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Pixels

Giovedì 01 Ottobre 2015 10:04 Pubblicato in Recensioni
Generazioni di “nerd” hanno sempre pensato che valesse la pena spendere la propria infanzia a giocare con i videogiochi, convincendosi così a passare nello stesso modo i ritagli di tempo dell’adolescenza e non poterne fare a meno per il resto della loro vita. Il regista Chris Columbus è uno di questi. I protagonisti del suo Pixels, sono quattro eroi sfigati, come nella migliore tradizione dei Ghostbusters. Brenner (Adam Sandler) per vivere installa Hi-Fi per la ditta “Nerd”, Cooper (Kevin James) non ha lasciato mai la casa della nonna e il suo seminterrato dove pretende di sventare attacchi segreti e risolvere casi irrisolti, Eddie (Peter Dinklage de “Il trono di Spade”) è in prigione per furto e spaccio e Ludlow (Josh Gad) il grasso compagno di giochi di Brenner, fido “Chewbacca” del duo, ora è Presidente degli Stati Uniti. Negli anni 80 dove spopolavano le sale giochi, i quattro erano i migliori nei tornei, ognuno con la sua specialità, Brenner decodificava gli schemi di PacMan e centipede, Eddie bruciava i record a Donkey Kong, Cooper era innamorato dell’eroina fantasy Lady Liza. La gloria eterna a chi, avrebbe vinto il torneo ripreso su una VHS e spedita nello spazio remoto. Decenni dopo il pentagono, riceve dal cielo una risposta, un attacco inspiegabile: da uno squarcio nel cielo compaiono le astronavi di Galaga e trasformano in pixels qualsiasi cosa sulla loro strada. Persone, alberi, strade. Le alte sfere dell’esercito ottuso e americano, danno la colpa ai russi, all’Iraq, ma solo il presidente capisce la reale natura degli attacchi, e riunisce il vecchio gruppo. Gli Alieni travisano il contenuto della videocassetta, pensando che sia una dichiarazione di guerra e muovono attacchi alla terra usando le stesse “armi”. Il film è una goduria per gli appassionati, in tanti anni di cinematografia, ancora nessuno aveva scalato i cantieri dello scimmione tira barili con i propri piedi, ne partecipato a un inseguimento in strada con le auto dei colori dei fantasmi contro lo smile gigante più famoso della storia. Delle partite reali che mischiano la grafica al girato dando un delizioso effetto alla “Chi ha incastrato Roger Rabbit” versione 3D. I cliché non mancano, Michelle Monaghan con la sua prosperosa presenza femminile, riempie il ruolo dei film parodia. Le battute non sempre fanno scattare la risata, sono mirate ad un pubblico specifico. La colonna sonora alza l’indice di gradimento, con un bellissimo remix di VonLichten di “We will Rock you”. Gli Arcaders ameranno come si faccia riferimento ad un preciso periodo “storico”, il film trasuda anni 80 e 90, i videogiochi di oggi senza schemi dove bisogna solo “fingere di essere lui e cercare di non essere ucciso” vengono superati dall’immortalità dei classici. Thoru Iwatani il vero inventore di Pac-Man ha realmente partecipato al film, svelando che la sua creatura, era stato creata per essere un “amico di tutti” quello con cui “mangi un panino, e a cui racconti i tuoi problemi”. Un mondo esagerato dove solo alcuni possono sentirsi a casa, una dedica a chi sa che crescere non significa abbandonare le proprie passioni, un film dove i nerd “baciano meglio perché ci tengono di più” la rivincita dei nerd, con la semplicità dei film comici di oggi. 
 
