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Immaculate - La Prescelta

Giovedì 11 Luglio 2024 08:40 Pubblicato in Recensioni
La scarsa affluenza nelle sale registrata negli ultimi anni, soprattutto se si esamina il biennio post-pandemia, marca con chiarezza un dato tanto evidente quanto allarmante: il pubblico preferisce l’intrattenimento on-demand. Le logiche del mercato cinematografico statunitense hanno da sempre agito nell’ottica della calamita, coniugando ai generi più complessi da distribuire, volti molto amati dalla pluralità di spettatori. Con Immaculate siamo di fronte all’ennesimo esempio di breadcrumbing  cinematografico che se da un lato intende solleticare la curiosità degli appassionati con una storia dai toni dell’horror ecclesiastico, dall’altro coinvolge (con telefonatissima malizia) anche i meno appassionati al genere per la presenza della bellissima Sydney Sweeney, tra le attrici più apprezzate del momento. Una strategia che dovrebbe garantire un successo, se non planetario, per lo meno affidabile, capace di coprire l’investimento e un altro giro di popolarità alla giovane attrice. Ma anche stavolta la scommessa è persa per molte ragioni, alcune delle quali appaiono nella loro evidenza in modo a dir poco imbarazzante. Procedendo per gradi, la storia sceglie un’ambientazione molto comoda per chi vuole giocare su un connaturato senso di angoscia e mistero: il convento. La giovane suora americana Cecilia si trasferisce in un antichissimo convento in Italia, isolato dalla civiltà e immerso nelle campagne, un luogo in cui ci si prende cura delle suore morenti, accudendole nei loro ultimi giorni. Il convento ospita al suo interno un’importantissima reliquia a cui tutti fanno cenno in modo solenne e con grandissimo ossequio, si tratta di un chiodo che si pensi appartenga alla croce su cui Cristo fu crocifisso. Elemento che conferisce al luogo una forte aura di misticismo. Per Cecilia, è tutto nuovo e stimolante e la quotidianità sembra essere partita col piede giusto, la giovane si sente subito inserita stringendo amicizia con una sua coetanea ed entrando con disinvoltura nelle faccende quotidiane. Ma un giorno, tra lo stupore di tutti, la ragazza scopre di essere incinta, nonostante la sua castità, rimasta perfettamente intatta. Il convento viene assalito da un’incontenibile euforia: Cecilia è stata scelta per accudire qualcosa di miracoloso e divino. Per la giovane sorella questo sarà l’inizio di un atroce calvario, che la porterà a prendere una decisione risolutiva e terrificante. Dalla trama si evince che il film abbia come cuore pulsante il ventre della sorella Cecilia o, meglio, ciò che esso contiene. Ma è proprio da questo punto focale che si stenta a procedere con scioltezza perché le carte in tavola sono davvero di poco peso e vengono continuamente maneggiate in modo maldestro. Si inizia con un promettente armamentario degno di un rispettabile film dell’orrore, con un’ambientazione sinistra e dotata di un ottimo impianto visivo purtroppo totalmente dimenticato e svilito nel suo potenziale. Nessun gioco d’assetto fotografico o virtuosismo di luci e ombre.  Il convento resta uno sfondo abbozzato dall’inizio alla fine e forse questo è l’unico elemento capace di mantenere una sua costanza. Dalla gabbia della prevedibilità scenografica si passa ad una gabbia molto più gravosa ai fini della trama e cioè quella dell’impianto narrativo. Un racconto stretto nella morsa della fretta e della superficialità dove non trova mai spazio un approfondimento psicologico o un’onesta sequenza di suspense. Sydney Sweeney si rivela poi anche una scelta centrata per il ruolo che deve interpretare, uno sguardo ingenuo e puro che si sposa bene con Suor Cecilia e che per quei novanta minuti le toglie di dosso quella sessualizzazione estrema e asfissiante con cui Hollywood la sta divorando.  Ci si sbriga a ripassare i contorni sbavati e prevedibili della vicenda, procedendo a passo spedito verso un epilogo confuso, privo di un qualsiasi guizzo inquietante, se non qualche immagine splatter per insaporire un brodo irrimediabilmente stemperato. Insomma, uno schema incomprensibile che diventa un disastro totale nel finale, unico baluardo a cui tutti gli appassionati si sono aggrappati nella speranza di una piccola epifania mostruosa. Manco quella. La domanda è doverosa dunque,  sono questi i film che dovrebbero far tornare la gente in sala? 
 
