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Insidious – L’ultima chiave

Giovedì 18 Gennaio 2018 11:57
Una porta rossa veicolo di una dimensione ulteriore, oscura, abitata da esseri demoniaci e spettrali, minaccia come una tetra nube il mondo dei vivi. 
Il regista James Wan è il primo a dirigere nel 2010 Insidious, primo capitolo di  una delle saghe horror più spaventose e fortunate di sempre.  Al centro della vicenda la famiglia Lambert, che trasferitasi in una nuova casa dovrà ben presto  fare i conti con un evento assai inquietante, l’improvviso stato vegetativo del figlio maggiore Dalton. Sarà la madre del ragazzo a manifestare la volontà di abbandonare la casa, attribuendo ad essa la causa di strani ed oscuri eventi. Tuttavia, anche nella nuova abitazione, le manifestazioni soprannaturali continueranno a verificarsi spaventando la famiglia, che tormentata deciderà di affidarsi ad una medium, Elise.  Sarà proprio Elise a scoprire che tali eventi spettrali sono originati dallo stesso Dalton.  Il ragazzo è in grado di allontanarsi dal suo corpo fisico per raggiungere tramite il proprio corpo astrale l’Altrove, una zona oscura abitata da spaventose e spettrali creature. 
Una storia che riesce a catapultare lo spettatore in un labirintico gioco di suspense, facendo leva sull’ignoto. Dopo aver avuto ben due sequel ( nel 2013 diretto ancora una volta dallo stesso Wan, e nel 2015 dall’australiano Leigh Whannell, già sceneggiatore del primo), Insidious torna al cinema sotto la regia di Adam Robitel. In questo nuovo capitolo, si fa luce sul passato di Elise,  cresciuta in una casa piuttosto lugubre collocata in prossimità di un penitenziario grigio e soffocante. A seguito della scomparsa della madre, la giovane Elise decide di abbandonare le mura familiari stufa dei continui atteggiamenti di incomprensione e violenza da parte del padre, intollerante nei confronti del dono di veggenza della ragazza. Un breve accenno al passato della medium, per poi fare subito ritorno al presente, dove Elise è ancora una volta chiamata a risolvere un minaccioso caso.  Teatro di nuovi inquietanti eventi è proprio la casa dove Elise è cresciuta, nel New Mexico. Ad accompagnarla in questa nuova e complessa avventura i suoi due fedeli aiutanti Specs e Turner, i quali rappresentano la costante ilare della vicenda. 
Nonostante lo sforzo registico nel dare spessore narrativo alla vicenda, il film rimane purtroppo incolore nonché poco credibile in svariati livelli. Piuttosto lontani dall’impronta agghiacciante di James Wan, in quest’ultimo capitolo della saga si assiste ad una mancanza di alcuni aspetti portanti, quali la costruzione dei gradi di suspense e la verosimiglianza della storia narrata. In un film sospeso tra mondo dei vivi e Altrove, è essenziale tracciare un segmento definito di momenti di suspense da alternare a sequenze più leggere.  Ne L’ultima chiave, la leggerezza di alcune scene invade e annienta la tensione della storia, rendendo buona parte del film innocuo dal punto di vista dell’angoscia, anestetizzata dalla totale assenza della caratteristica inquietante colonna sonora. Pertanto il film diretto da Robitel è un lavoro nel complesso godibile, ma che esula totalmente dalla capacità di spaventare, ponendo lo spettatore nella comoda posizione di mero testimone imperturbato. 
 