Francesca Tulli
 

Looking For Grace. Anteprima Venezia 72

Giovedì 10 Settembre 2015 09:46 Pubblicato in Recensioni
Nel panorama dei Festival contemporanei, Looking for Grace, diretto e scritto dall’australiana Sue Brooks (al Festival di Venezia nel 2003 col bellissimo Japanese Story), per molti addetti ai lavori potrebbe passare inosservato.  Certamente non brilla in originalità, ma a dispetto di polpettoni dilatati e tediosi, nella drammaticità del film troviamo un insolito umorismo, che funziona e stempera i disastri legati al destino ineluttabile di una famiglia qualunque.
L’ironia (tipicamente australiana?) tiene a galla il film diviso in diversi capitoli legati ai personaggi principali. Questi, incrociandosi, formano un puzzle figlio del caso. Dalla vicenda principale, la fuga di Grace (Odessa Young, presente alla Mostra di Venezia 72 con un altro titolo: The Daughter), teenager in erba alle prese con le problematiche tipiche delle sua generazione, scaturiscono avvenimenti imprevisti. Segreti, bugie e ansie, chiusi per troppo tempo nella monotonia quotidiana, esplodono coinvolgendo tutta la famiglia e non solo. La ragazzina verrà a contatto con la realtà, fino ad allora nascosta dai genitori. Le mancanze del padre (Richard Roxburgh, Moulin Rouge – 2001) e della madre (Radha Mitchell, Silent Hill – 2006) creano asprezze ed evidenziano le incomprensioni che trovano i ragazzi d’oggi nel rapporto con gli adulti.
Looking for Grace, non solo è diretto da una donna, ma è un film realizzato quasi completamente da donne (dalla direttrice della fotografia ad un trio di produttrici) per le donne. Un cinema al femminile che parla al gentil sesso contemporaneo, accumunato ed impantanato, ancora nostro malgrado, ad un folle conformismo.
Il titolo del film, non è solo riferito alla ricerca di Grace, ma soprattutto alla ricerca da parte dei personaggi di se stessi e della grazia. Vera sfuggevole condizione, che ogni essere umano ricerca spasmodicamente per dare un senso alla propria vita. Caccia al tesoro o estenuante partita nella quale tutti cercano il pallone. Come bambini spinti dalla voglia di arrivare prima di altri per segnare un goal strepitoso e portare la propria squadra verso la vittoria. Molte volte la grazia risiede nei gesti comuni, come vedere i propri genitori che si allacciano le scarpe. Attimi che ci ricorderanno quella persona per sempre e ci conforteranno nei momenti difficili. Luce in uno scenario di tenebra. 
Se fossimo tutti più comunicativi (a parole) e meno legati al caos mediatico (cellulari e social media), la pace sarebbe più a portata di mano. Pace intrinseca alla zona geografica nella quale è ambientato il film: la Cintura del grano. Meravigliosa regione dell’Australia occidentale caratterizzata da ampi spazi aperti, che assume una forte e naturale valenza simbolica di semplicità in contrasto con le problematiche caotiche e personali dei protagonisti. La regista con questo mette anche in contrasto la vastità del mondo con i piccoli momenti intimi ripresi nel film: primi piani ad oggetti e parti del corpo. Esplora e studia la complessità dell’esistenza.
Looking for Grace attraverso il suo viaggio on the road ci parla d’amore, di legami d’amicizia e famigliari e di crescite e cadute personali. Compresa la morte alla fine della strada. Insomma di persone normali legate all’unica vera cosa dalla quale non si può sfuggire: il fato. Realtà oggettiva e tarlo ossessivo della regista. 
 
Il film è ancora in attesa di una distribuzione Italiana. 
 
