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Chilsu e Mansu

Venerdì 05 Agosto 2011 15:25

Questo classico del cinema sudcoreano ha anticipato il movimento esploso agli inizi degli anni Novanta e battezzato con poca originalità new wave, di cui Park Chan-wook e la sua iconica trilogia della vendetta sono figli. Aldilà di abusate etichette, la nuova ondata di registi ha coinciso con un nuovo modo di concepire il cinema nei contenuti e nel ciclo di produzione e distribuzione, un cambiamento che riflette una profonda riorganizzazione della società coreana: l’equilibrio faticosamente raggiunto  dopo l’allentamento della morsa militare e la compiuta “interiorizzazione” della cultura occidentale, che molto presto, con la fine della guerra fredda e dei suoi blocchi, si sarebbe “evoluta” nel fenomeno oggi noto come globalizzazione.

Il film si svolge intorno alle vicende di due uomini di età diversa, accomunati dallo stesso lavoro di cartellonisti e da una simile sensibilità. Per la loro posizione sociale Chilsu e Mansu sono degli emarginati. La Corea che fa da sfondo alle loro vicende è un paese controllato da un regime militare autoritario e oppressivo, negli anni appena precedenti la transizione verso una democrazia liberale: è la Corea della legge marziale e del defense drill, l’addestramento civile alla difesa che di fatto emargina la popolazione, ostacolandone la mobilità e le attività quotidiane. Nella Seul di Chilsu e Mansu tutti sono potenzialmente emarginati, tutti sono outsider, nel nome di un bene collettivo il cui vero senso stenta a rivelarsi. L’unica libertà concessa ai due lavoratori precari (in tutti i sensi, perché parte fondamentale del loro lavoro consiste nello stare appesi a delle funi, sospesi nel vuoto, per dipingere cartelloni pubblicitari), l’unico loro privilegio consiste nel sovrastare visivamente la città dall’alto, dominarla con lo sguardo, un privilegio che però rivela tragicamente tutte le incongruenze dello spazio e della società, e porterà uno dei due, il più anziano e disilluso Mansu, a prendere una decisione radicale.

La società descritta impone all’individuo regole tiranniche. Il suo governo autoritario, con il pretesto del bene comune e attraverso un accentuato paternalismo (coercitivo e coadiuvato da mezzi militari), sembra perseguire interessi privati e strategie finalizzate alla perpretrazione del potere: una delle figure chiave della storia non a caso è il padre assente di Mansu, condannato a un lungo periodo di prigione – praticamente equivalente all’ergastolo – per reati contro lo Stato. Il problema della disciplina è comune a molte società asiatiche in cui il Confucianesimo, che pone il rispetto reverenziale per i genitori al di sopra di ogni altra virtù, ha messo radici profonde, e il destino di Chilsu e Mansu sembra proseguire sulla falsa riga di quello dei padri. Il mondo esterno si affaccia attraverso i cartelloni da loro dipinti (che più che un prodotto sembrano pubblicizzare uno stile di vita) e le locandine di film di successo del periodo, tra cui si riconoscono Top Gun, Arma Letale, A Chorus Line e Il Padrino. L’America stessa, lontana ma dominante dall’alto e vistosa come le pubblicità, è ridotta a un’immagine normativa il cui accostamento con la realtà storica è problematico, se non critico.

Il finale, in cui ogni speranza è preclusa, ma che resta comunque aperto non svelando niente del possibile destino dei due uomini, rappresenta il culmine di questo dramma dell’ironia, intesa come continuo differimento del significato: i protagonisti in cima a un cartellone vengono scambiati dal basso, dalla città che tutto mistifica, per attentatori (con bombe molotov in mano, ma in realtà sono solo innocue bottiglie) e aspiranti suicidi. Il malinteso è soverchiante, aggravato dalla distanza che non permette alle parti contrapposte – i due amici in alto, e le forze dell’ordine in basso – di comunicare. Suggestionato dalla situazione delirante, ma forse solo consapevole dell’impossibilità di una via d’uscita, “mastro” Mansu salta, senza alcuna rete sociale e materiale sotto di lui (si sposta infatti al lato del palazzo, per evitare la rete di salvataggio sotto la facciata), un gesto paradigmatico e consegnato al futuro anche in virtù del congelamento del fotogramma.

