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Revenant

Lunedì 18 Gennaio 2016 16:27 Pubblicato in Recensioni
1823. L’esploratore Hugh Glass, vedovo e padre di un mezzosangue indiano, viene assunto come guida per una battuta di caccia alla ricerca di pelli e pellicce tra gli Stati americani di Montana, North Dakota e South Dakota. Tra i suoi compagni è quello che più di tutti conosce le vergini terre americane, in cui soldati, mercenari e cacciatori si inoltrano per scopi commerciali, provocando sanguinosi conflitti con le tribù indigene. Dopo essere stato brutalmente attaccato da un grizzly, Glass rimane in fin di vita. Fitzgerald (Tom Hardy), il più arrogante della compagnia, si offre di rimanere con lui e di dargli degna sepoltura quando sarà il momento, ma lo abbandona fra la vita e la morte dopo averlo derubato del suo bene più caro.
Tratto da una storia vera, il film racconta l’epica avventura di un uomo che cerca di sopravvivere nelle terre impervie di un’America inesplorata grazie alla straordinaria forza del proprio spirito. 
 
È difficile parlare di The Revenant senza accennare alla sua programmatica corsa agli Oscar. Il film di Alejandro González Iñárritu, fresco di 12 nomination, sembra pensato apposta per replicare lo straordinario successo di Birdman, vincitore di 4 statuette tra cui miglior film e miglior regia.  
Il personaggio di Glass è un vestito cucito su misura per il premio come miglior attore. Un’opportunità irripetibile - costruita ad hoc - per permettere al bravissimo Di Caprio di stringere finalmente fra le dita la prestigiosa statuetta, dopo 4 nomination andate a vuoto e la pressione di un'opinione pubblica che ironizza sulle sue vittorie mutilate. 
«Per quanto riguarda gli attori la malattia paga» commentò cinicamente il critico Gianni Canova dopo le vittorie dello scorso anno: Eddie Redmayne, miglior attore protagonista nel biopic su Stephen Hawking e  Julianne Moore, miglior attrice nel ruolo struggente di una donna malata di Alzheimer in Still Alice. 
Anche senza malattie e disabilità permanenti, Di Caprio mette il suo corpo a dura prova nella performance più difficile di tutta la sua carriera. Nell’arco dei 9 interminabili mesi di lavorazione l’attore ha rischiato più volte l’ipotermia a causa della temperatura di 40 grandi sotto zero  - motivo che ha spinto diversi membri della troupe ad abbandonare le riprese -, indossato pellicce di orso e d’alce dal peso di 45 kg, mangiato fegato di bisonte crudo e dormito nella carcassa di un cavallo morto. Il suo personaggio si limita per tutto il tempo a subire una serie di sfortunati eventi, come un cartoon che non muore mai; roba che in confronto quello di Sandra Bullock nello spazio profondo di Gravity sembra un tranquillo weekend a Pescasseroli. 
 
Ma il film è anche una vetrina espositiva per Iñárritu, irrefrenabile forza della natura, e il superbo direttore della fotografia Emmanuel Lubezki (Oscar per Gravity e Birdman).
In Birdman, attraverso il lungo piano sequenza simulato e un pragmatico uso di effetti digitali, il regista messicano era riuscito a ricreare il fascino illusorio ed inspiegabile tipico del cinema delle origini. Quella magia che non troviamo nemmeno nei blockbuster più pirotecnici, dove la spettacolarità è un trucco dichiarato che non lascia spazio alla fantasia. Davanti a quei virtuosissimi movimenti di macchina, nel buio della sala, ci si chiede spesso «Ma come cazzo hanno fatto?». Interrogativo alla base dell’essenza stessa del cinema e non troppo lontano da quello degli spettatori di fronte ai primi capolavori di Méliès. 
 
In The Revenant Iñárritu e Lubezki si spingono addirittura oltre; lasciano i Kaufman Astoria Studios di New York – dove si svolsero interamente le riprese di Birdman – per le location incontaminate di Alberta, Canada e Argentina, dove, seguendo l’influenza di Herzog, «filmano l’impossibile», sfruttando questa volta solo luce naturale. 
La macchina da presa, attraverso i fluidi long take, sta letteralmente addosso al protagonista, mentre il suo respiro appanna l’obiettivo e gli schizzi di sangue macchiano lo schermo. 
La lettura politica dei conflitti fra nativi americani e invasori europei e quella spirituale, legata agli inserti onirici di Glass vagamente Malickiani e al suo desiderio di vendetta, risultano complementari nella potente messa in scena del rapporto fra l’uomo e la natura; dove gli alberi - la natura -  protendono verso il cielo, come le frecce infuocate scoccate dai nativi, civiltà nettamente superiore dei mercenari colonizzatori – l’uomo - che invece strisciano al suolo come vermi. 
Una gioia per gli occhi e poco più.
 