Giada Farrace

Red Sparrow

Giovedì 01 Marzo 2018 10:27
La patria sopra ogni cosa. Il credo di ogni agente Sparrow è proteggere la Russia, tutelarla dagli scacchi matti del nemico, arrivando a sacrificare anche la propria vita se necessario. A seguito di un grave infortunio, la promettente carriera da ballerina per Dominika subisce un drastico arresto. La ragazza viene contattata dallo zio e inviata contro la sua volontà in una scuola di addestramento per Sparrows, fredde ed abili spie russe, che usano il proprio corpo come esca per incastrare bersagli assegnati loro dai servizi segreti russi. Dopo un lungo ed efferrato addestramento, Dominika è finalmente pronta a portare a termine la sua prima missione come Sparrow. Il compito che le viene assegnato sarà quello di mettere alle strette un agente della CIA, il solo che è a conoscenza dell’identità di un infiltrato nei servizi segreti russi. La missione si dimostrerà terreno di insidie e feroci scontri per Dominika, un continuo alternarsi di tensione e vacillamento che sfoceranno inevitabilmente in una pericolosa scommessa con la morte. 
Tratto dall’omonimo romanzo di Jason Matthews, ex agente della CIA, e autore di due sequel dell’opera, il film diretto da Francis Lawrence, tenta di combinare aspetti del cinema spionistico con elementi thriller. Il regista che ha già collaborato con l’attrice Jennifer Lawrence per circa tre volte, dirigendo i tre capitoli di Hunger Games “La ragazza di fuoco” e “ Il canto della rivolta” parte 1 e 2, torna ora al cinema con un lavoro in cui si canalizza gran parte dell’attenzione sul gioco di seduzione, celebrando soprattutto il magnifico corpo della Lawrence.  Un trionfo dello sguardo voyeuristico, a detrimento della trama, narrata in modo nebuloso, ai limiti della comprensione per i numerosi interrogativi lasciati in sospeso. A pochi mesi di distanza dall’uscita in sala di Atomica Bionda (regia di David Leitch), film dedicato ad un’altra seducente spia biondissima, il cinema torna a far luce sul mondo dello spionaggio, ma lo fa tendendo la mano ad un’ellissi narrativa che purtroppo finisce per invalidare gli aspetti interessanti della storia. Red Sparrow si ferma così a metà strada, tradendo quella promessa di intrigo e azione tanto celebrata nel trailer e nella prima parte del film. 
 
Giada Farrace

Ghost Stories

Giovedì 19 Aprile 2018 13:50
L’uomo nutre da sempre un’insaziabile curiosità nei confronti dell’ignoto. Un interesse coltivato da numerosissime culture mediante una vasta gamma di mitologie i cui racconti trovano tuttora ampio spazio nell’immaginario collettivo. La spinta verso il mistero deriva da un’irrefrenabile volontà di scoperta  nonché dalla profonda curiosità di confrontarsi con qualcosa che sfugge ad ogni tentativo di catalogazione: il paranormale. In Ghost Stories il professor Goodman, un accademico dal forte senso critico e dall’innato scettiscismo nei riguardi del paranormale, conduce un noto programma televisivo in cui si occupa principalmente di smascherare alcuni fenomeni legati alla sfera dell’occulto, quali sedute spiritiche e contatti con strane entità conturbanti. Goodman dovrà ora confrontarsi con tre casi molto particolari, che metteranno a dura prova il suo fervente scetticismo. Misurandosi con situazioni inspiegabili, il professore si troverà in una condizione di incertezza e ambiguità circa la natura effettiva di tali fenomeni paranormali. La sua irremovibile convinzione verrà pertanto scossa da eventi che sfuggiranno radicalmente allo scibile. La fiamma del dubbio inizierà ad ardere progressivamente, insinuandosi persino nelle convinzioni più assodate come quelle legate alla sfera dell’aldilà. Il film, è la trasposizione cinematografica di una fortunatissima pièce teatrale horror andata in scena a Londra qualche anno fa. Un successo oltre ogni aspettativa che ha contribuito a rendere i due registi consapevoli di avere tra le mani uno spettacolo brillante destinato ad approdare su grande schermo. Il risultato di questa trasposizione è un film strutturato in modo impeccabile, interpretato abilmente da un cast di attori di tutto rispetto composto da Alex Lawther, Andy Nyman (che è anche uno dei due registi) e Martin Freeman. Andy Nyman e Jeremy Dyson dirigono pertanto un’opera che intrattiene senza perdere mai credibilità, un omaggio sincero a quel cinema horror coerente e macabro che tanto manca in questi ultimi anni. Ghost Stories, forse il più atteso horror della stagione, riesce a fare leva sulle delicate e complesse corde del conturbante, canalizzando in modo sapiente anche il più piccolo frammento di tensione attraverso una struttura episodica agile e magnetica. 
 
