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Giovedì 12 Ottobre 2023 13:26 Pubblicato in Recensioni

Una commedia dolceamara è l' ultimo lavoro del regista francese Olivier Babinet che porta sullo schermo una storia adolescenziale che parla anche agli adulti.

Lucie è la figlia sognatrice di William, un uomo disoccupato che convive con la sclerosi multipla e che fa fatica ad occuparsi degli affari pratici di una vita comune.

Lucie è un'adolescente diversa dagli altri. Ha uno stile poco convenzionale e parla a se stessa con la grazia e l'ambizione di chi porta i suoi pensieri su un diario che è il custode delle sue prospettive.

Nonostante l'aspetto poco adulto: grossi occhiali tondi, capelli malamente raccolti in una coda poco accurata e vestiti oversize, si occupa da sola del padre malato da cui rischia di essere allontanata a causa di un’indagine dell'assistenza sociale che ne tutelerebbe la condizione di minore.

Lucie deve pensare sempre a tutto; è la madre di suo padre è la responsabile della sua piccola famiglia a due. Nonostante i ruoli invertiti William è un padre fantasioso, travolge la figlia e la rende protagonista di una vita speciale a suo modo. Lucie la vita speciale la sogna e la anela. Non ha molti amici se non  un ragazzo della sua scuola un po’ strambo e dai gusti inusuali tanto quanto lei. Riesce a esperire il suo senso di vuoto e il desiderio di riempirlo di straordinarietà solo con il suo nuovo amico, custode anche lui del mondo nascosto della ragazzina protagonista.

In un film dove la normalità è messa in discussione e la realtà è rappresentata al contrario, come in uno specchio deformato, dove la commedia incontra la malinconia e il ruolo filiale è soppiantato da quello genitoriale, il regista porta sullo schermo una storia elegante e delicata che si nutre dello spirito adolescenziale dell’America degli anni 90.

La voce fuori campo è proprio quella di Lucie che si racconta in terza persona come la protagonista del film della sua vita che deve però ancora iniziare.

Valeria Volpini

Dogman

Martedì 12 Settembre 2023 13:18 Pubblicato in Recensioni

Il film di Besson si apre con una citazione poetica che racchiude il senso di tutta la pellicola. "Ovunque ci sia un infelice Dio gli invia un cane".
In questa storia drammatica, infatti, gli unici soccorritori, compagni fedeli che non tradiscono mai, sono proprio gli animali.
Douglas è un bambino sensibile che vive con un padre e un fratello maggiore violenti e una madre troppo debole, incapace di opporsi e costretta essa stessa alla fuga per salvarsi.
I cani che, per il padre orco e il fratello maggiore sono solo motivo di affari, diventano invece per Douglas l'unico aiuto per rimanere in vita. Gli unici angeli custodi di un'esistenza che di umano ha davvero ben poco. Costretto dalla cieca violenza di un genitore disturbato e anaffettivo a convivere nella gabbia insieme a una muta di cani saprà amarli e venire amato da loro al suo grado massimo. Nel momento dell'estremo pericolo saranno i soli ad intervenire e a cambiarne le sorti. Grazie all'intervento dei fedeli amici a quattro zampe per Douglas inizierà una nuova vita libera ma ugualmente costretta e limitata.
L'attore protagonista (uno strepitoso, convincente e credibile Caleb Landry Jones) offre un'interpretazione intensa e commovente di un personaggio ai margini, con un doloroso passato e un complicato presente, alla ricerca di un briciolo di amore che possa riequilibrare le sorti di un'infanzia violata, calpestata, umiliata e mutilata sotto ogni aspetto.
Un lavoro interessante viene eseguito sulle musiche e la colonna sonora firmata da Eric Serra che accompagna i momenti topici e le tappe salienti della pellicola. I brani scelti sottolineano, in maniera incisiva, gli stati d'animo che scaturiscono dalle azioni che compiono i personaggi. Besson con "Dogman" torna in grande spolvero presentando una favola nera con un assoluto attore fuoriclasse istrionico e camaleontico.
Nello sviluppo della trama sono ben calibrati i molteplici flashback, ben posizionate le parti di pura azione e si arriva ad una conclusione potente e di grande afflato emotivo. Il racconto appare in tutte le parti avvincente e, sebbene non sia sempre credibile per eccessi e forzature soprattutto quando a recitare sono i tanti cani presenti sulla scena, il grande pregio è quello di tenere incollati allo schermo per constatare che alla fine tutto si incastra e gira nel modo giusto. L'intensità dei dialoghi sono resi ancora più magnetici da un gioco di primi piani e inquadrature molto strette che colgono anche le più piccole variazioni di pensiero e rimandano alle gradazioni emotive che mutano anche in modo repentino, restituendo anche le più piccole differenze in modo autentico ed estremamente realistico. Il trucco è  un altro potente mezzo tecnico utilizzato sfruttando le sue elevate potenzialità e riportando in vita icone del passato che hanno in comune con il personaggio della storia vite difficili e drammi personali che le hanno segnate nel profondo, relegandole a infelicità croniche. In questo nuovo lavoro ritroviamo i personaggi cari al primo Besson, quei reietti scomodi affascinanti e carismatici, ultimi nella scala sociale che racchiudono in se profondità abissali, nei quali ci si perde per poi ritrovarsi con tutte le risposte. Un film potente nell' impianto, con una storia al limite del credibile che lascia attoniti, stupiti e commossi.
Come asseriva anche il filosofo Arthur Schopenhauer “chi non ha mai posseduto un cane, non sa cosa significhi essere amato”.