Angelo Santini

Joy

Domenica 17 Gennaio 2016 12:19 Pubblicato in Recensioni
In un mondo dove le commedie sono “fuori tempo”, David O. Russel le riporta in auge e ricompatta il suo team vincente di attori protagonisti de “Il Lato Positivo”. Joy (Jennifer Lawrence) ha una famiglia rimarcabile composta da una nonna sognatrice, un padre inopportuno (Robert De Niro), un marito con cui va più d’accordo da divorziata, un figlio “invisibile”, una figlia adorabile e una madre rimbambita che vive attaccata alla tv a seguire le Telenovelas. La ragazza non sa quale direzione far prendere alla sua vita, è costretta a fare da “mamma” anche ai genitori. La sua giornata viene riempita da battibecchi e faccende domestiche surreali. L’inaffidabilità dei prodotti per la casa, la portano ad ingegnarsi per costruire un modo per pulire senza sporcarsi. Un bel giorno prende i pastelli colorati della figlia, le trecce di lana di una sua bambola e, dal niente, una lampadina si accende nella sua testa, disegna il primo prototipo di Mocio riutilizzabile e lotta perché la sua idea entri nelle case di tutti. Pronta a tutto lo brevetta lo fa sponsorizzare arriva addirittura alla scrivania di un vecchio amico del suo “quasi” marito, Neil Walker (Bradley Cooper). Egli dirige i traffici del magico mondo delle televendite e la rimbambisce di chiacchiere come faceva la nonna, il sogno americano del “tutto è possibile” diventa il vero protagonista della pellicola. Tutto fu davvero così per l’imprenditrice Joy Magnano, grazie alle sue invenzioni (più di 100) la donna con i suoi 59 anni è tutt’oggi sulla cresta dell’onda. Il film è liberamente ispirato alla sua vita. Jennifer Lawrence ha già ottenuto un Golden Globe per il ruolo da protagonista femminile nella categoria “Comedy-Musical” ed è (per la quarta volta) in lista per l’Oscar (nel 2013 ne vinse uno con lo stesso regista). La Joy cinematografica sembra una caricatura della imbattibile Katniss di Hanger Games (interpretata dalla stessa) con il doppio della determinazione e la lingua ancora più tagliente. Super Donna, Super mamma, frenata solo dalla vita che sembra voler castrare i buoni propositi dell’intero mondo. La sceneggiatura altrettanto affettata porta la firma del regista. I costumi sono indubbiamente accurati per il mood anni 90, come in un catalogo di Barbie. Il compositore della colonna sonora David Cambell convince solo nelle sequenze che vogliono diventare “cult”. Girato senza dubbio con sapienza, la fotografia dai colori saturi e la scenografia da romanzo leggero contribuisco al “troppo” stupore che lo spettatore percepisce guardando una pubblicità perfetta. La sensazione che si ha è che il regista non abbia voluto rischiare, puntando sul suo cavallo “vincente” la solita cifra. Ma questa è l’America.
 
Francesca Tulli

Franny

Sabato 16 Gennaio 2016 12:06 Pubblicato in Recensioni
Franny (Richard Gere), protagonista dell’opera prima dell'esordiente Andrew Renzi, è un vecchio solitario, miliardario e proprietario di un ospedale, che risvegliatosi da un coma è assalito dai sensi di colpa per la perdita degli unici amici che aveva. Viene contattato dalla figlia della coppia Olivia (Dakota Fanning), che in tenera età aveva soprannominato affettuosamente “Poodle”. La ragazza, prossima al parto, sta per sposarsi con il neo dottore Luke (Theo James); ai due innamorati non manca nulla in termini di volontà, ma il loro profilo economico non gli garantisce il massimo per il loro futuro, a questo penserà Franny, il loro “Benefattore” (The Benfactor è il titolo originale della pellicola). Quella che ad un primo  sguardo può passare per la filantropia di un vecchio amico, nasconde in realtà un personale e morboso bisogno di ricostruire una propria personalissima realtà, ricca di un grande vuoto emotivo, sostituendo la coppia di amici di un tempo, ormai non più in vita, con i due giovani “sconosciuti”. Così Franny, che entra nella vita dei due come uno zio premuroso, diventerà presto un peso, una figura invadente e non sempre ben voluta. Richard Gere, che con sincera generosità si mette ancora una volta a disposizione di un regista emergente per far decollare il suo film, è un esempio di reale filantropia, e non delude, non ha paura di mostrare la sua età, resta inossidabile nella classe di un attore che rasserena il pubblico e porta la pellicola a compimento, facendo uscire dalla sala lo spettatore con un sorriso. Il regista, nato nell’84, racconta Gere nella conferenza stampa tenutasi a Roma durante la promozione del film, non voleva connotare il suo protagonista con un particolare orientamento sessuale né voleva che rientrasse in altri stereotipi: Franny è semplicemente un uomo che vive l’amicizia a suo modo e fa della sua vita quello che vuole. Una buona lettura del significato di famiglia, senza implicazioni religiose o di sangue. E’ stato presentato al Tribeca Film festival del 2015 ottenendo un distributore ufficiale, la Samuel Godwyn film. Un film indipendente godibile, al pari di tanti premiati e famosi, esempio di come il cinema d’autore sia a volte sopravvalutato.   
 