Nonostante le premesse e la conclusione, il film mantiene un tono leggero, quasi da commedia, dove il dramma non è mai enfatizzato e tuttavia scorre sottopelle in modo sottile e persistente, lasciando una sensazione di pacata disperazione. Una caratteristica del nuovo cinema coreano, ciò in cui a mio avviso è racchiuso il valore e l’unicità di tutto il “vero” cinema asiatico in generale, è la possibilità di comunicare con un pubblico internazionale e farsi capire pur ricorrendo a un bagaglio emotivo radicato nella cultura autoctona e non (necessariamente) mutuato da tradizioni occidentali come la tragedia greca o il melodramma romantico. Uno dei momenti più indicativi di questo approccio, che segna il culmine della complicità tra Chilsu e Mansu ma anche il momento in cui tutto precipita, arriva a metà del film, quando i soci escono la mattina presto per reaggiungere il centro della città, sede del loro lavoro, e prendono la bicicletta convertita da Mansu in tandem, pedalando di buona lena su e giù per le strade del sobborgo. Sembrano allegri e spensierati, uno stato d’animo enfatizzato dalla trascinante musica pop-folk di sottofondo, e neanche lo scivolone che li scaraventa per terra sembra compromettere la loro serenità, ma prelude a una caduta peggiore e progressiva, coincidente col precipitare delle rispettive situazioni famigliari e della crisi del lavoro.

La città è un elemento fondamentale, perché la sua divisione in zone rispecchia la polarizzazione della società che segna il film dall’inizio alla fine: il centro blindato e al tempo stesso brillante di vetrine, grandi magazzini, fast food, locali notturni, e il sobborgo semi-rurale, con baracche, case fatiscenti e chioschi; a questa polarizzazione corrisponde un’umanità contrapposta:  formalmente impeccabile ma ipocrita e forse anche corrotta l’una (i vari capi dei cantieri, datori di lavoro di Chilsu e Mansu, le autorità e Jina, la ragazza borghese che Chilsu frequenta per un po’), approssimativa e impulsiva, ma anche genuina e generosa l’altra.

Chilsu e Mansu è un esempio di cinema globale nel senso più nobile del termine, perché pur avendo una forte impronta e un orientamento “locali,” con problematiche e modi di affrontarle tipicamente “coreani,” mostra una profonda umanità e una comprensione universale per la natura dell’uomo e la sua sorte nella società moderna, violenta e contraddittoria.

 

Mariagrazia Costantino

5 (Cinque)

Venerdì 19 Agosto 2011 15:53

L'attore Francesco Maria Dominedò, relativamente noto al cinema ed in televisione per ruoli al limite della legge (La squadra, Fatti della banda della Magliana, Il rabdomante) e con un background da regista, torna dietro la macchina da presa in grande stile con questa nuova opera.


5 (Cinque), ispirato ad una storia vera, è un prodotto molto vicino per tipologia di personaggi, ma anche per l'impronta della sceneggiatura di Riccardo Papa, al fumetto ed al genere seriale hard boiled, con una regia che appare forse un po' troppo patinata e vicina allo stile del videoclip.
Un film corale che racconta la storia di un gruppo di ragazzi della periferia romana, cinque appunto - come i sensi, come i lati del pentagono, come la stella ad altrettante punte, il numero della casta mistica, quello delle dita della mano del “braccio violento della legge” - che si conoscono sin da piccoli e che in comune hanno avuto la dura esperienza del riformatorio. Si ritroveranno adulti con molta voglia di rivalsa, nella speranza di svoltare con un grosso affare di droga, per poter finalmente fare la vita che sognano. Ma non tutto andrà come previsto...