David Siena

La moglie di Tchaikovky

Venerdì 06 Ottobre 2023 14:46 Pubblicato in Recensioni

San Pietroburgo 1893. Il grande compositore e musicista russo Petr Tchaikovky muore a 53 anni di colera.

La scena si apre sull’immagine reverenziale e accorata di Antonina Ivanovna Miljukova, la vedova,  aspirante musicista in gioventù, che cerca la frase dedicata al marito più affine ai suoi sentimenti, ingrigiti da una fotografia tetra e nebbiosa.

 “Al grande. Al più grande. Al mio amato...” .Le stesse definizioni che scorre  Antonina nella sua mente per trovarne una che calzi tanto da decorare la corona funebre, sono il segno della sua devozione. L’ammirazione prima dell’amore, o essa stessa la causa e non l’effetto dei sentimenti tanto cementati e mal riposti che la giovane donna russa riservava al suo reticente marito.

C’è il funerale, e la camera segue alle sue spalle Antonina. Il passo è fiero ma sopito da un torpore soggiacente il condizionamento sentimentale di un amore non corrisposto. Cammina fino a raggiungere la salma del marito che  improvvisamente si anima e protesta contro la presenza stessa della vedova che mai aveva amato (prodromo della futura psicosi della donna). Un’inquadratura a piombo segue lo scuro corteo funebre, illuminato solo dal viso disperato di Antonina che alza disperata gli occhi al cielo e allo spettatore, abitata dal delirio del rifiuto oltre la morte.

I toni scuri fanno poi spazio al chiarore e alla luce di un flashback che porta la scena in un salotto di Mosca, vent’anni prima. Qui i due protagonisti s’incontrano per la prima volta e Tonya svela la sua infinita ammirazione per il musicista e le sue conseguenti intenzioni matrimoniali che si concluderanno con le nozze tra i due nonostante la promessa di  un amore null’altro che fraterno da parte di Tchaikovsky.

La musica è il tramite sentimentale, la misura stessa dell’amore della protagonista per il suo amato, il “più grande di sempre”; l’uomo che lei conosce “attraverso la musica” e che è disposta ad accompagnare per sempre.

“La moglie teme il marito ma è lui che teme l’amore perché non lo governa” dice il prete mentre celebra le nozze. E così tanto non lo governa, il grande compositore, che lo trasforma in un’idiosincrasia sfrenata verso la donna, in un odio tale, da far giungere alla pazzia la moglie che ne ambisce, fino alla morte, le attenzioni e ne costruisce un simulacro immaginario da idolatrare.

Con un sapiente stile associativo il regista allontana la camera e la fa salire a piombo sulla scena, raccontando i personaggi come a volerne seguire le dinamiche distaccandosene ma, allo stesso tempo, portando lo spettatore a renderle parallele. Come il funerale, così il corteo matrimoniale è seguito dall’alto adornandosi, stavolta, di luce e colori chiari in antinomia con il buio funebre della scena iniziale.

In un gioco di specchi, simbolici veicoli dell’ambivalenza e delle identità solo riflesse, Tonya non riesce a convincere se stessa della vera natura omosessuale del marito, nonostante gli amici e la cognata le confessino palesemente l’orientamento di Petr. Lei si sente persino colpevole e ne brama continuamente la presenza, anche dopo che i due si separeranno e che lei avrà tre figli dal suo avvocato divorzista che però non amerà mai, così come non riuscirà ad amare i figli suoi ma di un padre diverso dal suo amato marito, dati in orfanotrofio appena nati.

Tale è la sua spasmodica ricerca di convinzione che finirà per impazzire e in miseria, rovinata dalla sua stessa ambizione sentimentale accecata dal mito del talento del marito.

