Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » Full Screen » Info
A+ R A-
Info

Info

E-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

La Ricompensa del Gatto

Giovedì 11 Febbraio 2016 16:57 Pubblicato in Recensioni

La ricompensa del Gatto è uno dei film d’animazione “minori” dello Studio Ghibli (famoso grazie al nome del suo fondatore Hayao Miyazaki) del 2002. La regia questa volta è di Hiroyuki Morita che adatta il manga “Baron: Neko no Danshaku” per il grande schermo. Il fumetto e il film raccontano la storia della liceale Haru che passeggiando con la sua amica per le strade del Giappone salva coraggiosamente un gatto da un violento impatto con un camion buttandosi nel bel mezzo della strada. La ragazza viene sorpresa nei giorni successivi da mille attenzioni “non richieste” (come dell’erba gatta altissima nel giardino della sua abitazione e topolini impacchettati sul fondo del suo armadietto a scuola), il tutto le sembra assurdo fino a quando non scoprirà che il gattino è in realtà il principe di un regno parallelo abitato da gatti e che questo gesto la rende degna di tutti gli onori agli occhi del grasso re felino a capo della comunità che la vuole maritare proprio con suo figlio. Sarà compito dell’affascinate ed elegantissimo Barone Baron Humbert Von Gikkingen (un soprammobile a forma di gatto che ha preso vita grazie ad un sortilegio) e dal suo fido secondo ciccione il gatto Muta (“mucca”) salvarla dal suo destino inesorabile. Dietro a questo film ci sono diverse citazioni che sfuggono agli occhi di chi non è appassionato del genere, nel precedente film “I sospiri del mio cuore” del 1995,  Baron compare in un contesto del tutto diverso, come statuetta antropomorfa nel negozio di un anziano signore Shiro Nishi e diventa il soggetto del romanzo che scriverà la protagonista che racconta di come il barone abbia perso la sua amata e di come da quel giorno abbia dedicato la sua vita alla sua ricerca. Questo personaggio è diventato così popolare in giappone da giustificare la realizzazione di questo “sequel”. L’animazione che vanta i colori tipici dello Studio è più “povera” rispetto a capolavori come Il castello errante di Howl, La città incantata o la principessa Mononoke ma lascia quella stessa soddisfazione all’occhio per metterlo una spanna sopra a tanti altri film d’animazione giapponese. Le musiche non sono di Joe Hisaishi (storico compositore delle colonne sonore di molti lungometraggi Ghibli) ma di Yuji Mori che scrisse i pezzi per “I sospiri del mio cuore” (di cui sopra). Una nota bisogna farla sull’adattamento italiano: i film dello studio sono stati affidati dalla Lucky Red a Gualtiero Cannarsi, appassionato conoscitore della lingua, che purtroppo per essere “troppo fedele” traduce da qualche anno a questa parte letteralmente dall’originale rendendo certi dialoghi indigesti e altri addirittura ridicoli. Nostalgia, dolcezza e una frivola ventata di freschezza per chiunque, il target dei film d’animazione giapponese spesso è adulto, questa volta anche i bambini possono apprezzarlo e immergersi in una favola bizzarra imparando che l’amore è la più imprevedibile delle emozioni. 

 
Francesca Tulli

PPZ. Pride + Prejudice Zombies

Giovedì 11 Febbraio 2016 16:23 Pubblicato in Recensioni

Il rivoltante accostamento Jane Austen e morti viventi, è un idea di Seth Grahame-Smith autore del best seller PPZ:Pride Prejudice and Zombies oggi film diretto da Burr Steers per lucrare sulle orde di adolescenti alla ricerca di nuovi cult. La signora Bennet deve maritare le sue tre figlie, Elizabeth (Lily James), la secondogenita, ha preferito studiare le arti marziali dai monaci Shaolin in Cina (piuttosto che frequentare le altezzose scuole giapponesi delle sue coetanee) e non ne vuole sapere di smettere di uccidere Zombie per la patria Inghilterra in cambio di una vita modesta da moglie, fino a quando non incontra Mr. Darcy (Sam Riley) che da subito (fin troppo “da subito”) stuzzica la sua curiosità e duella con lei in quel gioco di sguardi, diverbi e cappa e spada, che finirà per dividerli prima e unirli dopo per sempre felici e contenti. Abominevole come Lizzie sia stata privata del suo carattere pungente e della sua forte personalità e ridotta ad un eroina scialba come (quasi) tutte le ragazze super forti dei film per ragazzi, rivisitare una storia o, come in questo caso, un classico letterario sembra essere un’impresa sempre più ardua, perché la buona propaganda femminista (di cui questo film è un esempio perfetto) di mettere un'arma in mano ad una donna e renderla così “sexy e invulnerabile” toglie a gran parte delle protagoniste la forza interiore, quella vera di cui davvero le donne sono capaci e che ha incantato generazioni di ragazze. Tanto Orgoglio e Pregiudizio nella sceneggiatura e pochissimi sporadici ridicoli zombie, un’occasione bruciata di vedere un'orda di barbari mangia cervelli vestiti in stile regency, quelli che ci sono hanno un buon trucco da “zombie walk” ma risultano meno minacciosi e meno numerosi (almeno per tre quarti di film) di quelli visti nelle lunghe stagioni della serie The Walking Dead e non suscitano nessun dubbio morale su “la vita e la non vita”. La scelta del cast è discutibile, ne esce bene solo l’attore inglese Matt Smith, che interpreta una ancora più caricaturata versione imbellita del Reverendo Collins, spasimante senza speranza di Lizzie, di per sè parodia dei rappresentati del clero anche nell’originale, strappa qualche sorriso facile per la sua goffaggine teatrale. Lily Collins, la protagonista, (fu Cenerentola per Branagh) sembra non credere a quello che fa, e non si prende sul serio (come potrebbe?) e il Mr Darcy con un acconciatura di capelli ridicola è messo in ombra dall’avvenenza del suo compare Mr.Bingley (Douglas Booth), scelta non voluta e paradossale. I costumi sono di buona fattura ma la scenografia a basso budget fa pensare ad una consapevolezza di scadere nel trash come la neve finta sul finale. Una nota positiva sono le musiche di Fernando Velázquez (esperto compositore di colonne sonore di moltissimi horror) e i titoli di testa “ritagliati” come un libro. Tanto imbarazzo, non abbatte i pregiudizi e non rende orgoglioso nessuno, tantomeno i fan dei due generi.