Il cast è formato da attori non tutti esattamente sconosciuti, tra cui si notano Matteo Branciamore, Emma Nitti e numerose apparizioni speciali, come quelle di Rolando Ravello, Angelo Orlando, Claudia Zanella, Francesco Venditti e Massimo Bonetti. Tutti, amalgamandosi alla perfezione, hanno lavorato con fluidità, mettendo in scena una sorta di evocazione di Romanzo Criminale con echi di Sleepers, senza voler esserne copia sterile, ma anzi, distaccandosi e prendendo vita propria, mantenendo buono il livello di tensione, aiutati da ritmi veloci e riprese in steadycam. Tra gli attori spicca Alessandro Borghi, un quasi esordiente, con un ruolo principale, calato perfettamente in un personaggio vissuto, sofferto ma anche molto pulito, decisamente credibile.
Piacevolmente citazionista, la pellicola spazia da evocazioni monicelliane a contaminazioni con Di Leo e Tarantino e si apprezza in particolare per uno spiccato gusto nei confronti del travestimento, che vede molte delle partecipazioni speciali al limite del grottesco, evidenziando una forte vena autoironica di Dominedò.


Nel complesso il film, malgrado mostri qualche impasse nella fase di montaggio e qualche lungaggine in scene ininfluenti o trascurabilissime, come un neomelodico ballo in un ristorante, si dimostra un prodotto di buona fattura, che non esula dall'originalità pur avendo basi note e sbandierate.

 

Paolo Dallimonti e Chiara Nucera

Un giorno di pioggia a New York

Giovedì 28 Novembre 2019 12:43

Entrare in sala sapendo che si vedrà un film di Woody Allen coincide solitamente  con il momento che precede l’arrivo di una carezza piacevole e allo stesso modo eccitante. Questo meccanismo si innesta in quasi tutti i casi ed è quanto di più dolcemente confortante  possa offrirci un film di Allen. Un giorno di pioggia a New York è l’ennesima conferma che questo straordinario regista riesce sempre (tranne rarissimi casi) a centrare il bersaglio con una disinvoltura e una maestria impareggiabili. La vicenda prende vita nella grande mela, dove la giovanisima coppia composta da Gatsby (Timothée Chalamet) e Ashleigh (Elle Fanning) si trova a dover trascorrere un intenso e vulcanico weekend all’insegna dell’imprevisto.  E se da un lato Ashleigh verrà catapultata in un contesto del tutto inaspettato a seguito di un’intervista ad un noto ed affascinante regista, dall’altro Gatsby dovrà fare i conti con la polverizzazione di tutti i suoi progetti organizzati in modo impeccabile per immergere la sua dolce metà in una città malinconica ed esuberante come la sua New York.  Woody Allen torna finalmente a dirigere un film che ripercorre fieramente e senza alcun indugio quel sentiero che gli è tanto caro e familiare e che corrisponde alla commedia più vivace, romantica, da sempre arricchita da quel pizzico di cinismo che rende ogni cosa più pungente.  E anche in questo caso, a fare da colonna portante del film sono i dialoghi, fitti e sferzanti, capaci di donare al tessuto narrativo quella linfa vitale che rende il tutto più fluido e dinamico. La scorrevolezza di Un giorno di Pioggia a New York è pertanto dovuta in larga parte alla costruzione di scene riuscite e in grado di colpire con rara genialità, ma anche al talento di un cast del tutto inserito nel contesto, a partire proprio dal protagonista, Timothée Chalamet. Gatsby è infatti il riflesso più acerbo della moltitudine di personaggi interpretati da Woody Allen nel corso della sua lunghissima carriera. Cinico e dall’aria a tratti malinconica, Gatsby è l’Allen più giovane e romantico, il quale non è ancora giunto alla fase più penetrante di cinismo esistenziale. Siamo alle battute finali e risulta quindi impossibile non evidenziare quanto ci sia di speciale in questo film che rischiava seriamente di non essere distribuito affatto in sala. Con Un giorno di pioggia a New York Allen ripropone con profonda incisività alcuni temi cari al suo cinema, uno tra tutti quello legato all’imprevedibilità degli eventi e a quanto sia inafferrabile la certezza della felicità.  