 
Giada Farrace 
 
Se c’è una conclusione a cui tutti sono arrivati dopo il quarto episodio della seconda stagione di House Of The Dragon è che ci sarà una guerra in cui domineranno sangue e fiamme. I primi cinque episodi della serie hanno spianato la strada ad una tensione crescente tra le fazioni dei Neri e dei Verdi. L’incontro tra i due personaggi femminili non ha provocato l’effetto sperato da Rhaenyra. Un profondo rancore domina gli animi delle due donne ed è un sentimento ancora molto sedimentato soprattutto in Alicent.  D’altronde anche se ci si sposta a Roccia Del Drago, si scorge un Jace irrequieto che sembra voler menar le mani da un momento all’altro, incapace di restare fermo, ma costretto per esplicita richiesta di Rhaenyra a indugiare nell’attesa. La regina dei draghi vuole giungere a una soluzione strategica avveduta e incisiva, nel tentativo di sanare una situazione difficile sia per il regno sia per il destino di moltissimi individui. E’ evidente che le battute iniziali sono risultate nodali per il gioco di trame e quella fitta rete di eventi chiave per accedere a una sezione più burrascosa e feroce. Il quinto episodio è l’anticipo dello scontro che tutti attendono con trepidazione, durante il quale non ci sarà certo spazio per esitazioni né verrà dimostrata alcuna pietà da entrambe le parti. Tornando alla trama, si perde un po’ la bussola verso la fine dell’episodio smorzando una tensione altissima accumulata dal pubblico in quello precedente. Un passo calcolato alla perfezione per aprire la strada a quello che gli autori ci presentano come il segmento più sanguinoso e violento della seconda stagione: il sesto episodio. Una strategia che come sempre tiene incollati gli spettatori con quel particolare ritmo dosato tra picchi di adrenalina e momenti di stasi indispensabili per sbrogliare prospettive d’azione utili a rivoluzionare improvvisamente le carte in tavola. Sebbene questo quinto episodio funga da trampolino, i cui contorni sono definiti infatti da un impianto dialogico piuttosto intenso e dettagliato, forse si poteva operare uno snellimento di qualche scena smodatamente verbosa. Comunque sia, ora si giunge a quella che sarà una delle parti più coinvolgenti e movimentate dell’intera stagione che ci ha già emozionato attraverso uno scontro tra draghi mozzafiato, merito di una regia perfetta che si lega ad un montaggio portato agli estremi della sua intensità. La speranza è che si continui su questa linea di raffinatezza stilistica, ma che soprattutto la serie non perda quell’identità che ha difeso strenuamente fino a questo momento. 
 
 
Giada Farrace 
 
 