 
Francesca Tulli

I Milionari

Giovedì 11 Febbraio 2016 15:31 Pubblicato in Recensioni

Alessandro Piva approda al Festival Internazionale del Film di Roma con I Milionari, presentato in concorso all’interno della rassegna Cinema Oggi.

Libero adattamento dell’omonimo romanzo-inchiesta di Luigi Alberto Cannavale e Giacomo Gensini, il film racconta l’ascesa criminale di un gruppo di giovani banditi napoletani nel quartiere di Secondigliano.
Piva cambia tutti i nomi dei personaggi, aggiunge dettagli e ne omette altri, ma cerca di mantenere la stessa tensione realistica del libro, con l’obiettivo di disegnare una mitologia criminale di Napoli. 
Così il protagonista Paolo di Lauro, in arte e al lavoro “Ciruzzo ‘o milionario”, diventa Marcello Cavani, soprannominato a sua volta “Alendelòne” e interpretato da un deludente Francesco Scianna (Vallanzasca – Gli angeli del male, Allacciate le cinture). 
Regista di culto nell’underground pugliese, Piva sbarca a Napoli, con un film dal budget più alto rispetto ai precedenti, in cui vuole sottolineare l’impossibile convivenza tra le velleità borghesi di Cavani e la sua sostanza criminale. 
Tutto scorre piatto. 
Le immagini sono una successione di inquadrature banali, senza spessore, degne della più generalista delle fiction Rai (manca solo Beppe Fiorello). 
Non era facile reggere il confronto con i camorra-movie degli ultimi anni; prima Gomorra di Matteo Garrone, vincitore del Gran Premio della giuria a Cannes e di 7 David di Donatello, poi l’omonima serie, uno dei migliori prodotti televisivi italiani degli ultimi vent’anni, senza dimenticare il sottovalutato Fortapasc di Marco Risi, sulla breve esistenza del giornalista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra. 
Francesco Scianna si conferma uno degli attori peggiori della sua generazione;
la recitazione caricata  trasuda insicurezza e dilettantismo. 
Dopo il sopravvalutato Il sud è niente, Valentina Lodovini si trova di nuovo relegata a un personaggio femminile debole e scritto male. 
Eppure il soggetto di spunti stimolanti potrebbe offrirne; lo scambio fra i regali nuziali (le “buste” ) e le bomboniere nella facciata borghese ha le stesse dinamiche dello scambio danaro-hashish nel retroscena criminale. 
Ma Piva sembra come spaesato e la sua regia approssimativa; dopo quello che sembrava essere un nuovo punto di partenza con il noir romano Henry, il regista delude irrimediabilmente le aspettative dei suoi fan più affezionati. Si concentra sulle megalomani aspirazioni del protagonista, ma non riesce a codificare i rituali della malavita in immagini che suscitino un minimo di interesse in più rispetto al canonico campo e controcampo.
I mostri un po’ grotteschi di La Capa Gira, ritratto della microcriminalità barese dai risvolti amari, lasciano il posto a personaggi privi di spessore, dalle evoluzioni sciatte e prevedibili. Si ricicla la figura stereotipata del bandito dandy e carismatico, ormai superata da anni sia nel cinema che nella televisione di qualità, tratteggiando un profilo superficiale e reazionario della criminalità organizzata. 
In comune con il film di Gomorra c’è lo sceneggiatore Massimo Gaudioso, storico collaboratore di Garrone e certe situazioni sembrano la parodia involontariamente demenziale dell’omonima serie tv.
 