David Siena
 

The Danish Girl. Anteprima Veneziana

Venerdì 11 Settembre 2015 09:09 Pubblicato in Recensioni
Rimane saldamente ancorato al suo cinema delicato e politicamente corretto, Tom Hooper (Les Miserables – 2012), e per l’ennesima volta non sbaglia. The Danish Girl colpisce al cuore parlando di amore universale e di come si possa trovare se stessi in fondo alla propria anima. 
La pellicola tratta la storia di una coppia danese di inizio novecento, entrambe affermati pittori e dediti alle belli arti. Gerda Wegener (Alicia Vikander, Ex Machina - 2015) ed il marito Einar Wegener (Eddie Redmayne, fresco di premio Oscar come Miglior Attore protagonista per La Teoria del tutto – 2014) vivono in una Copenhagen patinata e per bene. La loro relazione è salda ed affiatata, ma quando per pura casualità la sposa chiede al marito di posare per un suo dipinto che ritrae una ballerina, in Einar scatta qualcosa di anomalo. Un desiderio che è presente nella sua mente fin dall’infanzia. Una voglia irrefrenabile di uscire dalla sua mascolinità per entrare in quel universo femminile tanto agognato. Tormento interiore che ha trovato l’uscita dal labirinto grazie alla bellezza dell’arte. 
The Danish Girl è liberamente tratto dal libro omonimo di David Ebershoff pubblicato nel 2000, che racconta la vita della prima transgender della storia attraverso i suoi diari segreti. La trasformazione da uomo a donna di un artista affermato, che ad un certo punto della sua vita ha deciso di diventare Lili Elbe.
Il regista Tom Hooper, premio Oscar per Il Discorso del Re (2010), a livello umanistico punta sull’amore e meno sulle forti problematiche legate all’integrazione nella società dell’epoca. Dirige con intimismo due personaggi uniti dalla passione per la vita e per se stessi, che vivono l’amore all’unisono. La sua tecnica di regia è ineccepibile. Inquadrature artistiche che sembrano quadri parlanti. Uso degli spazi e delle profondità che mettono in risalto ed aiutano la narrazione a fluire con dinamicità, portandoci nelle stanze e nei salotti aristocratici, mai appesantendoci. Merito è dovuto anche alla fedele ricostruzione storica ed alla sua compattezza. Menzione d’obbligo è per l’uso della fotografia (Danny Cohen, cinematographer dei due precedenti film del regista). Le geometrie sono esaltate dall’uso perfetto delle luci.
Uscendo dai tecnicismi, che erano d’obbligo menzionare, parliamo dei meriti di un film che osa nell’interpretazione dell’amore ed un po’ meno sul dolore e sulle frustrazioni, che un argomento del genere implica. Per capirci, il disagio interno ed il dualismo faticoso da accettare tra la materialità del corpo ed il proprio essere immateriale. E’ l’unica mancanza in The Danish Girl, dove della critica pungente potrebbe trovare dei difetti, imputandogli una visione classica e corretta da film acchiappa Oscar. La drammaturgia si avvale di due interpretazioni sopra la norma: Eddie Redmayne prenota la Coppa Volpi al Festival di Venezia edizione 72 come migliore attore, o magari attrice? Sembra veramente il caso di dubitare sulla categoria, perché la sua Lili emerge in superficie. E’ una donna che si rivela e scopre la sua femminilità. Si realizza con lo spazio creato dall’arte. Identità forte e coraggiosa come lo è nella realtà una transgender. Non vi è il minimo dubbio che si innamori di se stessa, pronta per vivere una vita autentica. Corroborata dal partner, una Alicia Vikander in stato di grazia. Da lei traspare la sofferenza, ma anche la tenacia nel supportare il suo unico vero amore. Un affetto senza distinzione di sesso, oltre le barriere fisiche, reso imprescindibile dall’amore per la bellezza intrinseca nei sui quadri. L’espressione massima di se espressa su tela aiuta Lili a sbocciare.  Il potere curativo dell’arte, non è corretto dire che ci può solo salvare, indubbiamente porta in trionfo l’anima rimasta per troppo tempo legata alle convenzioni e falsi moralismi.
Assolutamente da non perdere The Danish Girl, in Italia uscirà nel mese di Febbraio 2016, al quale nel finale gli abboniamo qualche manierismo di troppo, che scaturisce in momenti di commozione. Sinceramente, se valutiamo il messaggio unico della pellicola, non dovremmo piangere, ma alzare gli occhi al cielo facendo esplodere la gioia.
 