Il tragico martirio dalla moglie di Tchaikovsky è raccontato dal regista (Kirill Serebrennikov) come un passaggio dalla luce dell’illusione all’ombra della follia, puntellando la pellicola con scene squisitamente teatrali (come insegna la sua carriera di regista teatrale) e coreografiche, rendendo il ritmo meno serrato, ma ben esaurendo il tratto psicologico che si ciba di quello sentimentale nella mente della protagonista, priva di orpelli recitativi, nonostante il tono drammatico parossistico. La scelta del regista è chiara ed evidente: non è una storia che esalta l’artista, ma è una storia che racconta come l’idea di quello che crediamo essere a nostro appannaggio, a volte è figlia di un esaltante senso di ammirazione e idolatria che rende ciechi e non fa vedere null’altro che la propria illusione.

Valeria Volpini

Asteroid City

Venerdì 06 Ottobre 2023 14:40 Pubblicato in Recensioni

Asteroid City di Wes Anderson è tra i film più visti nelle ultime settimane, ma è davvero un titolo da non perdere? 

Spesso quello che chiamiamo tratto distintivo di un autore se portato agli estremi finisce per rendere la narrazione piuttosto marginale, generando il più delle volte confusione nel pubblico. Ciò che ha reso Wes Anderson un innovatore, un romantico visionario, è stato il suo particolarissimo racconto per immagini vivaci e colorate, tanto da farci immergere in ogni film quasi all’interno di un tableau vivant. Un aspetto che lo ha consacrato come autore e, soprattutto, come regista capace di realizzare dei piccoli capolavori unici nel loro genere. Nonostante la cura maniacale per il dettaglio e la volontà di riunire ogni volta un cast corale di grandi nomi, Anderson ora è giunto in una fase di reiterazione, dalla quale forse riuscirà ad emergere solo discostandosi da questa ossessione per l’estetismo. Asteroid City sintetizza perfettamente come questo problema sia stato portato per l’ennesima volta all’esasperazione. È il 1955 e ci troviamo nella città immaginaria di Asteroid, durante una convention di giovani astronomi e cadetti spaziali. Il clima di discussioni e confronti vivaci, viene bruscamente interrotto da un evento straordinario ed inquietante: l’arrivo di una presenza aliena. Questo incontro ravvicinato muterà radicalmente tutti gli equilibri della cittadina generando un uragano di situazioni inverosimili che porterà tutti i personaggi a fare i conti con le proprie ossessioni. Asteroid City, in concorso a Cannes qualche mese fa, e che esce al cinema a due anni di distanza dall’incompreso (legittimamente) The French Dispatch, se da un lato attrae per quel timbro grafico e quella messa in scena così appagante per lo sguardo, dall’altro intrappola lo spettatore nell’ennesimo racconto uguale a tanti altri già narrati dal regista in precedenza. Le dinamiche sono più o meno le stesse, lo stile pure, cosa cambia? Il giro di attori, che stavolta coinvolge nomi nuovi che vanno ad aggiungersi a dei vecchi amici, oramai divenuti anche loro la spina dorsale dell’impronta andersoniana. Tuttavia, nonostante il cast sempre eccezionale e il rigore dell’impianto grafico, la sensazione è quella di avere di fronte un’opera senz’anima, un involucro molto bello ma privo di contenuto. La durata eccessiva del film, soprattutto per quello che si narra (ossia nulla), non fa atro che esasperare quel senso di vuoto tematico, che oltretutto si percepisce dal primo all’ultimo istante. Evidente è anche la profonda frattura tra uno studio morboso per le scenografie, di diritto tra le più memorabili finora proposte dal regista, e un disinteresse lampante per un plot che fa acqua da tutte le parti. Le scenette situazioniste in cui vengono incasellati i tanti personaggi, esistono al solo scopo di dare una ragion d’essere a molti attori che sembrano trovarsi lì per fare numero. Operazione rischiosa quanto insensata dal momento che la trama presenta pochi colpi di scena, a rigor di precisione: uno.  E se poi si dovesse focalizzare su questo imprevisto, rappresentato dalla presenza aliena, non si riuscirebbe comunque a scorgere un reale interesse nel trattarlo in modo quanto meno dignitoso per la trama. Dai dialoghi alla caratterizzazione dei personaggi passando per l’epifania di un’imminente minaccia, è tutto abbozzato. La verità è che questo regista è di fronte ad un bivio ora, reinventarsi o accanirsi. Wes ti abbiamo voluto molto bene, ma è tempo di tacere quando non si ha più nulla da dire.

Giada Farrace