Francesca Tulli

Creed. Nato per combattere

Giovedì 14 Gennaio 2016 18:13 Pubblicato in Recensioni
Adonis Johnson (Michael B. Jordan) è il figlio illegittimo di Apollo Creed, morto sul ring poco prima che lui nascesse. Trascorre un’infanzia difficile, finché non viene adottato da Mary Anne Creed (Phylicia Rashad), la vedova di Apollo, che lo porta con sé in California. Si capisce subito che il protagonista è «nato per combattere»; da piccolo picchia duro i compagni di riformatorio, da grande s'è scisso fra un lavoro castrante ma redditizio a Los Angeles e gli incontri clandestini di boxe in Messico.  
Contro il parere di Mary Anne, il protagonista lascia l’agiatezza del suo mondo ordinario e si trasferisce a Philadelphia, la città dove si tenne il leggendario incontro fra Apollo Creed e Rocky Balboa. Una volta arrivato nella città dell’amore fraterno, Adonis rintraccia Rocky (Stallone) e gli chiede di diventare il suo allenatore.
 
Adonis non è il nero che lotta per uscire dal ghetto e diventare un paperone impaccato di milioni come Apollo. Vive già nell’idillio del sogno americano, all’ombra di suo padre: è istruito, ha un bel lavoro e una bella macchina. Ma tutto questo sembra andargli stretto. Adonis fa parte di una seconda generazione, che combatte per affermare la propria personalità indipendentemente da quella precedente; per dimostrare a sé stesso e agli altri di non essere un buffone, un “Baby Creed” insomma. Questa è anche la motivazione congenita del film stesso, che combatte per emanciparsi dalla serie di Rocky e non essere solo un reboot- fotocopia del primo film, sforzandosi di creare conflitti diversi e un ricambio generazionale. 
Non mancano però i riferimenti alla serie originale, come la leggendaria scalinata dell’Art Museum a Philadelphia, gli allenamenti spartani con le galline e una figura femminile cucciola e indifesa di cui il combattente si prende cura; nel primo film Adriana era una commessa impacciata ai limiti dell’autismo, sguattera del fratello/patriarca Paulie, mentre qui Adonis si innamora di Bianca (Tessa Thompson) una musicista che soffre di una degenerazione dismorfica all’udito. 
 
Con questo film Stallone, premiato con il Golden Globe come miglior attore non protagonista, ha finalmente ricordato che vuol dire la parola dignità. A quasi settant’anni lo abbiamo visto menare le mani con i suoi amici Mercenari duri a invecchiare, convinto che il pubblico ridesse con lui, mentre in fondo rideva di lui. Per la prima volta non mette mano alla sceneggiatura della sua saga e si dedica esclusivamente al lato interpretativo, mettendo in scena un Eroe/Mentore più tragico e crepuscolare dell’ultima avventura –patetica e un po’ surreale– di Rocky Balboa (Balboa, 2007), che lo vedeva tornare sul ring alla veneranda età di 65 anni.
In Creed Rocky/Sly supera quella crisi della terza età ed è costretto a combattere la sua (ultima?) battaglia contro un avversario più letale di chiunque abbia mai affrontato sul ring. D’altronde tutti quelli che lo circondavano sono morti e lo “stallone italiano” - come ancora lo chiama qualcuno nella vecchia palestra di Mickey - non può far altro che imparare dai suoi errori, accettare il tempo che passa e smettere di vivere fra le fotografie del passato incorniciate sulle mura del suo ristorante.
 
Il regista Ryan Coogler (Prossima fermata – Fruitvale station, 2014), grande fan di Rocky fin da bambino, resuscita il franchise da 9 anni di dimenticatoio. Filma i match in modo meno frammentario e serrato del precedente Rocky Balboa; il primo incontro a Philadelphia contro Gabriel Rosado (sosia indiscusso di Fedez) è un unico long take con la macchina da presa che gira intorno ai due pugili, mentre la stessa tecnica viene usata per l’entrata sul ring durante il match finale con Ricky Conlan (Tony Bellew). 
 
Non un gran film, ma senz’altro un film dignitoso che non deluderà sicuramente i fan della serie. Tanto che già si parla di un sequel. 
 
Angelo Santini