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Giovedì 3 Settembre, alle ore 11, presso l’Italian Pavilion Sala Tropicana dell’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, nel corso della 72esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, si terrà la presentazione di “Il Metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma” di Chiara Nucera.
 
L'incontro verrà moderato dal giornalista Andrea Guglielmino (CinecittàNews, 8 ½ - Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano, Everyeye)
 
 
“Il metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma” è il titolo del recente volume di Chiara Nucera, edito nella collana Spaghetti Horror delle Edizioni Umanistiche Scientifiche – EUS (pp. 143 euro 16,90). La filosofia platonica e aristotelica, il teatro greco e le teorie psicanalitiche di Freud e del suo allievo Rank, il concetto di doppio e di molteplicità del reale, nella vita e nel cinema: da questi elementi e sulle loro tracce l’autrice articola un’interessante e meticolosa analisi del modo in cui tre maestri del cinema, David Cronenberg, Brian De Palma e David Lynch, strutturano un nuovo rapporto tra schermo e corpo dello spettatore, partendo da punti di vista diversi e arrivando alla formulazione di tre diversi tipi di realtà. Traendo alimento anche dalle riflessioni di Nietzsche, Bazin, Pasolini e Hitchcock, Nucera conduce un ragionamento preciso e appassionato, al termine del quale il cinema si conferma o si rivela come ” … moltitudine di specchi nei quali ci riflettiamo, di soglie varcate che ci trasportano in altre dimensioni, come quella che Alice attraversa per arrivare nel Paese delle Meraviglie … “.
Andrea Corrado per dgCinews, periodico della Direzione Generale Cinema
Responsabile di redazione Maria di Lauro
 

Ex Machina

Lunedì 03 Agosto 2015 14:27 Pubblicato in Recensioni
Caleb, giovane e brillante programmatore, vince la possibilità di trascorrere una settimana nel laboratorio del fondatore dell'azienda per la quale lavora, Nathan, un ex bambino prodigio, creatore, in tenera età, del più frequentato motore di ricerca del web e adesso impegnato in un progetto semisegreto sulle intelligenze artificiali.
Quando giunge in questa sorta di rifugio antiatomico, asettico bunker isolato nella tundra norvegese, privo di finestre e con porte che possono essere aperte a seconda del “grado di expertise”, o meglio, in base ai privilegi di cui si dispone, Caleb scopre, via via con sempre maggiore consapevolezza, di essere il soggetto prescelto per una versione rivista e corretta del test di Turing: concretamente, interagirà con una donna-macchina, la splendida Alicia Vikander, che lui sa essere tale e che, col suo sembiante ibrido, glielo ricorda continuamente, contraddetta però da un atteggiamento che è umano, o che lo sembra. Il giovane informatico manterrà la consapevolezza di stare dialogando con una donna androide oppure meccanica e vis umana, filosoficamente sempre più convergenti, si confonderanno l'una con l'altra fino alla completa inestricabilità concettuale?
Mano a mano che la storia procede, come in un gioco di specchi, diegetici e allegorici, i rapporti tra i tre (più uno) protagonisti si complicano e le intenzioni di ognuno, reali, presunte, simulate, si disvelano. Forse...
 
E' vastissima la letteratura, anche cinematografica, sugli androidi e sulle intelligenze artificiali, tanto che se Alex Garland, esordiente dietro la macchina da presa, già sceneggiatore e romanziere, avesse voluto misurarsi con una “semplice” disamina sul rapporti uomo-umanoide, avrebbe dovuto senza dubbio fare i conti con celebri precedenti, talvolta iconicamente difficili da eguagliare.
Per fortuna dunque la strada scelta è stata un'altra, non meno impervia – a ciò si possono imputare le piccole sbavature della pellicola -  ma in un certo senso inedita, senza dubbio disturbante.
Più interessato a sondare i confini etici di un supposto postumanesimo scientifico che simula, per eccesso di ybris, la mistica cristiana del creazionismo, arrivando a proclamarsi esso stesso divino, più che alla fantascienza in senso stretto, il regista imbastisce un feroce gioco al massacro, caro al teatro novecentesco. Stringe i suoi interpreti, tre, come i superstiti nella stazione orbitante che fluttua su Solaris, apparenti emblemi della tripartizione platonica dell'anima, come pure delle istanze intrapsichiche freudiane e delle Critiche kantiane, ma in realtà tanto mossi e imprendibili da simboleggiare sovente nulla più che loro stessi, meravigliosamente veri, anche quando recitano il copione di una caccia tra gatti e topi che continuamente mutano apparenza ed essenza, in una struttura asfissiante e claustrofobica, contrapposta al fuori, un altrove verde, dal respiro quasi infinito, inafferrabile nella sua interezza.
Li fa muovere e parlare, osservandoli, anche durante i blackout elettrici, come Skinner con i suoi ratti, dà loro rinforzi positivi, elargisce punizioni, ciascuno operante, ma allo stesso tempo burattino di un gioco che trascende la possibilità umana di dominio. Colui che si erge a “deus” è la vittima designata di una debolezza umanissima che si chiama solitudine, il soldatino semplice che solo lo è sempre stato – e Nathan lo sa – dopo aver temuto o sperato, con noi, di poter divenire epidermicamente affine al proprio desiderio, tenta l'emulazione su un piano strettamente razionale, soccombendo per una ingenuità nella programmazione.
Il portato di sola, autentica umanità, diviene dunque, in apparente paradosso, la macchina, l'androide, la donna, colei che, potendo essere assemblata e dissemblata a piacimento da un dio-carceriere che non riconosce e che le imputa una colpa atavica, rivendica fino in fondo il diritto alla propria libertà, di arbitrio e non soltanto. Ava/Eva sceglie la pelle che vuole essere, fonde Anima e Animus, logos e eros, parla una lingua che è emozionale, infonde la vita, non più la meccanica esistenza, a un'altra come lei, una sorta di ombra che si aggira per il laboratorio di Nathan, geisha ballerina e serviente, che solo sul finire del film nasce nella comunione col proprio simile. In una scena che è foriera di morte e di vita allo stesso tempo, costretta in un claustrofobico corridoio, fotografato di bianco accecante, che rimanda a Tarkovskij, a Kubrick, Kyoko chiede e merita una compassione finalmente umana, in una lotta coreografata come in un macabro teatro dell'assurdo. Di fronte ai suoi occhi, Winnie si disseppellisce, la Prima Donna, che sempre è stata nuda, sceglie di vestirsi per uscire nell'Eden che è stato creato per lei. Se lo riprende senza bisogno di emendare alcun peccato originale. 
Mente, simula, si adatta. 
Si pensa libera e dunque lo diviene. 
Ma gli androidi sognano pecore elettriche? No, piuttosto incroci affollati (di ombre, diverse e identiche).
 
