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A Complete Unknown

Giovedì 23 Gennaio 2025 15:55 Pubblicato in Recensioni
Nel 2016 Bob Dylan ottiene il Premio Nobel per la letteratura «per aver creato nuove espressioni poetiche all'interno della grande tradizione della canzone americana» ma, come se fosse cosa ordinaria, non si presenta neppure alla cerimonia di premiazione. Allergico ai riconoscimenti, antidivo per eccellenza e refrattario al successo sebbene sia diventato uno dei più grandi di tutti i tempi.
 
Il biopic  “A complete Unknown”  del regista James Mangold (che già si cimentò nel 2005 con un altro biopic incentrato sulla figura di Johnny Cash, altro mito americano) ripercorre le tappe salienti della carriera artistica di Bob Dylan ed è liberamente ispirato al libro biografico scritto da Elijah  Wald “Dylan Goes Electric”.
 
Fulcro della narrazione è, come giusto che sia, la musica di questo cantautore eclettico e innovativo, poeta e artista visionario dall’incredibile talento musicale che ha spaziato tra vari generi (folk, country, jazz e swing, blues, rock e rockabilly) fondendoli e reinventandoli. Introdotto nella scena folk newyorkese, con sede principalmente nel Greenwich Village da Pete Seeger e Joan Baez (con la quale ebbe una lunga e travagliata storia d’amore) il film pone l’accento sul suo contributo importante e dirompente nell’utilizzo del suono elettronico all’interno della tradizione della musica folk. Dylan seppe compiere una vera e propria rivoluzione copernicana che lo fece percepire dal suo pubblico adorante dapprima come un alieno, un traditore, un ingrato, un impostore. Invece Bob era solo un pioniere che aveva capito il potenziale della contaminazione fra generi e ne aveva saputo fare un uso di grande impatto.
 
Timothée Chalamet, anche in questa nuova prova, per nulla facile, si conferma attore di spessore capace anche di non deludere nell’interpretazione dei tanti brani (oltre quaranta canzoni appartenenti all’arco temporale 1961-1965 registrate dal vivo anche se non tutte utilizzate), eseguiti senza l’ausilio del playback, che costellano la pellicola.
 
Reso molto somigliante al giovane Bob soprattutto dall’acconciatura rimasta pressocché sempre identica riesce nell’impresa di renderlo in modo aderente al vero dal punto di vista non solo estetico ma anche raggiungendo in pieno l’obiettivo di farlo ricordare nei modi di fare e nel modo di pensare e agire. Una prova superata a pieni voti. Nel cast è affiancato da altri attori di elevato calibro: fra tutti spicca Edward Norton che interpreta Pete Seeger.
 
Quello che, pur non disturbando la visione, non è entusiasmante è la cronaca dei suoi amori importanti. Vengono raccontati come se si dovesse per forza fare il computo delle storie avute ma senza infondere particolare trasporto o emozione.  Molto intensi, invece, sia il primo incontro che il commiato finale di Dylan con il suo idolo, il cantante e chitarrista folk Woody Guthrie, che era molto malato.  Introdotto nella scena folk newyorkese, con sede principalmente nel Greenwich Village da Pete Seeger e Joan Baez (con la quale ebbe una lunga e travagliata storia d’amore) Dylan ha rappresentato il trait d’union fra la vecchia guardia della musica folk americana e un nuovo modo di scriverla e cantarla.
 
Il film, volendo tentare una estrema sintesi, si può definire uno scrigno che racchiude magnetica bellezza, maniacale cura, fascino senza tempo ma soprattutto rende merito alla musica sublime composta e interpretata da questa icona mondiale.
 
Virna Castiglioni
 

Liliana

Lunedì 20 Gennaio 2025 15:50 Pubblicato in Recensioni
Uno straordinario ritratto di una donna forte, resistente, combattiva, che ha scelto, autoimponendoselo, la vita nonostante tutto.
 
Dopo una brutta depressione ha deciso di raccontare al mondo quello che aveva vissuto (forse non nella sua più brutale versione come sostiene la figlia minore) per estirpare quel male che a soli tredici anni i nazifascisti le avevano inferto segnandola per sempre. Liliana Segre è una delle testimoni italiane più anziane di quel terribile passato.
 
