Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » News » Visualizza articoli per tag: giada farrace
A+ R A-
Visualizza articoli per tag: giada farrace

Asteroid City

Venerdì 06 Ottobre 2023 14:40

Asteroid City di Wes Anderson è tra i film più visti nelle ultime settimane, ma è davvero un titolo da non perdere? 

Spesso quello che chiamiamo tratto distintivo di un autore se portato agli estremi finisce per rendere la narrazione piuttosto marginale, generando il più delle volte confusione nel pubblico. Ciò che ha reso Wes Anderson un innovatore, un romantico visionario, è stato il suo particolarissimo racconto per immagini vivaci e colorate, tanto da farci immergere in ogni film quasi all’interno di un tableau vivant. Un aspetto che lo ha consacrato come autore e, soprattutto, come regista capace di realizzare dei piccoli capolavori unici nel loro genere. Nonostante la cura maniacale per il dettaglio e la volontà di riunire ogni volta un cast corale di grandi nomi, Anderson ora è giunto in una fase di reiterazione, dalla quale forse riuscirà ad emergere solo discostandosi da questa ossessione per l’estetismo. Asteroid City sintetizza perfettamente come questo problema sia stato portato per l’ennesima volta all’esasperazione. È il 1955 e ci troviamo nella città immaginaria di Asteroid, durante una convention di giovani astronomi e cadetti spaziali. Il clima di discussioni e confronti vivaci, viene bruscamente interrotto da un evento straordinario ed inquietante: l’arrivo di una presenza aliena. Questo incontro ravvicinato muterà radicalmente tutti gli equilibri della cittadina generando un uragano di situazioni inverosimili che porterà tutti i personaggi a fare i conti con le proprie ossessioni. Asteroid City, in concorso a Cannes qualche mese fa, e che esce al cinema a due anni di distanza dall’incompreso (legittimamente) The French Dispatch, se da un lato attrae per quel timbro grafico e quella messa in scena così appagante per lo sguardo, dall’altro intrappola lo spettatore nell’ennesimo racconto uguale a tanti altri già narrati dal regista in precedenza. Le dinamiche sono più o meno le stesse, lo stile pure, cosa cambia? Il giro di attori, che stavolta coinvolge nomi nuovi che vanno ad aggiungersi a dei vecchi amici, oramai divenuti anche loro la spina dorsale dell’impronta andersoniana. Tuttavia, nonostante il cast sempre eccezionale e il rigore dell’impianto grafico, la sensazione è quella di avere di fronte un’opera senz’anima, un involucro molto bello ma privo di contenuto. La durata eccessiva del film, soprattutto per quello che si narra (ossia nulla), non fa atro che esasperare quel senso di vuoto tematico, che oltretutto si percepisce dal primo all’ultimo istante. Evidente è anche la profonda frattura tra uno studio morboso per le scenografie, di diritto tra le più memorabili finora proposte dal regista, e un disinteresse lampante per un plot che fa acqua da tutte le parti. Le scenette situazioniste in cui vengono incasellati i tanti personaggi, esistono al solo scopo di dare una ragion d’essere a molti attori che sembrano trovarsi lì per fare numero. Operazione rischiosa quanto insensata dal momento che la trama presenta pochi colpi di scena, a rigor di precisione: uno.  E se poi si dovesse focalizzare su questo imprevisto, rappresentato dalla presenza aliena, non si riuscirebbe comunque a scorgere un reale interesse nel trattarlo in modo quanto meno dignitoso per la trama. Dai dialoghi alla caratterizzazione dei personaggi passando per l’epifania di un’imminente minaccia, è tutto abbozzato. La verità è che questo regista è di fronte ad un bivio ora, reinventarsi o accanirsi. Wes ti abbiamo voluto molto bene, ma è tempo di tacere quando non si ha più nulla da dire.