Giada Farrace

Sulla mia pelle

Mercoledì 12 Settembre 2018 19:45
L’immenso potere del cinema risiede nella sua natura intrinseca di paradigma della realtà, nonché cristallizzazione di un evento.   A questo aspetto più prossimo al reale, si addiziona  il germe dell’informazione, quella volontà programmatica di diffondere spiegazioni, considerazioni attorno ad un preciso assunto. Probabilmente l’unico mezzo in grado di arrivare orizzontalmente coinvolgendo migliaia di intelletti, il cinema ha sovente l’onere di farsi cronaca. Rivelare per mezzo del racconto cinematografico un evento realmente accaduto significa dare nuovamente vita ad un episodio che ha avuto peso nell’immaginario collettivo.  Alessio Cremonini esordisce alla regia dirigendo un film su una delle pagine più feroci e dolorose della cronaca nera italiana, ossia la violenta morte di Stefano Cucchi avvenuta il 22 ottobre del 2009. Presentato all’interno della sezione Orizzonti della 75esima Mostra del cinema di Venezia, il film di Cremonini ricostruisce i giorni precedenti la morte del giovane romano avvenuta presso l’ospedale Sandro Pertini. Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre 2009 per detenzione e spaccio di stupefacenti, fu sottoposto durante la prima notte di detenzione a pesanti vessazioni da parte delle autorità, danni fisici che provocarono gravi lesioni corporee e un’emorragia alla vescica. Nonostante le precarie condizioni fisiche di Cucchi, la data dell’udienza venne fissata al mese successivo, e il giovane romano fu costretto a trascorrere cinque giorni tra una struttura e l’altra, presentando delle condizioni fisiche in continuo peggioramento. Sulla mia pelle, rappresenta forse uno tra gli esempi più autentici di cinema d’informazione, imperniando il suo punto di appoggio proprio sulla minuziosa ricostruzione dei fatti accaduti a Stefano Cucchi. Prodotto da Netflix, come molti altri film in concorso quest’anno a Venezia (tra cui lo stesso film vincitore Roma), l’opera prima di Cremonini incarna in massimo grado il cine-documentario, un racconto di riedificazione dei sei giorni trascorsi tra l’arresto di Stefano e la sua morte. Un film che mette da parte ogni intromissione soggettiva nel fatto di cronaca, lasciando ampio spazio di riflessione e libertà allo spettatore, che tuttavia, in alcuni momenti, sente l’esigenza di un approccio più personale alla vicenda.Il regista gioca pertanto all’essenziale, centrando tutto sulla linearità. Un minimalismo che fa della sottrazione il proprio principio portante e che reca in sé alcune conseguenze inficianti, una tra tutte l’assenza di un’impronta più ricercata. A vestire i panni di Stefano  un Alessandro Borghi formidabile, che non eccede mai nella sua complessa e aderentissima interpretazione. Borghi restituisce al film un’intensa impronta, il cui impatto emotivo è riscontrabile anche nella stretta somiglianza tra l’attore e Cucchi. Una trasformazione, quella dell’attore romano, espressa sia a livello fisico (per il film dimagrito circa 18 chili), sia a livello vocale (la voce di Borghi  gode quasi di una  totale adesione a quella originale di Cucchi).
Sulla mia pelle, da oggi disponibile su Netflix e presente in contemporanea nelle sale italiane, è un asciutto resoconto, un quadro degli eventi che scorre in modo fluido ed inesorabile, senza però restituire al pubblico quell’aspetto epidermico evocato dal titolo. Un approccio che avrebbe donato ad progetto di tale portata maggior vigore e una sfaccettatura ancor più intima.
 