Giada Farrace

Star Wars Episodio IX: L'Ascesa di Skywalker

Mercoledì 18 Dicembre 2019 10:24
“I morti parlano!” perché i personaggi principali “vivi” non sono stati scritti abbastanza bene per poterlo fare. Così J.J. Abrams sigla il suo patto “faustiano” con l’Imperatore Palpatine, lo riporta in vita per ripristinare uno strano equilibrio, non “nella Galassia” ma nella trilogia da lui iniziata con “Episodio VII: Il Risveglio della Forza” (2015) cercando di trovare un senso alla direzione da lui stesso intrapresa, portata avanti con distacco da Rian Johnson con “Episodio VIII: Gli ultimi Jedi”. Il defunto imperatore della Galassia (Ian McDiarmid) tornato in vita, grazie a “scienze oscure, clonazione, segreti noti solo ai Sith” rovescia lo scenario politico della “Galassia lontana lontana...”. Il suo ordine finale ha  inizio, ha una flotta di Star Destroyer Xyston, nascosta nell’ombra sul pianeta Exegol dove i suoi sudditi i lealisti Sith lo venerano e si prepara ad attaccare, la notizia arriva alle orecchie della Resistenza. Finn (John Boyega) l’ex assaltatore, Poe Dameron (Oscar Isaac) giovane pilota intraprendente ora generale e la giovane Rey (Daisy Ridley), che si addestra per essere degna della spada laser di Luke Skywalker, si mettono alla ricerca dei puntatori Sith, che portano alla tana del nemico per poterlo affrontare definitivamente. Kylo Ren (Adam Driver) legato alla ragazza da una forza superiore, ora Leader Supremo del Primo Ordine, fin dall’inizio governato nell’ombra dal Oscuro Signore dei Sith, compie un cammino parallelo, verso la resa dei conti, con lei e con la sua famiglia. John Williams suona la colonna sonora come da tradizione, sottolineando i momenti più apprezzabili di calma. Siamo difronte ad un capitolo strano, ricco di elementi che offuscano i difetti più evidenti, Abrams (con la benedizione della presidente della Lucasfilm Kathleen Kennedy) si è permesso di riscrivere le leggi naturali di Star Wars, introducendo a forza possibilità mai sfruttate nei precedenti, il più grave: l’elemento di resurrezione. Quattro generazioni di appassionati “vivono” questa avventura conoscendone i minimi dettagli, abituati ad una  timeline (perlopiù) coerente (prima che il canone delle storie venisse azzerato e riscritto in funzione questa trilogia, cosiddetta sequel) dove le dinamiche possibili sono state originate dalle idee iniziali del “lodato creatore” George Lucas. Ora si trovano un “nuovo” Star Wars, gestito maldestramente da un occhio volutamente esterno, in favore del gusto del “nuovo” pubblico, che tuttavia, trova sempre difficoltà ad accogliere queste storie e apprezza quando ritrova “il vecchio” nostalgico universo presentato sotto altre forme (la serie TV The Mandalorian in onda su Disney+ è una prova) dimostrando che per fare Guerre Stellari, non bisogna osare ma restare fedeli all’originale. Quello che è stato seppellito, tra vecchi fantasmi e nuove speranze, porta la saga verso un futuro imprevedibile.
 
Francesca Tulli

Richard Jewell

Martedì 14 Gennaio 2020 11:50

Il dono della narrazione è un privilegio raro e riservato a pochi nomi della Hollywood  odierna. La spasmodica ricerca dello spettacolare al cinema, la quale tuttavia non sempre genera prodotti eccelsi, pone ancor di più in evidenza quei narratori che imperterriti seguono il loro fulgido cammino. Ebbene Clint Eastwood a quasi 90 anni, è uno dei grandi veterani che ancora oggi pone come cuore della sua missione narrativa l’essere umano, e talvolta l’eroe. Il regista di Gran Torino, decide ora di raccontarci la vicenda accaduta realmente a Richard Jewell, un giovane americano travolto da un’inarrestabile polverone di eventi disastrosi sollevato dalla bulimica invadenza dei media.  Tutto ha inizio il 27 luglio del 1996, quando durante i giochi olimpici di Atlanta, Richard, in veste di guardia di sicurezza dell’evento, scopre uno zaino sospetto. Il giovane riesce a lanciare l’allarme in un tempo ridotto, mettendo in salvo molte vite prima dell’esplosione, e tentando di limitare il numero dei lesi. Dopo giorni intensi e gloriosi, in cui Richard viene considerato all’unanimità un erore, arriva il colpo basso da parte dei mass media, i quali diffonderanno la notizia che il ragazzo risulta per l’FBI il primo sospettato dell’esplosione. Da qui ha inizio ufficialmente il frustrante calvario di Jewell, ritenuto ingiustamente un individuo psicolabile e pericoloso, nonchè un fanatico in cerca soltanto di attenzione. Clint Eastwood rimane colpito da questa vicenda e decide di raccontarcela come soltanto lui sa fare con tali fatti di cronaca, ossia con assoluta minuzia e grande umanità. Nella seconda parte del film, la ricostruzione del fatto in sè viene poi seguita dall’esplorazione dei rapporti che intercorrono tra i vari protagonisti e questo avviene con molta naturalezza senza cedere il passo ad eccessi di sentimentalismi. Perchè il cinema di Eastwood non si limita mai a riportare una vicenda nella sua fredda linearità, ma abbraccia anche quel piano intimo e profondo che rende tutti i personaggi delle sue storie più vicini a noi. Una lode speciale va agli interpreti, da Sam Rockwell, che restituisce il ritratto sincero e ironico dell’avvocato, a Kathy Bates madre dell’eroe alla gogna, arrivando infine al protagonista Paul Walter Hauser, perfetto in ogni istante nel suo ruolo. Richard Jewell è sicuramente un film molto diverso dal precedente The Mule, poichè viaggia su un binario emotivo differente, ma non per questo meno incline a coinvolgere. Certo è che, di registi come Eastwood non ce ne sono e mai ce ne saranno, pertanto questa sua impronta unica, capace di colpire il bersaglio senza sbavature resta di fatto il suo tratto principale, quello che rende i suoi film dei grandi momenti di cinema. 