Giada Farrace

Killers of the Flower Moon

Giovedì 19 Ottobre 2023 12:08

Ci sono dei dettagli imprescindibili che permettono agli spettatori più attenti di riconoscere sin da subito quello che è un film di Martin Scorsese già dalla prima scena. Accade in Toro Scatenato, in cui Jake La Motta, in una cornice quasi onirica avvolta dal bianco e nero, si muove in slowmotion sul ring accompagnato da una colonna sonora lenta, che sembra quasi prenderlo per mano prima del combattimento. Oppure in The Aviator, dove ci viene mostrato un Howard Hughes bambino, lavato con estrema cura da una madre che lo mette in guardia sui pericoli del colera, seminando in lui il germe di quel disturbo ossessivo nei confronti dello sporco, noto come misofobia. In entrambi i casi, Scorsese fornisce informazioni determinanti ai fini di una storia che andrà mano a mano a svelare e lo fa in modo velato e meticoloso, attraverso tanti piccoli elementi. In Killers of the Flower Moon, Scorsese decide di raccontarci una storia di crimini e ingiustizie, perpetrate da una fitta schiera di bianchi americani stabilitisi nella contea di Osage.  Proprio nel 1920 in si registrò il più alto tasso di morti indiane, vittime di un sanguinoso sistema di acquisizione indiretta delle loro terre. Unirsi in matrimonio con un nativo per possederne dopo la morte  i beni e i rispettivi terreni, era lo scopo di ogni bianco. Latifondi  preziosissimi, culla di quello che di lì a poco sarebbe divenuto il capitale più ingente dell’economia mondiale: l’oro nero, il petrolio. A capo di questa struttura criminale, lo spietato William Hale, interpretato da un Robert De Niro che mette i brividi per l’aderenza perfetta ad un personaggio crudele e assetato di potere. Hale persuaderà suo nipote Ernest, interpretato da Leonardo Di Caprio (impeccabile, ma in questo caso una spanna sotto la perfomance di De Niro), a sposare una donna Osage con lo scopo di impadronirsi evidentemente dell’ennesima ricca eredità.  Tuttavia, il cerchio è presto destinato a chiudersi, e le conseguenze saranno inevitabili per tutti i carnefici. Siamo di fronte ad un altro capolavoro scritto e diretto da quello che è forse il regista più affabulatore e poliedrico di sempre. Perché se c’è un pregio che si deve riconoscere a Scorsese è quello di cambiare pelle e raccontarci ogni volta qualcosa di diverso. A cambiare non sono soltanto i contesti storici, i messaggi veicolati e il processo di ricostruzione di un evento ( che sia di finzione o tratto da una storia vera), ma il modo di raccontarci quella vicenda. E in questo caso specifico, Scorsese compie un atto sovversivo e imprevisto ai fini del consueto intreccio narrativo, svelandoci sin da subito chi sono i responsabili delle atrocità sopracitate. Un dramma investigativo inconsueto, sovversivo perchè privo di un vero e proprio processo di indagine da parte dello spettatore. Qui la grandezza di questo regista, che passa dal gangster movie alla commedia nera continuamente senza perdere mai il focus di una storia centrata sulla spietatezza dei bianchi nei confronti di un popolo, come quello Osage, gentile e puro, e per questo ancor più incline ad inganni e vessazioni. Impossibile da incasellare con precisione all’interno di un genere, Killers of the Flower Moon è forse il film più duro che Scorsese abbia mai diretto negli ultimi anni nonché il più completo e riuscito.

Giada Farrace

Sick of Myself

Venerdì 09 Settembre 2022 00:00
Quanto si è disposti a sacrificare di sé per inseguire l’idea del successo, del riconoscimento sociale e mediatico? In un momento storico dove tutto è stato già narrato, discusso e scandagliato, il regista svedese Kristoffer Borgli ci racconta una storia che ha i toni della commedia nera, ma che arriva come un pugno nello stomaco, tramutandosi poi in dramma. Di difficile etichettatura, Sick of myself, presentato in Un Certain Regard a Cannes 2022, è un’opera in cui si ritrova molto del registro stilistico di Borgli. L’essenzialità nei dialoghi, l’uso di una fotografia luminosa in chiaro contrasto con il quadro emotivo dei protagonisti (e di alcune intere sequenze), nonché l’audacia nella critica di una società epidermica che ci ha assuefatti all’effimero, sono solo alcuni degli aspetti che più funzionano di quest’opera. Nel film, la protagonista, Signe, vive una relazione tiepida al confine dell’apatia con il compagno e artista Thomas, figura in piena ascesa nell’ambiente dell’arte moderna di Oslo. Stufa di essere la ragazza satellite di un artista noto, la giovane inizia a mostrare un atteggiamento di sfida nei confronti del successo e della fama del partner. Sprovvista di talento alcuno e vittima di un’indomabile narcisismo tenterà il tutto per tutto pur di farsi notare mediaticamente, nel disperato tentativo di oscurare l’astro nascente del fidanzato. Signe scopre l’esistenza di un farmaco russo con effetti collaterali così pericolosi da provocare terribili problemi alla pelle e alle vie respiratorie. E’ qui che inizia la discesa negli inferi della ragazza, la quale arriverà a sfigurare il proprio volto, perdendo completamente i connotati al solo scopo di attirare un pubblico, di trovare spazio tra la folla di influencer, conquistando quindi l’ambita fetta di notorietà. In una società dove l’edonismo domina incontrastato, facendo della legge del bello la chiave principale per accedere al successo, Borgli sfida lo spettatore arrivando al limite dell’immaginabile. Il martoriamento del corpo diventa l’unica via per raggiungere il traguardo della notorietà, ma soprattutto per richiamare a sé attenzione, dal momento che l’esaltazione del bello è attualmente all’ordine del giorno. 
Il cinema scandinavo riconferma la propria dote naturale alla narrazione di storie imperniate su processi psichici, nella fattispecie, sulla percezione del sé come entità in una perpetua condizione di alienazione dalla comunità, e nel caso di Signe, dal proprio corpo. Ancora una volta la disfunzione sociale, contamina il territorio dell’Io facendosi carico di uno spesso sostrato di incertezze interiori, mosse da una mordente fame di sentimenti e riconoscimento identitario. La protagonista, attraverso un violento processo di ricerca del sé, di una propria soggettività, raggiunge l’obiettivo programmatico: l’eclissi del valore artistico del proprio compagno. Un viaggio disturbante capace di suscitare un caleidoscopio di sentimenti che oscillano continuamente tra commiserazione, ribrezzo giungendo infine alla malinconia. Sick of myself è un film che porta agli estremi il linguaggio cinematografico, ponendoci dinnanzi a quello che sta prendendo forma ora, attorno a noi: la minaccia di un’esistenza incapace di concepire e capire il valore dell’uomo e della sua soggettività. Disponibile alla visione solo su  MUBI. 
 
