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La moglie di Tchaikovky

Venerdì 06 Ottobre 2023 14:46 Pubblicato in Recensioni

San Pietroburgo 1893. Il grande compositore e musicista russo Petr Tchaikovky muore a 53 anni di colera.

La scena si apre sull’immagine reverenziale e accorata di Antonina Ivanovna Miljukova, la vedova,  aspirante musicista in gioventù, che cerca la frase dedicata al marito più affine ai suoi sentimenti, ingrigiti da una fotografia tetra e nebbiosa.

 “Al grande. Al più grande. Al mio amato...” .Le stesse definizioni che scorre  Antonina nella sua mente per trovarne una che calzi tanto da decorare la corona funebre, sono il segno della sua devozione. L’ammirazione prima dell’amore, o essa stessa la causa e non l’effetto dei sentimenti tanto cementati e mal riposti che la giovane donna russa riservava al suo reticente marito.

C’è il funerale, e la camera segue alle sue spalle Antonina. Il passo è fiero ma sopito da un torpore soggiacente il condizionamento sentimentale di un amore non corrisposto. Cammina fino a raggiungere la salma del marito che  improvvisamente si anima e protesta contro la presenza stessa della vedova che mai aveva amato (prodromo della futura psicosi della donna). Un’inquadratura a piombo segue lo scuro corteo funebre, illuminato solo dal viso disperato di Antonina che alza disperata gli occhi al cielo e allo spettatore, abitata dal delirio del rifiuto oltre la morte.

I toni scuri fanno poi spazio al chiarore e alla luce di un flashback che porta la scena in un salotto di Mosca, vent’anni prima. Qui i due protagonisti s’incontrano per la prima volta e Tonya svela la sua infinita ammirazione per il musicista e le sue conseguenti intenzioni matrimoniali che si concluderanno con le nozze tra i due nonostante la promessa di  un amore null’altro che fraterno da parte di Tchaikovsky.

La musica è il tramite sentimentale, la misura stessa dell’amore della protagonista per il suo amato, il “più grande di sempre”; l’uomo che lei conosce “attraverso la musica” e che è disposta ad accompagnare per sempre.

“La moglie teme il marito ma è lui che teme l’amore perché non lo governa” dice il prete mentre celebra le nozze. E così tanto non lo governa, il grande compositore, che lo trasforma in un’idiosincrasia sfrenata verso la donna, in un odio tale, da far giungere alla pazzia la moglie che ne ambisce, fino alla morte, le attenzioni e ne costruisce un simulacro immaginario da idolatrare.

Con un sapiente stile associativo il regista allontana la camera e la fa salire a piombo sulla scena, raccontando i personaggi come a volerne seguire le dinamiche distaccandosene ma, allo stesso tempo, portando lo spettatore a renderle parallele. Come il funerale, così il corteo matrimoniale è seguito dall’alto adornandosi, stavolta, di luce e colori chiari in antinomia con il buio funebre della scena iniziale.

In un gioco di specchi, simbolici veicoli dell’ambivalenza e delle identità solo riflesse, Tonya non riesce a convincere se stessa della vera natura omosessuale del marito, nonostante gli amici e la cognata le confessino palesemente l’orientamento di Petr. Lei si sente persino colpevole e ne brama continuamente la presenza, anche dopo che i due si separeranno e che lei avrà tre figli dal suo avvocato divorzista che però non amerà mai, così come non riuscirà ad amare i figli suoi ma di un padre diverso dal suo amato marito, dati in orfanotrofio appena nati.

Tale è la sua spasmodica ricerca di convinzione che finirà per impazzire e in miseria, rovinata dalla sua stessa ambizione sentimentale accecata dal mito del talento del marito.