Ancora molto lucida e attiva, svolge un' importante lavoro di divulgazione nelle scuole per raccontare ai ragazzi quello che l' uomo è stato in grado di compiere di terribile nei confronti di altri essere umani, suoi simili. Lo spirito indomito che la contraddistingue, le ha consentito di sopravvivere alla prigionia, alla morte del suo amato padre e dei suoi nonni paterni e le ha permesso di poter risorgere dopo un lungo periodo di buio. Liliana Segre è riuscita a superare le sofferenze atroci che hanno provato non solo il suo corpo ma soprattutto la sua anima e la sua mente. Grazie all' amore di un marito amorevole e la gioia di tre figli. Quel numero 75190 tatuato sull'avambraccio e che neppure il tempo trascorso è riuscito a sbiadire è un segno indelebile sulla pelle ma è soprattutto il marchio che racchiude l' abominio perpetratole. La voce calma e pacata di Liliana Segre racconta l'orrore vissuto senza mai mostrare rabbia, perché il male subito non ha saputo annullare la sua educazione, la sua etica, la sua personalità che è rimasta intrisa di cultura di vita. Sempre, anche nei momenti peggiori, quando poteva essere naturale e anche giustificato un ricorso all'odio. Neppure il sentimento di vendetta riuscì a impossessarsi di lei.  Nemmeno durante la marcia della morte protrattasi per giorni in fuga dal campo di Auschwitz fino ad un campo più decentrato. Costretta dai suoi aguzzini che, sentendosi braccati cercarono di fuggire occultando le prove delle loro nefandezze, avrebbe avuto occasione per uccidere ma non lo fece. Mai avrebbe potuto diventare un'assassina. Il documentario si fregia di una bella fotografia che riprende dall'alto i luoghi simbolo della Milano, città che le diede i natali, il campo di prigionia fino alle aule del Parlamento insignita del titolo di Senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per finire con l'aula Magna dell'Università Statale di Milano per il conferimento della laurea honoris causa magistrale in Scienze Storiche. Con un sottofondo musicale evocativo che accompagna le parole di questa fragile e forte donna è difficile trattenere le lacrime e, dopo la visione, rimanere indifferenti ripensando al dramma di cui è stata protagonista involontaria insieme a sei milioni di uomini e donne, colpevoli solo di essere ebrei. 
 
Virna Castiglioni
 

Io sono ancora qui

Lunedì 27 Gennaio 2025 15:31 Pubblicato in Recensioni

"Io sono ancora qui" è un affresco familiare nel Brasile degli anni bui della dittatura militare. Prima della rivoluzione del 1964 Rubens Paiva era un deputato laburista e aveva tutto quello che un uomo perbene può desiderare per essere felice e condurre un'esistenza appagata. Un lavoro impegnato, una moglie innamorata e complice e cinque splendidi figli che portano allegria e confusione in una bella villa arredata con gusto e tenuta con ordine. Una casa sempre aperta ad amici con cui trascorrere il tempo fra conversazioni serie ma anche tanti momenti conviviali e spensierati. Il pericolo però è appena fuori dalla porta e si fa sempre più aggressivo. È minaccioso. Intimorisce. Sembra poter rivolgere i suoi strali sulla figlia maggiore Veronica che simpatizza per i movimenti studenteschi antigovernativi avversi al Regime.

L' occasione per toglierla da un pericolo che potrebbe lambirla fino ad inghiottirla giunge propizio da una famiglia amica che prende la decisione di trasferirsi a Londra e non esita ad estendere l' invito a seguirli. Loro non accetteranno ma lasceranno che la loro primogenita si allontani in cerca di un futuro migliore.

Tutto sembra tornare ad una pseudo normalità anche se soffiano venti preoccupanti. Si susseguono nel Paese rapimenti di intellettuali e sequestri di ambasciatori che vengono utilizzati come merce di scambio a fini politici. 

Un giorno che sembra essere come gli altri fra l' allegria dei ragazzi che vivono di fronte alla spiaggia e si alternano fra giochi e rientri repentini al solo scopo di mangiare qualcosa velocemente e cambiarsi per poi tornare di nuovo fuori irrompe la violenza. Vile, bieca. 

Il padre viene arrestato e portato in caserma per riferire e chiarire avvenimenti che lo riguardano. Poco dopo la stessa sorte verrà subita dalla moglie e dalla secondogenita. Se per le due donne l'incubo fortunatamente giunge ad una conclusione veloce il padre e marito amorevole, invece, non farà mai più ritorno. Il regista Salles ci racconta una delle peggiori pagine della Storia del Paese carioca ma, a differenza di molte altre pellicole, sceglie di raccontare il dramma dal punto di vista di chi resta, di coloro i quali devono affrontare una perdita ma devono anche farsi forza per andare avanti. La madre Eunice lo deve ai suoi cinque figli. Si impone di rimanere lucida e razionale, cerca con ogni mezzo a sua disposizione di proteggere chi è stato investito da un dolore troppo grande senza averne colpe e senza poter sapere le reali motivazioni che hanno determinato questa situazione.

Per questo racconto di resistenza, pacifico e composto, il regista si avvale di un' attrice immensa che da metà pellicola in avanti porta sulle sue minute spalle tutto il peso della narrazione. 

Intensa e perfettamente in parte nel rappresentare la dignità e la compostezza di chi non può permettersi il lusso di piegarsi al dolore ma deve imporsi di sorridere e cercare di regalare alla propria famiglia, sebbene mutilata e umiliata, una parvenza di normalità conservando un po' dell'armonia che regnava prima che tutto precipitasse. 