 
Giada Farrace
 

Venom

Giovedì 04 Ottobre 2018 09:36
San Francisco. Eddie Brocke è un reporter d’assalto sagace e intraprendente, il cui scopo è portare alla luce alcune tra le notizie più scottanti della frastornata realtà cittadina. Frugando nel computer della fidanzata, casualmente scopre dei documenti su alcune morti ingiustificate all’interno del laboratorio di sperimentazione farmaceutica Life Foundation. Brocke decide subito di affrontare la questione di petto, sbattendola istintivamente in faccia durante un’intervista esclusiva al proprietario della società, il freddo Carlton Drake. Ma le cose si complicano, questa avventata mossa si rivela per il giornalista un passo falso recando con sé conseguenze avverse, tra cui l’immediato allontanamento dal posto di lavoro e la rottura con la ragazza. La credibilità della Life Foundation è una fortezza inattaccabile, troppo potente per venire compromessa da un giornalista squinternato. Tuttavia le feroci barbarie all’interno della Life F. tornano ben presto a galla, una stimata dottoressa del centro sperimentale ricontatta Brocke per denunciare una volta per tutte quel che accade all’interno dei laboratori.  Infiltratosi di notte all’interno della struttura, Eddie, oltre a scoprire le tremende gabbie utilizzate per contenere cavie umane, entra inaspettatamente in contatto con uno strano parassita, un viscido sembionte alieno, che finisce con l’insinuarsi nel suo corpo. Da questo momento in poi, la vita di Eddie Brocke subisce un drastico mutamento. Il Venom diretto da Ruben Fleischer, regista di Benvenuti a Zombieland e Gangster Squad, è molto diverso dal tipico film targato Marvel. Prima tra tutte le differenze che rendono questo lavoro anomalo e nettamente fuori dal coro, è la sua volontà di prendersi poco sul serio e di premere pesantemente l’acceleratore. Portare sullo schermo uno dei villain più amati e più conturbanti dell’universo fumettistico, precisamente il 22esimo più spaventoso nella lunga lista dei cento cattivi più terribili di sempre, non era affatto un’impresa semplice. Venom è un personaggio dal duplice aspetto, affascinante e allo stesso modo famelico, ed il suo stesso comportamento riflette un’immagine che diviene veicolo di violenza. L’incontenibile frenesia di questo essere, viene pertanto restituita dal film nel migliore dei modi, ricorrendo ad un montaggio ritmato e schizofrenico, una scarica di adrenalina che non lascia mai spazio a momenti di stasi. La scena dell’inseguimento in moto è tra le migliori di tutto il film, ricca di particolari e densa di tensione come da tempo non si vedevano all’interno di un lavoro Marvel. Tom Hardy dal canto suo, dona una sfaccettatura ironica e trasandata al personaggio di Eddie Brocke, dando vita a sequenze esilaranti, in alcuni casi ai limiti del delirio. Scattante, incontenibile e chiassoso, il lavoro di Fleischer è molto vicino ai classici film fumettistici di un tempo e piuttosto lontano da quel filone di titoli sci-fi di più recente realizzazione, nonostante abbia le medesime premesse. Ad alimentare questo aspetto, la scrittura dei dialoghi e di alcune scene orientate a gestire la tensione in modo crescente, come nei migliori action movies di vecchia generazione. Venom è un film che indubbiamente genererà divisioni e pareri contrastanti in virtù della sua natura bizzarra e stravagante. La stampa estera lo ha definito in più occasioni tiepido e confusionario, alle volte indigeribile. Il Venom interpretato da Tom Hardy infatti risulterà per molti altisonante e fuori dalle righe, ma forse questi non possono considerarsi  i veri e propri difetti del film. Una delle mancanze più inficianti è rappresentata invece dall’assenza di scene dall’impronta più brutale e splatter, indispensabili nell’incorniciare un personaggio quale Venom. Un limite imposto dalla Sony al fine di allargare le soglie di accesso alla visione del film ed escludere definitivamente il divieto ai minori.  Si tratta di un passo falso che non solo ha impoverito la sostanza e le atmosfere del film (sottraendole all’horror), ma che ha purtroppo edulcorato la figura di un villain sanguinario e brutale. 
 
