltre a rappresentare un’ossessione amorosa, esprime indirettamente quel desiderio di riscatto sociale a cui Martin ambisce da sempre. Tra numerosi ostacoli e limiti che inizialmente appaiono insormontabili, Martin riesce a superare lo scoglio della sua umile origine, coltivando autonomamente la passione per lo studio e per la lettura. La tenace aspirazione ad elevarsi, un po’ per la voglia di migliorarsi e un po’ per amore di Elena, lo porta a realizzare quel sogno a tratti inaccessibile di diventare uno scrittore. Ma lo scotto da pagare è amaro, l’emancipazione della cultura può portare a stretto contatto con circoli borghesi di un certo stampo, un mondo asfissiante e fittizio, troppo lontano dal pensiero sincero di Martin. Il film diretto da Pietro Marcello, seconda opera italiana in concorso quest’anno alla 76esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, è una libera trasposizione del romanzo forse più intimo e autobiografico di Jack London. Il Martin Eden di Marcello, è un affresco sincero e appassionato sui grandi cambiamenti avvenuti nel corso del Novecento e soprattutto sulle aspre difficoltà da parte di un giovane di umili origini nel rapportarsi alla società Borghese, emancipandosi solo attraverso la cultura e le proprie capacità. Libero da ogni forma di limite temporale, questo ambizioso lavoro, è ambientato simbolicamente in una Napoli colorata e consumata dalla società industriale, come avvenne per molte altre città in quel periodo. Al flusso narrativo del film, Pietro Marcello decide di alternare delle suggestive immagini di repertorio donando al racconto un respiro ancor più vivido. Il regista entra quasi in punta di piedi in questa vicenda, lasciando parlare il protagonista e il paesaggio, incontrastato fulcro dell’immagine in molte sequenze. Dietro questo giovane ed audace antieroe c’è Luca Marinelli, qui intenso come non si vedeva da tempo e aderente in massimo grado al ruolo. Attraverso i suoi occhi percepiamo molte sfumature dell’ambiente circostante ed è come se vivessimo in prima persona le situazioni a cui prende parte. Purtroppo l’unica debolezza del film, risiede nella parte finale, dove il quadro diviene più denso e artificioso. Si cede un po’ troppo al manierismo e questo rende molti passaggi forzati, generando una stonatura anche sul piano interpretativo. Un finale più sentito e meno conformato avrebbe chiuso il cerchio in modo più coerente. Nelle sale a partire da martedì 4 Settembre. 

Giada Farrace

Pagina 1 di 2