Il film è tratto dal romanzo omonimo autobiografico di Marcelo Rubens Paiva ultimogenito della coppia protagonista della pellicola e, al tempo dei fatti, solo un bambino che viveva felice in un gineceo di sorelle più grandi.

Con una rigorosa ricostruzione degli avvenimenti, senza mai calcare la mano, il regista restituisce allo spettatore una sincera e profonda commozione. 

La regia appare misurata, senza eccessi. Non esagera nel mostrare ma semmai fa intuire senza esporre troppo. Non racconta mai più del necessario. 

La fotografia firmata da Adrian Teijido restituisce la bellezza naturale di un luogo baciato dal sole, ne cattura tutta la desolazione quando l' ambientazione è la claustrofobica cella di detenzione o l' ufficio tetro e buio dove si svolge l' interrogatorio sommario, sottolinea la nostalgia e la sofferenza quando si è costretti ad abbandonare la casa familiare per iniziare una nuova vita che avrà colori diversi. 

Il commiato affidato ad un'altra attrice cara al regista suggella con un tocco di tenerezza quello che rimane di una straordinaria storia che assurge a simbolo di migliaia di altre storie simili e uniche in un Paese che ha costretto interi nuclei familiari a fare i conti con una pagina cupa della Storia che ha distrutto vite, cambiato destini, sparso immenso e gratuito dolore ed è rimasta nella memoria collettiva come una ferita che non si è mai rimarginata del tutto ma rimane ancora oggi pulsante e suppurante. 

Presentato in concorso all' ultima mostra internazionale cinematografica di Venezia il film si è aggiudicato, meritatamente, il premio per la migliore sceneggiatura. L' attrice protagonista non è stata insignita della prestigiosa Coppa Volpi ma è riuscita a conquistare il Golden Globe e questo risultato è il giusto coronamento di un lavoro attoriale superbo. 

Virna Castiglioni

 

Wolf Man

Giovedì 16 Gennaio 2025 15:24 Pubblicato in Recensioni
Il film sfrutta una serie di luoghi comuni tipici del genere al quale afferisce. L’ambientazione è una casa isolata al limitare del fitto bosco che rasserena e concilia durante il giorno ma può diventare inquietante e spettrale al calare della notte. Il male è fuori dalla porta, in agguato, sempre pronto ad attaccare.  La montagna che incombe è foriera di miti e leggende. Pur sforzandosi di introdurre qualche elemento di discontinuità rispetto all’originale racconto di licantropi non si riesce nell’operazione di trascinare lo spettatore in un vortice di sorpresa e stupore perché tutto avviene con molta prevedibilità. I momenti tensivi si sciolgono quasi sempre come ci si aspetta che debbano concludersi. Si assiste ad una lotta con il nemico che da esterno, estraneo si fa intimo e personale e chiama in causa la capacità di scindere tra affetti e istinto di sopravvivenza ma questo topos rimane in superficie.
 
Un horror puro che ha molti limiti a partire dalla storia che vede l’utilizzo massivo di elementi già indagati ed esplorati a sufficienza in pellicole anche di recente realizzazione. Un film che ripropone gli stessi schemi già visti e che perde quindi l’effetto straniante e avvincente delle prime volte e della sorpresa nel trovarsi di fronte a qualcosa di inaspettato e di originale.
 
Julia Garner sembra spaesata all’interno della pellicola e le sue espressioni di paura e terrore sono poco realistiche. Appare troppo enfatica, teatrale, forzata, facendo perdere quella naturalezza che è la cifra vincente della recitazione in questo tipo di pellicole.
 
Decisamente più convincente la performance attoriale del protagonista maschile Christopher Abbott che appare più disinvolto e calato nella parte. Da salvare senza ombra di dubbio tutte le scene in cui avviene progressivamente la trasformazione da umano ad animale che è ben documentata riuscendo a scandire in modo dettagliato le vari fasi a cui va incontro mantenendo un buon equilibrio fra aspetto fisico e quello più psicologico.
 
In generale un film che non apporta uno svecchiamento rispetto ai film datati riguardanti lo stesso argomento ma anzi ne sembra una copia sbiadita senza mordente.
 
Un film che si segue sperando fino all’ultimo di poter assistere ad un colpo di scena eclatante che riabiliti l’intera pellicola rimanendo purtroppo delusi e disillusi.
 
Una prova non superata fino in fondo pur mantenendo un livello ragguardevole per quanto concerne la fotografia, l’utilizzo degli effetti speciali incentrati sulla trasformazione da umano ad animale ma che avrebbe bisogno di esser revisionato per quanto concerne la sceneggiatura e l’utilizzo delle riprese di momenti topici della narrazione che risultano artefatti e poco incisivi rispetto a quanto sarebbe stato necessario per conseguire un buon risultato.
 
Virna Castiglioni