Giada Farrace
 

Il verdetto

Giovedì 18 Ottobre 2018 15:55
Con Children Act si fa riferimento alle funzioni attribuite a tribunali, enti locali, e genitori per la tutela e garanzia del benessere dei minori. Questa legge emanata dal parlamento inglese nel 1989, definisce pertanto le direttive atte alla promozione di interventi sanitari in situazioni di necessità. Fiona Maye (Emma Thompson), giudice severo e leale, svolge la sua professione nell’assoluta lucidità delle proprie facoltà. Assumendo il pieno onere di alcune sentenze spinose e di ampia risonanza, la donna vive la sua vita tra la Royal Court of Justice di Londra e l’appartamento che divide con il marito, Jack (Stanley Tucci). Una quotidianità lavorativa intensa e frenetica che fagocita in modo totale la donna, e che con il tempo genera una frattura all’interno delle mura domestiche, portando con sé un temporaneo allontanamento del marito, da sempre innamorato di Fiona, ma continuamente trascurato dalla stessa. La critica situazione coniugale farà ben presto da sfondo ad uno dei casi più impegnativi che il giudice Maye dovrà affrontare. Si tratta infatti della questione che riguarda il diciassettenne Adam Henry (Fionn Whitehead), un testimone di Geova affetto da una grave forma di leucemia che rifiuta l’assistenza medica. La vita di Adam, sospesa su un filo fragilissimo, sarebbe fuori pericolo se si facesse ricorso a delle trasfusioni di sangue, ma il rifiuto del ragazzo e della comunità religiosa è netto. Il destino di Adam è nelle mani di Fiona, la quale perplessa e coinvolta in questa complicata vicenda, decide di andare a trovare il ragazzo in ospedale, agendo in modo inconsueto rispetto alla norma. L’incontro dei due genera una connessione singolare ed intensa, una sfida contro le convinzioni più radicate che porterà entrambi a rivalutare quale sia il reale valore del bene e del male. Il Verdetto, in originale The Children Act, è un film tratto dall’omonimo romanzo scritto da Ian McEwan, uno degli autori più brillanti e capaci del panorama letterario contemporaneo. La trasposizione cinematografica diretta da Robert Eyre, regista del thriller L’ombra del sospetto (2008) e dell’acclamato Diario di uno scandalo (2006), rimane fedele in molti aspetti al romanzo di McEwan, concentrandosi in modo piuttosto particolare sul personaggio di Fiona. Il ritratto femminile che ne emerge è dei più sfaccettati e intensi, donando alla storia narrata un respiro coinvolgente e denso di emozione. Il merito va ad un caso delicato e interessante come quello trattato, ma soprattutto ad una magistrale interpretazione di Emma Thompson che ammalia lo spettatore dall’inizio alla fine. La performance della Thompson supera lo schermo, andando oltre la storia narrata, cogliendo quel fitto tessuto di sentimenti che permea il suo personaggio, autoritario ma allo stesso modo dotato di una rara sensibilità. Attraverso i suoi occhi lo spettatore percepisce e comprende le sfumature dell’animo umano, i contrasti e le innumerevoli inquietudini. La scena del concerto di Natale è tra le più intense, capace di regalare un puro momento di cinema, alimentato dalla sfolgorante luce emanata dall’attrice. Il film si rivela pertanto un lavoro sincero e asciutto, fondato essenzialmente su un linguaggio piuttosto classico, forse meno appariscente rispetto al cinema contemporaneo, in cui si cerca di sperimentare sempre nuovi espedienti narrativi. In questo caso, la narrazione procede su binari ben precisi e stabili, senza mai portare fuori traccia lo spettatore, ma guidandolo in un racconto che fa della sua limpidezza uno dei migliori pregi, oltre al vigore dei dialoghi e della sceneggiatura (curata dallo stesso McEwan). Il giovane coprotagonista Fionn Whitehead (Dunkirk), è un talento che valorizza il personaggio di Adam, dimostrandosi perfettamente all’altezza del ruolo affidatogli. Il Verdetto, nelle sale italiane a partire dal 18 ottobre e distribuito da Bim, è un film che non passerà inosservato, forte di un impianto narrativo e registico ben saldo, capace come pochi altri film di generare una profonda congiunzione empatica con trama e personaggi.
 
