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Home » Recensioni » Chilsu e Mansu
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05 Ago

Questo classico del cinema sudcoreano ha anticipato il movimento esploso agli inizi degli anni Novanta e battezzato con poca originalità new wave, di cui Park Chan-wook e la sua iconica trilogia della vendetta sono figli. Aldilà di abusate etichette, la nuova ondata di registi ha coinciso con un nuovo modo di concepire il cinema nei contenuti e nel ciclo di produzione e distribuzione, un cambiamento che riflette una profonda riorganizzazione della società coreana: l’equilibrio faticosamente raggiunto  dopo l’allentamento della morsa militare e la compiuta “interiorizzazione” della cultura occidentale, che molto presto, con la fine della guerra fredda e dei suoi blocchi, si sarebbe “evoluta” nel fenomeno oggi noto come globalizzazione.

Il film si svolge intorno alle vicende di due uomini di età diversa, accomunati dallo stesso lavoro di cartellonisti e da una simile sensibilità. Per la loro posizione sociale Chilsu e Mansu sono degli emarginati. La Corea che fa da sfondo alle loro vicende è un paese controllato da un regime militare autoritario e oppressivo, negli anni appena precedenti la transizione verso una democrazia liberale: è la Corea della legge marziale e del defense drill, l’addestramento civile alla difesa che di fatto emargina la popolazione, ostacolandone la mobilità e le attività quotidiane. Nella Seul di Chilsu e Mansu tutti sono potenzialmente emarginati, tutti sono outsider, nel nome di un bene collettivo il cui vero senso stenta a rivelarsi. L’unica libertà concessa ai due lavoratori precari (in tutti i sensi, perché parte fondamentale del loro lavoro consiste nello stare appesi a delle funi, sospesi nel vuoto, per dipingere cartelloni pubblicitari), l’unico loro privilegio consiste nel sovrastare visivamente la città dall’alto, dominarla con lo sguardo, un privilegio che però rivela tragicamente tutte le incongruenze dello spazio e della società, e porterà uno dei due, il più anziano e disilluso Mansu, a prendere una decisione radicale.

La società descritta impone all’individuo regole tiranniche. Il suo governo autoritario, con il pretesto del bene comune e attraverso un accentuato paternalismo (coercitivo e coadiuvato da mezzi militari), sembra perseguire interessi privati e strategie finalizzate alla perpretrazione del potere: una delle figure chiave della storia non a caso è il padre assente di Mansu, condannato a un lungo periodo di prigione – praticamente equivalente all’ergastolo – per reati contro lo Stato. Il problema della disciplina è comune a molte società asiatiche in cui il Confucianesimo, che pone il rispetto reverenziale per i genitori al di sopra di ogni altra virtù, ha messo radici profonde, e il destino di Chilsu e Mansu sembra proseguire sulla falsa riga di quello dei padri. Il mondo esterno si affaccia attraverso i cartelloni da loro dipinti (che più che un prodotto sembrano pubblicizzare uno stile di vita) e le locandine di film di successo del periodo, tra cui si riconoscono Top Gun, Arma Letale, A Chorus Line e Il Padrino. L’America stessa, lontana ma dominante dall’alto e vistosa come le pubblicità, è ridotta a un’immagine normativa il cui accostamento con la realtà storica è problematico, se non critico.

Il finale, in cui ogni speranza è preclusa, ma che resta comunque aperto non svelando niente del possibile destino dei due uomini, rappresenta il culmine di questo dramma dell’ironia, intesa come continuo differimento del significato: i protagonisti in cima a un cartellone vengono scambiati dal basso, dalla città che tutto mistifica, per attentatori (con bombe molotov in mano, ma in realtà sono solo innocue bottiglie) e aspiranti suicidi. Il malinteso è soverchiante, aggravato dalla distanza che non permette alle parti contrapposte – i due amici in alto, e le forze dell’ordine in basso – di comunicare. Suggestionato dalla situazione delirante, ma forse solo consapevole dell’impossibilità di una via d’uscita, “mastro” Mansu salta, senza alcuna rete sociale e materiale sotto di lui (si sposta infatti al lato del palazzo, per evitare la rete di salvataggio sotto la facciata), un gesto paradigmatico e consegnato al futuro anche in virtù del congelamento del fotogramma.

Nonostante le premesse e la conclusione, il film mantiene un tono leggero, quasi da commedia, dove il dramma non è mai enfatizzato e tuttavia scorre sottopelle in modo sottile e persistente, lasciando una sensazione di pacata disperazione. Una caratteristica del nuovo cinema coreano, ciò in cui a mio avviso è racchiuso il valore e l’unicità di tutto il “vero” cinema asiatico in generale, è la possibilità di comunicare con un pubblico internazionale e farsi capire pur ricorrendo a un bagaglio emotivo radicato nella cultura autoctona e non (necessariamente) mutuato da tradizioni occidentali come la tragedia greca o il melodramma romantico. Uno dei momenti più indicativi di questo approccio, che segna il culmine della complicità tra Chilsu e Mansu ma anche il momento in cui tutto precipita, arriva a metà del film, quando i soci escono la mattina presto per reaggiungere il centro della città, sede del loro lavoro, e prendono la bicicletta convertita da Mansu in tandem, pedalando di buona lena su e giù per le strade del sobborgo. Sembrano allegri e spensierati, uno stato d’animo enfatizzato dalla trascinante musica pop-folk di sottofondo, e neanche lo scivolone che li scaraventa per terra sembra compromettere la loro serenità, ma prelude a una caduta peggiore e progressiva, coincidente col precipitare delle rispettive situazioni famigliari e della crisi del lavoro.

La città è un elemento fondamentale, perché la sua divisione in zone rispecchia la polarizzazione della società che segna il film dall’inizio alla fine: il centro blindato e al tempo stesso brillante di vetrine, grandi magazzini, fast food, locali notturni, e il sobborgo semi-rurale, con baracche, case fatiscenti e chioschi; a questa polarizzazione corrisponde un’umanità contrapposta:  formalmente impeccabile ma ipocrita e forse anche corrotta l’una (i vari capi dei cantieri, datori di lavoro di Chilsu e Mansu, le autorità e Jina, la ragazza borghese che Chilsu frequenta per un po’), approssimativa e impulsiva, ma anche genuina e generosa l’altra.

Chilsu e Mansu è un esempio di cinema globale nel senso più nobile del termine, perché pur avendo una forte impronta e un orientamento “locali,” con problematiche e modi di affrontarle tipicamente “coreani,” mostra una profonda umanità e una comprensione universale per la natura dell’uomo e la sua sorte nella società moderna, violenta e contraddittoria.

 

Mariagrazia Costantino

  • Regia: Park Kwang-su
  • Paese: South Korea, 1988
  • Genere: Drammatico
  • Durata: 108 minuti
  • Cast: Park Joong-hoon, Ahn Sung-ki, Bae Chong-ok, Kim Myeong-Kuk, Kwon Jae-Hee
  • Valutazione: 4
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