Angelo Santini

The Hateful Eight

Martedì 02 Febbraio 2016 22:58 Pubblicato in Recensioni

Ambientato durante la Guerra civile, The Hateful Eight, ottavo e ultimo lavoro di Quentin Tarantino,  si mostra molto particolare nel suo genere, essendo un mix di generi, tanto che potremmo chiederci se, abbandonato l'aspetto di un western classico, in realtà non si debba parlare di thriller, commedia, film drammatico, claustrofobica pellicola ad alta tensione, film di Natale post Natale? Il vero problema non è quello di incasellare il tutto in precisi parametri cinematografici, bensì quello di ritrovare un senso più compiuto dietro le abbaglianti immagini.

Si parte così con un prodotto corale dove tutte le vecchie glorie del cinema di Tarantino tornano nel tentativo di riprendere da dove le avevamo lasciate, esattamente dove le avevamo lasciate. Proprio per questo sembra per certi versi di assistere ad un'autocelebrazione, dove non solo ritroviamo coloro ai quali eravamo abituati ma anche e soprattutto ambientazioni che non ci sono nuove in una storia che è tutto fuorché originale. Tutto comincia in una landa desolata nel più feroce degli scenari in cui un uomo possa trovarsi, una terra dove la natura è nemica e dove immense gelide vallate segnano la linea dell'orizzonte. L'ambientazione western era già stata affrontata nel precedente Django Unchained, ci ritroviamo quindi davanti ad un omaggio, ancora una volta, ai grandi maestri del passato ma in particolare, come dichiara Tarantino, a Sergio Leone, abbondando in citazioni e, soprattutto, in autocitazioni. 
Ma oltre che a Leone, anche se in chiave leggermente dissonante, The Hateful Eight è chiaramente legato a La Cosa di John Carpenter, a sua volta pellicola ispiratrice de Le Iene. Da La Cosa, oltre che il protagonista Kurt Russell e il direttore della colonna sonora, Tarantino riprende le stesse ansiogene e innevate ambientazioni, per protagonisti che rinchiude dentro scricchiolanti pareti di un rifugio isolato, limitati fisicamente sotto il giogo della costante minaccia di un nemico invisibile ma tangibile al contempo, nella classica lotta alla sopravvivenza.  Un luogo non luogo perduto in un tagliente gelo, in cui solo un rifugio può sembrare un porto sicuro, dove non vi è in realtà salvezza perchè tutti saranno l'uno contro l'altro per causa e indole, divisi in fazioni ma purtroppo esenti da colpi di scena. Un discorso preciso va intrapreso sulla scrittura alla base di questo lavoro, che inizialmente si presenta come un thriller grottesco con struttura teatrale, serratissimi dialoghi in un'unità di luogo e di tempo, nonostante i numerosi, ma non necessari, flashback a ripercorrere gli eventi da più angolazioni, come una sorta di Rashomon postmoderno in cui ognuno, o quasi, racconta la sua versione dei fatti. Si entra in un percorso accidentato posto ad evidenziare,  ma finendo con il mortificare e appiattire, la bravura degli stessi interpreti. Ecco che si ripropongono i medesimi personaggi con le medesime formule interpretative attuate in passato, in questo non c'è novità né scelta coraggiosa per oltre tre ore che non valgono l'opera magnificente che si voleva portare a termine e, anche se non si può assolutamente dire che quello che ci scorre davanti è un brutto spettacolo, il cliché a volte può essere decisamente ridondante. Tarantino non ha la cifra di opere monumentali, come i grandi autori su cui forgia i suoi lavori, e ancora una volta la sceneggiatura citofonata dall'inizio alla fine, rende troppo prevedibile il tutto, strizzando continuamente l'occhio al grande pubblico, abbassando il target giocando sulla facile comprensibilità, alle mode old style del momento, all'esplosione patinata di colori e campi lunghi nell'abbondante postproduzione che invalida la presenza di una tecnica registica. 
Definire The Hateful Eight un Le Iene in salsa western è un'affermazione troppo azzardata: non è presente nemmeno un vago ricordo dell'originalità prepotente di un lavoro che ha dato seguito a imitazioni per i 20 anni successivi. Parlando di copie di copie in una rete di infiniti rimandi artistici mediatici e pubblicitari, anche la colonna sonora inedita, creata dal Maestro Ennio Morricone, è una riproposizione. Diversi brani, erano stati composti proprio per  La Cosa ma mai utilizzati all'epoca quindi riarrangiati e utilizzati ora, tutti tranne uno che è invece presente nel film di Carpenter. 
Forse questo è un po' il passo più lungo della gamba, quello dal sentore di inadeguatezza, dall'indole di un quasi sequestro di persona, che ci attanaglia per un lungo lungo tempo in cui avremmo potuto anche scappare all'intervallo, o iniziare a vederlo da subito dopo, un po' a scelta. 
 
Chiara Nucera