Fuga in Normandia

Giovedì 20 Giugno 2024 08:23 Pubblicato in Recensioni
Un evento storico importante letto in chiave personale legando la storia con la s maiuscola ad una vicenda umana e familiare che ha la dolcezza e la tenerezza di chi è prossimo alla dipartita terrena e sente l'urgenza di chiudere il cerchio e non lasciare nulla in sospeso, niente di incompiuto come se fosse indispensabile mettere l'ultimo tassello a suggello del passato per pacificarsi con il presente e andare incontro al futuro qualunque esso sia. Bernie e Rene sono una coppia di anziani coniugi che passano la loro vecchiaia in una casa di riposo. Bernard Jordan cova un grande desiderio che mal si concilia con la sua veneranda età di quasi novantenne. Il suo sogno, da realizzare a qualunque costo, è la partecipazione alle celebrazioni per il settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, impresa che lo vide protagonista il 6 giugno del 1944 quando era solo una giovane recluta della Marina inglese. Ad incarnare per il pubblico questa coppia dall'amore forte e duraturo ci sono due giganti dalla collaudata alchimia professionale essendo già stati interpreti credibili come coniugi in "Una romantica donna inglese" del regista Losey. Michael Caine al suo ultimo ruolo prima del ritiro ufficiale dalle scene pubbliche e Glenda Jackson al suo ruolo finale prima della sua morte avvenuta nello stesso anno di realizzazione della pellicola. Perfetti per restituire una storia d'amore nata in giovane età in un periodo storico difficile e arrivati alla senilità alle prese con i bilanci inevitabili della vita trascorsa in simbiosi superando avversità dopo una lontananza forzata, i lutti di amici e ogni sorta di altro problema che la loro lunga esistenza li abbia sfidati ad affrontare vedendoli sempre uniti e sempre complici. La stessa complicità che consentirà a Bernie di compiere questa ultima folle impresa prima di chiudere per sempre con il rimorso, salutare definitivamente i rimpianti e lasciare il posto al nostalgico ricordo di quello che è stato ma anche di quello che si è contribuito a realizzare, con sofferenza e abnegazione. Tratto da una storia realmente accaduta nel 2014 questo film si mantiene, grazie alla scrittura pacata, molto rispettoso senza mai eccedere sia dal punto di vista dell'impresa folle riprendendo quello che si verificò nella realtà con i tabloid inglesi a coniare titoli pomposi e a ribattezzare questo arzillo veterano di guerra con il termine di grande fuggitivo ma nemmeno insistendo su aspetti più leggeri e divertenti pur mantenendo ugualmente battute sagaci nella giusta misura. Quello che al regista importa rimarcare è decisamente la storia privata di una coppia separata da un evento traumatico come la Seconda guerra mondiale, la rievocazione di un atto che pose fine ad una aberrazione che si sarebbe trasformata in Apocalisse per il genere umano se il disegno folle del nazifascismo non fosse stato arrestato proprio su una spiaggia prendendo il nemico in contropiede. Sono molte le scene che rimarcano l'assurdità del conflitto bellico e ricordano il sacrificio umano che non può essere mai giustificato e giustificabile né allora né mai e può essere definito giustamente solo con la parola spreco. Un film che non rincorre la lacrima facile anche se la commozione è sempre in agguato, complice anche una colonna sonora pervasiva e altisonante. Anche la fotografia è struggente e incornicia alla perfezione una vicenda umana che si fa paradigma di mille altre storie simili che purtroppo si susseguono nei tempi costrette a compiacere la brama di potere di uomini che non vedono o peggio accettano le conseguenze nefaste di scelte che hanno inevitabilmente il fiato corto e si infrangono travolgendo speranze di giovani vite innocenti. Il regista navigato e che sa decisamente il fatto suo è un Oliver Parker alla sua decima prova e dirige con maestria una coppia di attori sublimi che con estremo garbo e naturalezza ci descrivono la bellezza di un sentimento puro e vero. Oltre a maneggiare un'efficace tecnica attoriale regalano ai loro personaggi un grande bagaglio di umanità consegnando allo spettatore un ritratto memorabile di una generazione che si è trovata a dover scrivere un finale ad una storia nera e grazie al loro sacrificio è riuscita nell' intento di fermare una corsa impazzita verso la distruzione totale. Un film che ci invita a rammentare i fatti storici perché solo ricordando quello che si è verificato in passato siamo in grado di fermare in tempo ogni rigurgito di guerra ancora così attuale in questo nostro tempo.
 