Giada Farrace
 

Halloween

Giovedì 25 Ottobre 2018 14:16
A distanza di molti anni dalla brutale uccisione di Annie, Laurie non ha mai dimenticato quel folle omicida che pose fine in modo così violento alla vita della sorella. Micheael Myers, da tempo rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Smith’s Grove, a seguito di un trasferimento presso un’altra struttura evade assieme ad altri detenuti affetti da insanità mentale, arrivando ad uccidere ferocemente l’autista del trasporto, e tutte le guardie in servizio. Per Laurie è finalmente giunto il momento di combattere e vendicare il terribile delitto della sorella, poichè Myers è oramai a piede libero. Lo scontro tra Laurie e Micheal è più vicino di quanto essi immaginino. Uno dei più affascinanti e brutali assassini della storia del cinema horror torna per regalare al pubblico ancora una volta quella tensione e quel mix di intrattenimento che soltanto un personaggio simile può restituire. Ad affiancare Myers nella storia vi è la figura di Laurie Straude che soprattutto in questo capitolo, riveste un ruolo di innegabile importanza sia sul piano narrativo, che su quello emotivo. Jamie Lee Curtis è in perfetta forma, e il suo personaggio non perde mai credibilità nel corso della vicenda, alternando l’impronta forte e impavida  a quella più protettiva e ironica. 
Il film diretto da David Gordon Green, si concentra molto su quel clima di terrore che precede ogni forma di azione compiuta da Myers, il quale si muove, dalla prima metà del film in poi, in piena libertà, uccidendo brutalmente chiunque capiti sulla sua strada. Analizzando un film come Halloween, non si può evitare pertanto di fare cenno ad un montaggio sonoro la cui struttura solida, trova piena espressione soprattutto nella parte conclusiva del film, donando un ritmo ad alta tensione denso di angoscia.  Nel complesso si può affermare con un certo grado di soddisfazione che l’ultimo film dedicato a questa spaventosa saga sia un mix riuscito di scene ad alto contenuto splatter, incentrate sulle terribili uccisioni ad opera di Myers.  In un contesto di continuo abuso di jumpscare da parte del più contemporaneo cinema horror, il film di Green si fa spazio nel gioco di suspense e sangue senza eccedere nell’utilizzo di tali espedienti, creando un’atmosfera angosciante imperniata sul personaggio di Micheal, sui suoi movimenti, persino sul suo modo di respirare. Merito di Myers o della costruzione del film, di fatto l’ultimo Halloween convince, e lo fa dimostrando di offrire molto di più di una prevedibile carneficina di innocenti. In uscita nelle sale italiane dal 25 ottobre e contemporaneamente in concorso alla tredicesima Festa del Cinema di Roma, il film sazierà indubbiamente la fame degli appassionati della saga, regalando un ottimo momento di intrattenimento horror anche a chi si avvicina per la prima volta al personaggio di Micheal Myers. 
 
Giada Farrace
 

7 sconosciuti a El Royale

Giovedì 25 Ottobre 2018 14:38
El Royale sorge esattamente a cavallo tra lo stato della California e quello del Nevada. Un tempo lussuoso albergo noto per le prestigiose presenze al suo interno (attori del calibro di Marilyn Monroe e personalità di spicco come il presidente Bob Kennedy), ora vive degli antichi albori, ospitando in modo sporadico qualche banale viandante in breve permanenza prima di oltrepassare il confine. Durante una turbolenta notte, giungono presso il famoso albergo quattro ambigui individui, ognuno dei quali si dimostra fin da subito piuttosto distaccato e circospetto. Tra loro vi è un prete dall’apparenza inusuale (interpretato da Jeff Bridges), una donna afroamericana contornata da un’aria alquanto avvilita (Cynthia Eviro), e un  loquace rappresentante di elettrodomestici (John Hamn). Ai tre si aggiungerà ben presto un’altra promiscua presenza, ossia quella di una donna (Dakota Johnson) che non tarda a dimostrarsi da subito un tipo scontroso e ribelle, e che immediatamente si isola dal gruppo. La notte al El Royale rappresenta per questi quattro personaggi un momento cruciale, svelando per gradi quali siano le loro reali intenzioni, e cosa si celi davvero dietro quelle impenetrabili facciate. Un labirintico gioco di svelamento accompagna lo spettatore dalla prima metà del film fino al suo termine. La sensazione che si ha di fronte ad un tale flusso di eventi è simile a quella che si prova durante lo sviluppo di una foto all’interno di una camera oscura, dove in primo luogo ogni cosa risulta nebulosa e ignota, per poi assumere un contorno più chiaro e definitivo alla fine del processo. Il film diretto da Drew Goddard, ha il lodevole pregio di intrattenere lo spettatore senza cadere preda di un match che fa della complessità il proprio motivo portante, ma edifica un momento di cinema puro, imperniato su una caratterizzazione quasi impeccabile dei personaggi che scorrono sullo schermo. Ognuno di essi ha infatti alle sue spalle una pagina critica del proprio passato, che in qualche modo ha contribuito a condurlo nella situazione attuale, un contesto che a poco a poco cresce di intensità fino a raggiungere verso la fine un climax narrativo e visivo.  A rendere ancora più policroma questa coinvolgente storia, è un’ambientazione curata nei massimi dettagli, popolata dalla più calda atmosfera anni 70 (siamo infatti nel 1970 per la precisione), dove la magnetica musica di un jukebox scandisce gli avvenimenti più accesi. Degni di nota sono inoltre i frequenti virtuosismi di ripresa ad opera del regista, il quale cerca di immergere lo spettatore nei grigio e silenzioso corridoio dietro gli specchi di ciascuna camera dell’albergo. La macchina da presa si muove in modo felino, fluido, mostrando progressivamente  cosa accade nelle quattro stanze. 7 sconosciuti al El Royale, in concorso alla Tredicesima Festa del Cinema di Roma, è un lavoro che scorre benissimo, animato da un vertiginoso dinamismo, che non manca di tenere ben sveglio lo spettatore. Un film che si regge essenzialmente su personaggi attraenti e a volte grotteschi, il cui sviluppo vanta di una sfaccettatura complessa e imprevedibile. Il cast scelto è di tutto spicco, vantando nomi come Jeff Bridges, Cynthia Eviro e un sorprendente (e camaleontico) Chris Hemsworth, in un ruolo che evoca la figura di Charles Manson. Un lavoro coinvolgente, che punge nell’intento di ispirarsi, anche se in modo indiretto, ad alcuni dei tanti segreti e colpi di scena appartenenti alla controversa e “ingenua” storia americana. 
 