 
Giada Farrace 
 

Raffa

Mercoledì 27 Dicembre 2023 11:48
La Pelloni e la Carrà. E’ su questa dicotomia che l’opera diretta con passione e affetto da Daniele Luchetti si regge saldamente in piedi, sintetizzando in tre puntate parte della vita e della carriera di Raffaella Carrà. La forma è quella di una ricostruzione in ordine cronologico, partendo da un’infanzia complicata segnata indelebilmente dall’abbandono di un padre che da quel momento in poi non farà mai più parte della vita di Raffaella. Una famiglia quella della Pelloni, composta quindi da donne che dimostrano tanta premura quanta rigida disciplina,  una tra tutte la mamma, figura severa e critica. A Bellaria, la giovane Raffaella muove i primi passi tra concorsi di bellezza accompagnata sempre da quella continua ricerca di un modo per esprimersi, che non si concretizza né con la danza né con il cinema. Ma dove non arrivano questi due mondi, arriva la televisione che travolge e viene travolta dall’energia di questa figura capace come nessuna mai di ipnotizzare tutti con corpo e sguardo. Un’epifania a cui seguirà l’inesorabile e incontrollabile ascesa verso un successo planetario che farà di lei il simbolo del peccato e della tradizione, dell’evoluzione del costume di un paese, il termometro di una rivoluzione sessuale che scoppierà a breve e violentemente. La scrittura immediata e limpida di Cristiana Farina (Mare Fuori), disintegra ogni genere di sovversione documentaristica, muovendo nel più classico degli impianti, senza però cedere il passo ad un eccesso encomiastico. Ai materiali di repertorio (sono circa 1500 immagini) tra cui spiccano interviste inedite alle donne della famiglia Pelloni, al nipote e a Barbara Boncompagni, figlia di Gianni, vengono affiancate scene di finzione evidentemente usate per stemperare quel senso di venerazione da parte di Luchetti, ma che forse poco giocano a favore dell’opera e molto guastano. Al contrario, un profondo innesto sul piano emozionale è rappresentato dalle sequenze in cui alcuni manichini con i vestiti più rappresentativi ci appaiono nei luoghi del cuore di Raffaella, con toccanti riferimenti a ricordi ed episodi della sua vita. La voice over riempie quello spazio lasciato vuoto, mentre quegli abiti di scena diventano significante e baluardo di un divismo mai snob, sempre diretta espressione del pop. A ridimensionare l’enorme successo e le conseguenze che esso porta con sé c’era il suo doppio, rappresentato dalla Pelloni:  quella concretezza e quel vigore tipicamente romagnoli che hanno sempre fatto di Raffaella una donna risoluta. Daniele Luchetti riesce a misurare i due intenti, ossia quello di ripercorrere le tappe della vita di una donna fragile e possessiva e la sua scalata verso il successo diventando simbolo di una lunga battaglia di rivoluzione e affrancamento dal perbenismo dell’industria televisiva italiana. Una serie travolgente che comunica a tutti, alle generazioni che ricordano e a quelle che non erano ancora nate. E per questo forse, l’unico vizio che gli si può contestare è l’imperdonabile brevità. 
 
 
Giada Farrace 
 
Pagina 7 di 7