Virna Castiglioni 

The Bikeriders

Mercoledì 19 Giugno 2024 07:37 Pubblicato in Recensioni
Il racconto scaturisce dalla viva voce di una delle protagoniste e ci trasporta all'interno di una banda di motociclisti. Il regista, assurgendo un punto di vista privilegiato come la groupie che segue la rockstar di riferimento e sa ogni più recondito segreto dell'artista, attraverso le parole di Kathy, facciamo la conoscenza di un gruppo affiatato di giovani nell’America degli anni 60. Hanno tutti il culto delle due ruote e hanno voglia di vivere ad alta velocità inseguendo la libertà che può dare la corsa in sella con il vento tra i capelli. Indossano tutti un giubbotto di pelle come scudo di protezione ad indicare la famiglia a cui appartengono e alla quale si giura fedeltà eterna.
 Cinema “on the road” dall’impianto classicheggiante il film si fregia di un cast di alto livello che ci coinvolge nelle scorribande, ci mostra il lato intimo dei vari componenti e ci racconta l’ascesa e il declino fino al disfacimento di chi aveva creduto al motto di "tutti per uno e uno per tutti" ma che soprattutto credeva che l’affiliazione potesse durare per sempre.
 Tratto dall’omonimo libro reportage fotografico di Danny Lyon, il film è una lunga intervista alla moglie (Kathy) del componente più carismatico della banda (Benny). Lyon ha esplorato in prima persona le storie e i personaggi del Chicago Outlaws Motorcycle Club, un gruppo di motociclisti dediti ad azioni criminose di cui lo stesso Lyon fece parte dal 1963 al '67, esercitando la figura di fotografo reporter con ampi spazi di manovra essendo stato per un periodo anche un membro effettivo. Nella finzione il gruppo di motocicli porta il nome di fantasia Vandals cucito sulle giacche di pelle e sui giacchini di jeans che sono la loro seconda pelle ed esplora le dinamiche che si instaurano tra i componenti. Il film insiste soprattutto su un triangolo (di un amore diverso da quello carnale) che coinvolge il leader fondatore del gruppo (Johnny) e il suo giovane adepto più carismatico (Benny) e la moglie di quest’ultimo (Kathy). Quando dalla passione per le due ruote si passa alla violenza fino a commettere omicidi ci sarà un bivio e una scelta che metterà in crisi l’amicizia ma spezzerà anche il sogno nel quale ci si era buttati a capofitto agli albori della storia. Metafora dell’America di quegli anni piena di contraddizioni ma dal fascino irresistibile come la vita di gruppo con i motori rappresenta per tutti i giovani del mondo alle prese con i sogni e le speranze di vivere una vita piena e memorabile.
 L’efficace fotografia di Adam Stone accompagna le imprese e le gesta di questo gruppo di bikers e le confessioni della donna in un’altalena di flash-back ben assemblati che non appesantiscono la narrazione riuscendo a mantenerla fluida e ricostruiscono fedelmente uno spaccato di vita in cui molti nostalgici si rispecchieranno. Un film che si immette nel solco lasciato da altre pietre miliari della cinematografia di genere da “Easy Rider” a “Il selvaggio” tornando a parlare di anni americani turbolenti e di un fenomeno che ha connotato gli anni Sessanta e lasciato uno strascico per le generazioni successive.  Un film che ha una sottotraccia nostalgico- malinconica come tutte le storie che si sono ammantate di miti e leggende e sono pervenute a noi per rimanere glorie epiche.
 Uno dei punti di forza del film è decisamente quello di aver scelto come narratrice principale una donna che ha nel bene e nel male deciso le sorti del gruppo per la sua influenza esercitata nei confronti di uno dei componenti più importanti della banda.
 Un plauso, infine, va indirizzato al reparto di costumi e acconciature del film per la meticolosa ricostruzione dell’epoca di ambientazione. Vedendo come sono vestiti e pettinati i personaggi siamo catapultati indietro nel tempo e ci sembra di rivivere quei meravigliosi anni densi di creatività e di follia contraddistinti dalla voglia di cambiare il mondo trasformandolo anche dal punto di vista estetico.
 
Virna Castiglioni