Giada Farrace

Ride

Giovedì 29 Novembre 2018 14:03
Mauro Secondari operaio in una fabbrica di Nettuno, muore tragicamente sul lavoro. La comunità si stringe attorno alla famiglia dell’uomo, composta ora solamente dalla compagna Carolina e dal figlio di dieci anni Bruno. Carolina sopraffatta dall’improvvisa scomparsa di Mauro, reagisce in modo piuttosto inconsueto. La donna non riesce a versare una lacrima, e pervasa da un forte senso di smarrimento, tenta di evocare tramite ricordi, canzoni e fotografie sentimenti di nostalgia e dolore,  ma ogni sforzo risulta vano. Carolina è intrappolata in un limbo imperturbabile, dove non trovano posto lacrime e disperazione. Ad un giorno dai funerali pubblici, la donna cercherà in tutti i modi di afferrare quello strazio, quell’immagine di vedova devastata dalla perdita e sprofondata nella sofferenza, nel tentativo di non deludere nessuno. In concorso al 36esimo Festival del Cinema di Torino, Ride è l’opera prima da regista di Valerio Mastandrea, e l’esordio da protagonista di Chiara Martegiani (compagna nella vita dell’attore e regista romano). Fulcro del film è il tema della perdita, edulcorato da un ritmo che, soprattutto nella prima parte, riesce a far emergere sequenze di piacevole scorrevolezza attraverso un originale e gradevole black humor. L’enfasi del dolore viene esplicitata nel personaggio di Carolina in modo inusuale e inversamente proporzionale a ciò che ci si aspetterebbe, facendole vivere con indifferenza e distacco la perdita del marito. Il trauma della morte viene completamente spogliato dai toni dello struggimento: in una realtà in cui il comportamento sociale e relazionale viene calibrato sulla base del sentire comune e in particolare sulla scia della morale dominante, Ride offre un quadro differente, del tutto invertito e sicuramente inconsueto dell’ approccio al dolore, che non subisce mai un’esplosione di senso ma anzi vira all’implosione. Si tratta di un concetto che trova il suo referente diretto nella nuova percezione della realtà e dei sentimenti, amplificata in modo esponenziale dai filtri mediatici di oggi. Tuttavia il film diretto da Mastandrea, sebbene presenti delle interessanti premesse, finisce con il perdersi in un’indeterminatezza che lo rende un po’ troppo debole. Probabilmente il tentativo di non calcare il tono drammatico, alternando costantemente l’ironia dei bravissimi personaggi di contorno (tra cui Stefano Dionisi e Renato Carpentieri) all’apatia della protagonista, restituisce una trama poco vicina al reale che non trova empatia con lo spettatore. Il gioco di sottrazione attuato dal regista purtroppo cede del tutto dalla seconda parte del film fino al suo termine, a causa di pochissimi pilastri narrativi, che finiscono con il generare momenti lenti e dalla struttura troppo vacua. Chiara Martegiani non riesce a restituire, nonostante gli sforzi, la giusta naturalezza ad un personaggio distaccato e inconsueto come quello di Carolina. La sottrazione a cui prima si accennava, non viene adeguatamente compensata con l’incisività dell’espressività e nella scelta di tempi nei pochi lunghi duetti a lei affidati. Ci si aspettava qualcosa in più dall’opera prima di un attore completo ed intenso come Valerio Mastandrea, una maggiore cura nella scrittura e nella scelta di alcuni passaggi, senza eclissare il tema originale che risulta di per sé interessante. 
 