David Siena
 

Everest

Mercoledì 30 Settembre 2015 08:52 Pubblicato in Recensioni
Everest, lungometraggio scelto per aprire l’edizione 72 della Mostra del Cinema di Venezia, ha portato in   anticipo l’inverno sul Lido. 
Dopo gli scoppiettanti inizi delle due passate stagioni: Gravity di Alfonso Cuaron (Presidente di Giuria di questa edizione del Festival) e Birdman di Alejandro Gonzalez Inarritu, il film intimistico ed epico di Baltasar Kormákur (Contraband – 2012, Cani Sciolti - 2013), che parla della drammatica spedizione avvenuta sull’Everest nel 1996 da parte di due gruppi di escursionisti amanti dell’alpinismo estremo, non convince appieno e passa su Venezia come una tormenta di neve in piena estate. 
Il film è la riproposizione dei fatti descritti nel saggio Aria Sottile (1997) di Jon Krakauer. Non nuovo a best seller di genere avventuroso, in quanto autore del libro Nelle terre selvagge (1996), che diventò lo splendido film Into the Wild (2007) diretto da Sean Penn.
Girato alle pendici dell’Everest, sulle nostre Dolomiti, negli studi di Cinecittà a Roma e Pinewood a Londra, l’opera spiega essenzialmente la storia di un gruppo di persone qualunque che si cimenta con le imprevedibilità della montagna. 
Corale per diritto, nel cast sono presenti una serie di star hollywoodiane del calibro di: Jake Gyllenhaal (Donnie Darko - 2001), Josh Brolin (Non è un paese per Vecchi - 2007) e Jason Clarke (Apes Revolution - 2014). Coprotagonisti di questo film dove l’indiscussa protagonista è la Montagna. 8848 metri sul livello del mare. Il luogo più angusto che la natura ci potesse regalare. Figlia degli Dei e quindi proibita all’uomo.
Kormákur dirige con mano gelida ed un poco documentaristica. Sarà perché abituato al clima della sua terra, l’Islanda? Può darsi. 
La narrazione si concentra sulla ricerca di una realtà concreta e vera. La quotidianità della sua terra, così lunare, aiuta l’autore nell’unico vero fiore all’occhiello del film: l’esatta descrizione della natura a quelle altezze. Più si dà alla realtà, più tutto sembra reale. Da questo anche l’uso limitato della computer grafica. La storia del gruppo, meno approfondita, ne risente. Il risultato è un film che alterna le emozioni. Poco omogeno. Il senso di cameratismo, di unione davanti alla tragedia e l’approfondimento dei personaggi è solo abbozzato. Il dolore rientra nei soliti cliché di genere, manca quell’aspetto umano che aveva caratterizzato un film similare: Alive – Sopravvissuti (1993). Disastro aereo accaduto ad una squadra di rugby sulla catena montuosa delle Ande.
In sostanza, manca la figura metaforica del proprio Everest da scalare. Ogni essere umano ne ha uno, basso o alto che sia. Ci sarebbe piaciuto entrare con l’uomo scalatore dentro alla natura selvaggia e carpire cosa si prova nei momenti difficili, dove veramente si ha la percezione di se stessi. L’uomo nella natura ritrova la sua vera natura. Una guerra dentro ognuno di noi, piscologica ma anche fisica. Per rendere poi il ritorno alla normalità qualcosa di veramente speciale. In alcuni casi risolutrice o condizione preziosa per ripartire con una nuova vita.
La figura femminile è sostanzialmente rilegata a forma di supporto morale. Keira Knightley (Orgoglio e Pregiudizio – 2005) e Robin Wright (Forrest Gump – 1994) rappresentano quel coraggio spirituale che vacilla nei propri cari. Voglia di non mollare che torna agli alpinisti in difficoltà, attraverso sogni deliranti e telefonate intercontinentali.
Il materiale a disposizione del regista e degli sceneggiatori (Simon Beaufoy, William Nicholson) era molto corposo e vasto e lasciava presagire una riuscita ben diversa da quella messa su immagini. Perché, se l’intento era quello di spiegare la montagna e le sue peculiarità, l’obbligo era quello di introdurre nella descrizione la caratterizzazione del gruppo. Povera e rilegata a comparsa come descritto in precedenza.
Uomo e natura sono indivisibili e qui paiono figli di due universi lontani lontani.
 
David Siena