Il tragico martirio dalla moglie di Tchaikovsky è raccontato dal regista (Kirill Serebrennikov) come un passaggio dalla luce dell’illusione all’ombra della follia, puntellando la pellicola con scene squisitamente teatrali (come insegna la sua carriera di regista teatrale) e coreografiche, rendendo il ritmo meno serrato, ma ben esaurendo il tratto psicologico che si ciba di quello sentimentale nella mente della protagonista, priva di orpelli recitativi, nonostante il tono drammatico parossistico. La scelta del regista è chiara ed evidente: non è una storia che esalta l’artista, ma è una storia che racconta come l’idea di quello che crediamo essere a nostro appannaggio, a volte è figlia di un esaltante senso di ammirazione e idolatria che rende ciechi e non fa vedere null’altro che la propria illusione.

Valeria Volpini

Asteroid City

Venerdì 06 Ottobre 2023 14:40 Pubblicato in Recensioni

Asteroid City di Wes Anderson è tra i film più visti nelle ultime settimane, ma è davvero un titolo da non perdere? 

Spesso quello che chiamiamo tratto distintivo di un autore se portato agli estremi finisce per rendere la narrazione piuttosto marginale, generando il più delle volte confusione nel pubblico. Ciò che ha reso Wes Anderson un innovatore, un romantico visionario, è stato il suo particolarissimo racconto per immagini vivaci e colorate, tanto da farci immergere in ogni film quasi all’interno di un tableau vivant. Un aspetto che lo ha consacrato come autore e, soprattutto, come regista capace di realizzare dei piccoli capolavori unici nel loro genere. Nonostante la cura maniacale per il dettaglio e la volontà di riunire ogni volta un cast corale di grandi nomi, Anderson ora è giunto in una fase di reiterazione, dalla quale forse riuscirà ad emergere solo discostandosi da questa ossessione per l’estetismo. Asteroid City sintetizza perfettamente come questo problema sia stato portato per l’ennesima volta all’esasperazione. È il 1955 e ci troviamo nella città immaginaria di Asteroid, durante una convention di giovani astronomi e cadetti spaziali. Il clima di discussioni e confronti vivaci, viene bruscamente interrotto da un evento straordinario ed inquietante: l’arrivo di una presenza aliena. Questo incontro ravvicinato muterà radicalmente tutti gli equilibri della cittadina generando un uragano di situazioni inverosimili che porterà tutti i personaggi a fare i conti con le proprie ossessioni. Asteroid City, in concorso a Cannes qualche mese fa, e che esce al cinema a due anni di distanza dall’incompreso (legittimamente) The French Dispatch, se da un lato attrae per quel timbro grafico e quella messa in scena così appagante per lo sguardo, dall’altro intrappola lo spettatore nell’ennesimo racconto uguale a tanti altri già narrati dal regista in precedenza. Le dinamiche sono più o meno le stesse, lo stile pure, cosa cambia? Il giro di attori, che stavolta coinvolge nomi nuovi che vanno ad aggiungersi a dei vecchi amici, oramai divenuti anche loro la spina dorsale dell’impronta andersoniana. Tuttavia, nonostante il cast sempre eccezionale e il rigore dell’impianto grafico, la sensazione è quella di avere di fronte un’opera senz’anima, un involucro molto bello ma privo di contenuto. La durata eccessiva del film, soprattutto per quello che si narra (ossia nulla), non fa atro che esasperare quel senso di vuoto tematico, che oltretutto si percepisce dal primo all’ultimo istante. Evidente è anche la profonda frattura tra uno studio morboso per le scenografie, di diritto tra le più memorabili finora proposte dal regista, e un disinteresse lampante per un plot che fa acqua da tutte le parti. Le scenette situazioniste in cui vengono incasellati i tanti personaggi, esistono al solo scopo di dare una ragion d’essere a molti attori che sembrano trovarsi lì per fare numero. Operazione rischiosa quanto insensata dal momento che la trama presenta pochi colpi di scena, a rigor di precisione: uno.  E se poi si dovesse focalizzare su questo imprevisto, rappresentato dalla presenza aliena, non si riuscirebbe comunque a scorgere un reale interesse nel trattarlo in modo quanto meno dignitoso per la trama. Dai dialoghi alla caratterizzazione dei personaggi passando per l’epifania di un’imminente minaccia, è tutto abbozzato. La verità è che questo regista è di fronte ad un bivio ora, reinventarsi o accanirsi. Wes ti abbiamo voluto molto bene, ma è tempo di tacere quando non si ha più nulla da dire.