Giada Farrace

Non ci resta che il crimine

Giovedì 10 Gennaio 2019 18:28
Alcuni momenti storici hanno il particolare potere di restare per sempre cristallizzati nella memoria di chi li vive. Molti li ricordano come i migliori anni della propria vita, pagine dense di euforie e grandi scoperte. Il 1982 fu un anno che segnò indelebilmente l’immaginario collettivo italiano. Un anno rimasto impresso a tutti i ragazzi per il lancio nel mercato del mitico Commodore 64, e a tutti gli italiani per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio. Quell’anno lo ricordano bene anche Moreno, Sebastiano e Giuseppe, amici di lunga data, che all’epoca erano dei curiosi ragazzi, ed ora nel 2018, si ritrovano a dover fare i conti con una realtà ben diversa e costellata di difficoltà.  Ma forse non tutto è compromesso, e Moreno decide infatti di coinvolgere i suoi amici in un’impresa molto bizzarra: organizzare un “Tour Criminale” della Roma di una volta, città teatro di una delle organizzazioni criminali più note, la Banda della Magliana.  L’idea potrebbe promettere un rilevante successo e soldi a “palate” se non fosse che, per un imprevedibile scherzo del destino, i tre vengono inspiegabilmente catapultati davvero nel 1982, proprio nel gloriosi giorni dei Mondiali di Spagna. Tra calcio e scommesse ad alta tensione, Moreno, Sebastiano e Giuseppe arriveranno a confrontarsi con uno degli uomini più pericolosi e potenti della criminalità romana, il terribile Renatino. Ma il pericolo è dietro l’angolo, Renatino e i suoi uomini coinvolgono i tre in un giro malavitoso contornato da soldi, violenza e incalcolabili imprevisti. Riusciranno a ritornare all’agognato futuro ora che si ritrovano intrappolati in un arrischiato 1982? Non ci resta che il crimine ha la grande potenza di mescolare due registri ben diversi, ossia quello del poliziesco anni ’70 e quello del cinema comico dei giorni nostri. Quella diretta da Massimiliano Bruno, aiutato nella scrittura da Bassi, Guaglianone e Menotti, è una commedia che alterna in modo misurato tensione e ironia, senza però cadere preda di luoghi comuni o situazioni già note. Un esperimento riuscito, scorrevole e pieno di richiami a quel cinema che ha segnato un’intera epoca rimanendo impresso per alcuni stilemi molto esclusivi, quali fotografia dai toni saturi e colonna sonora graffiante, perfettamente amalgamata alla storia. In Non ci resta che il Crimine infatti, la colonna sonora affidata a Maurizio Filardo, dona un tono vintage e un carattere autentico, tipico dell’epoca. Nel film non mancano sequenze spassose, capaci di regalare un piacevole intrattenimento all’insegna della risata, ne è l’emblema la buffa ed esagerata scena della rapina, forse uno dei migliori momenti di questo lavoro. Perfettamente inseriti nei loro ruoli sono gli attori protagonisti Marco Giallini (Moreno), Alessandro Gassman (Sebastiano) e Gianmarco Tognazzi (Giuseppe), che si confermano un gruppo affiatato nella vita e sullo schermo.  Altrettanto convincente Edoardo Leo (Renatino) per la prima volta alle prese con un ruolo da “villain”, al quale l’attore romano dona un tocco personale e credibile quanto basta. Non ci resta che il crimine, dal 10 gennaio al cinema, è un film che si lascia guardare senza alcuna difficoltà e con molta curiosità, prendendo quasi le distanze per stile e trama da molto cinema italiano in sala. 
 
Giada Farrace
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