 

Giada Farrace

 

 

 

The Lodge

Giovedì 16 Gennaio 2020 16:05
Il topos dell’abitazione sperduta in un luogo dalle atmosfere lugubri e minacciose, è quanto di più ricorrente nel cinema horror. Si tratta infatti di quella che viene definita la premessa costante di molteplici trame che hanno come perno il fenomeno paranormale. Il nuovo lavoro diretto da Severin Fiala e Veronika Franz ripropone avvedutamente una trama che ruota attorno al senso di isolamento generato da un luogo capace di dilatare il tempo, generando alienazione ed inquietudine. The Lodge è infatti ambientato in una dimora sperduta nelle lande di un silente paesaggio nevoso, dove la neo coppia formata da Richard e Grace decide di passare alcuni giorni in compagnia dei due figli dell’uomo. Un equilibrio instabile quello dei due bambini, ancora fortemente turbati dalla fresca perdita della loro madre naturale, e che a stento riescono a rapportarsi con la nuova compagna del padre. Ma le cose arriveranno ad una svolta ancor più critica, quando Richard sarà costretto ad assentarsi qualche giorno per motivi di lavoro, lasciando i due bambini assieme a Grace in questo luogo tutt’altro che confortante. La figura di Grace non fa che approfondire quel senso di disagio e ambiguità che si percepisce sin dalle prime battute del film. I due registi, dopo il successo dell’ultimo lavoro Goodnight mommy (2014), tornano a dirigere una storia che ruota attorno a temi cari ai due autori, quali la religione, il paranormale e il rituale, inteso come momento di incontro tra reale e forze oscure. Ma se l’incipit si presenta intrigante e ben disposto a percorrere una strada coerente e tenebrosa, lo sviluppo ha un’andatura incerta e piena di lacune che inevitabilmente pesano sul film fino alle battute finali. Probabilmente un lavoro del genere necessita di una seconda visione per poter essere compreso nelle sue svariate angolature, anche se in questo caso sono proprio le stesse nella loro moltitudine a portare fuori strada la storia nella sua interezza. L’eccesso nel voler creare enigma conduce ad un rallentamento del ritmo e inevitabilmente all’abbassamento della soglia d’attenzione dello spettatore. I 100 min di film  iniziano a farsi sentire soprattutto dalla seconda metà in poi, quando quella suspense che all’inizio procurava un conturbante senso di angoscia e isolamento, perde tono mano a mano che ci si approssima alla fine. Molto interessanti i richiami non soltanto narrativi, ma anche fotografici di stampo Kubrickiano, legati a Shining. The Lodge è un film che se da un lato merita attenzione per lo sforzo e per l’intento di raccontare una storia di stampo psicologico, dall’altro purtroppo non riesce a catalizzare a dovere tutti gli elementi a sua disposizione, restando in un limbo di incertezza. 
 
Giada Farrace