Giada Farrace

Il ritorno di Casanova

Lunedì 27 Marzo 2023 16:16 Pubblicato in Recensioni

L’ultima opera di Salvatores compare sul grande schermo preannunciata da una citazione da “la tempesta “ di Shakespeare : “Ora i miei incantesimi sono tutti spenti, la forza che possiedo è solo mia ed è poca”.

Il prodromo manda già un messaggio allo spettatore che può cogliere, così, l’ intento del regista che vive, insieme ai suoi protagonisti, una profonda crisi esistenziale e lavorativa.

Il suo alterego in bianco e nero è Leo Bernardi (Toni Servillo), un affermato regista che sta terminando di montare con fatica il suo ultimo lavoro per presentarlo al Festival di Venezia.

In un gioco metacinematografico in cui il film diretto dal personaggio fa capolino a colori nel film diretto da Salvatores, lo spettatore segue le alterne vicissitudini dei due protagonisti paralleli: da un lato il regista in crisi e dall’altro un Casanova cinquantenne (Fabrizio Bentivoglio), incapace di accettare il passare del tempo che  rende inevitabilmente anodino il suo spirito virile.

Bernardi cerca una risposta alla sua crisi. Cerca di salvarsi dalla caducità del tempo che passa.

La sua vita ha senso solo mentre gira, dice. Il significato della sua esistenza ha come significante il mezzo cinematografico, salvifico e insieme temibile nella sua incapacità di concretezza. Bernardi sublima i suoi tormenti girando. Non trova spazio la sua vita al di fuori del set. Teme di completare il suo lavoro e non avere così più strumenti per rendere evidente la sua presenza nel mondo. Gianni (Natalino Balasso), il montatore con cui collabora, è il suo unico amico e insieme grillo parlante e coscienza mondana, che lo riporta a galla facendolo riemergere da ogni suo turbamento e portando avanti per lui il lavoro che non riesce a concludere.

Disprezza i giovani registi osannati dalla critica e che si trovano al culmine della propria potenzialità vitale e artistica. Ne teme il confronto e insieme lo vanifica, scegliendo di evaderlo.

Lo stesso fa Casanova, portando la sfida sul piano che più si confà alla propria natura di seduttore. E non un seduttore qualunque, il re dei seduttori. Il simbolo universale dell’erotismo seducente dell’essere uomo.

Indispettito dal tempo che passa, dalle rughe, dal suo nuovo aspetto vetusto e flaccido, l’ormai anziano Casanova cerca di aprire una finestra sul suo passato, seducendo la ventenne Marcolina (Bianca Panconi). E riuscendovi con l’inganno. Un inganno vile, pietoso; che suggerisce allo spettatore il carattere surrettizio di una intenzione opportunisticamente intrapresa.

C’è però una certa indulgenza per i due protagonisti paralleli. Salvatores ne condivide evidentemente buona parte dello spirito che anima il film. Ritiene che il disturbante senso di inadeguatezza e inefficacia che si accompagna allo scorrere del tempo e della vita, possa essere il prezzo dell’esperienza, della consapevolezza.

Le sensazioni che coinvolgono Leo Bernardi sono incastonate nella pellicola come pietre miliari della drammaturgia, esaltata da un bianco e nero che rimanda ai film classici, neorealisti e che omaggia il cinema e la sua natura più pura e asciutta.

Le emozioni che abitano il protagonista sono parte integrante della messa in scena e insieme prova attoriale magistrale. Tanto significative che creano continui tilt con la tecnologia della casa domotica in cui Bernardi abita e che risponde e reagisce alle sue paturnie.

L’unica speranza di avere una possibilità al di fuori dell’espediente lavorativo e cinematografico è una ragazza: Silvia (Sara Serraiocco). Una contadina conosciuta sul set e di cui Leo s’innamora. E’ una giovane donna pura, concreta che lo porta a conoscere un lato di sé che teneva sopito e nascosto. Di cui si era dimenticato.

E’ soffice e rassicurante il tempo che trascorrono insieme e al tempo stesso è foriero di un certo grado di angoscia esistenziale: perché è così ingannevole e inutile il senso stesso della vita fuori dal set? Così effimero e così invalidante?

Forse Salvatores liquida troppo facilmente queste domande, risolvendole nel rapporto tra Leo e la giovane Silvia e ne rende così artefatti i contorni, diversamente da quello che accade quando disegna la crisi esistenziale del protagonista: travolgente e autentica.

Valeria Volpini

Air. La storia del grande salto

Giovedì 06 Aprile 2023 15:56 Pubblicato in Recensioni

È il 1984 e il mondo comincia ad affacciarsi verso le nuove tecnologie e l’informatica. Una carrellata di riprese di eventi sportivi, musicali, televisivi degli anni 80 passa sullo schermo come prologo che prepara lo spettatore all’atmosfera sfocata dell’ottava decade del xx secolo.

Adidas e converse si contengono il primato per la pubblicità nella sezione sportiva dedicata al basket mentre la Nike arranca, rimanendo relegata alla sezione concernente le scarpe da corsa.

Per risollevare il mercato del settore della pallacanestro e trovare un testimonial che possa assolvere al compito efficacemente, l’azienda decide allora di assumere il geniale talent scout Sonny Vaccaro (Matt Damon).

L’intuizione eccezionale e lungimirante di Sonny è quella di individuare in Micheal Jordan, ai tempi ancora matricola, una futura stella e icona sportiva. Tutto questo, contro il parere del co-fondatore della Nike Phil Knight (Ben Affleck) e il dirigente Rob Strasser (Jason Bateman) che spingevano per cercare uno sportivo già affermato, che desse nuovo lustro all’azienda.

Inizia così una contrattazione tra la Nike, rappresentata da Sonny, e la controparte: Michael Jordan con la sua famiglia, in particolare la madre (Viola Davis) e il suo agente.

L’accordo che portano a termine non ha precedenti e rappresenta la prima partnership pubblicitaria che preveda una percentuale sulle vendite del prodotto allo sportivo protagonista.

E non è un caso che questa dinamica sia stata inaugurata con un cestista della levatura di Michael Jordan.

La regia di Ben Affleck si conferma sapiente e accuratamente strutturata, senza perdere ritmo ma facendo gustare allo spettatore, passo passo, i successivi livelli in cui la narrazione avanza.

La sensazione è che la freschezza della sceneggiatura riesca a sposare lo stile del cinema classico in un connubio di ironia e partecipazione.

La storia ha un impatto notevole per la figura di uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi e per quello che rappresenta, riuscendo a destare l’interesse anche di chi non è un “addetto ai lavori”.

Per tutta la pellicola il volto di MJ non è mai mostrato alla camera. È una figura che, come Dio, non ha una identità corporea. È una icona da idolatrare, è un’effige mostrata solo ai lati delle nuove scarpe, create su misura per la nuova stella del basket.

“Una scarpa è solo una scarpa, finchè non la indossa mio figlio”, dice la madre di Micheal Jordan, intuendo per prima la intensità del talento del figlio e portando avanti la trattativa che fece assurgere la Nike a primatista tra le aziende sportive.

La capacità di Affleck e della sceneggiatura è di rimescolare le carte dell’idolatria, senza deviare nella retorica dell’apologia. Il percorso sportivo è sapientemente mischiato con quello pubblicitario, creando un racconto appassionante che alterna il tono ironico con quello della suggestione quasi ieratica di chi assiste all’ascesa di una stella.

 

 

Valeria Volpini