 
A margine: un trio di spettacolari interpreti impreziosiscono l'opera di Garland, scritta con eleganza e intelligenza. Oscar Isaac è uno dei più camaleontici interpreti della nuova generazione, tra i due, al massimo tre capaci di rendersi realmente irriconoscibili da una performance all'altra. Senza l'ombra del divismo maledetto e ostentato, recita, balla, canta, brutalizza, seduce a livelli difficilissimi da trovare. Chapeau. 
 
Ilaria Mainardi
 

Una storia sbagliata

Giovedì 18 Giugno 2015 15:25 Pubblicato in Recensioni
Stefania (Isabella Ragonese) è un’infermiera pediatrica, Roberto (Francesco Scianna) un militare. Le sue continue missioni all’estero iniziano a compromettere l’armonia del loro matrimonio finché, un giorno, Roberto non torna più a casa. Qui inizia il viaggio di sua moglie.
Quel che è certo è che sotto le spoglie ambigue del film romantico, Una storia sbagliata è un film di denuncia, un film d’attualità e quindi, perché no, un film politico. Più semplicemente è una storia sul Sud del mondo, che pare avere sempre gli stessi lineamenti e gli stessi odori, nonostante la profonda frattura tra culture che rifiutano di comunicare.
Una storia sbagliata è il racconto discreto di un’epoca intossicata da conflitti universali. Muovendosi in un presente storico che invade le mura domestiche fino a deviare anche il corso naturale di una comune storia d’amore, il film scavalca i confini di genere e acquisisce un valore altro. È questo valore aggiunto che consente a Tavarelli di emanciparsi dagli standard del dramma romantico, ma soprattutto da quelli del film di guerra. 
Una storia sbagliata sfida il pregiudizio, rinuncia alle ipocrisie e mostra il dramma del nostro presente, attraverso una scrittura emotiva ma mai patetica. È un piacere trovarsi di fronte al percorso di questi anti-eroi consumati, persi, e soprattutto lontani dal patriottismo compiaciuto. Tavarelli non offre vie di fuga: né l’orgoglio di aver servito il Paese, né la fede cieca in un ideale. Roberto è folgorato da un mondo che Stefania andrà ad esplorare con rancore, senza curiosità, senza rispetto, dando vita ad un viaggio di (ri)scoperta, che però non conosce perdono.
Che sia sbagliata o meno, questa è una storia come tante, proiettata su uno scenario socio-politico internazionale. Un faccia a faccia tra più mondi che si sfiorano senza comunicare: quello di un uomo e una donna, distanti nel loro essere coppia, e quello di Gela e dell’Iraq, uniti sotto gli stessi peccati e le stesse illusioni.
Da una parte una donna spezzata e incattivita, costretta ad andare in guerra per capire cosa ha incrinato il suo matrimonio; dall’altra un uomo che non riesce più ad essere uomo, compagno e marito, perché non è altro che un soldato. E mentre nel presente Stefania parte con un bagaglio di rabbia ed egoismo, reduce del dolore folle per il suo lutto, Roberto nei ricordi confusi della loro relazione torna a casa ogni volta con un nuovo carico di traumi e ossessioni.
Così Tavarelli racconta un matrimonio a tre termini, in cui l’entusiasmo pulito di Stefania si spegne poco a poco sotto la pulsione di morte di Roberto. E intanto il fantasma della guerra inizia ad occupare un terzo posto a tavola, a togliere spazio nel letto, a sostituirsi alla possibilità di un figlio e di un futuro insieme. L’epilogo è nello sguardo di due donne, la vedova di un soldato e quella di un kamikaze: qui, per l’ultima volta, i confini tra vittima e carnefice, sacro e profano, vacillano senza soluzione. Così l’Italia entra in Iraq e porterà l’Iraq con sé, a Gela.
 
Chiara Del Zanno

Youth - La Giovinezza

Giovedì 18 Giugno 2015 14:37 Pubblicato in Recensioni
La Giovinezza di Sorrentino è la vecchiaia dello spettatore inconsapevole che si ritrova ad affrontare una simile visione. Dopo che tutto e il suo contrario è stato detto, che da Cannes l'Italia è tornata a mani vuote, ci siamo riproposti di darvi anche il nostro, un po' cinico, parere in merito.
 
Due anziani amici, Fred Ballinger (Michael Caine) e Mick Boyle (Harvey Keitel), si confrontano su le gioie e i dolori della vita. Fred rifiuta qualsiasi lavoro, da compositore di “Canzoni Semplici” per cui viene ricordato e autore di testi significativi, declina persino l’invito di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra ad esibirsi in occasione del compleanno reale. Mick vuole girare il suo ultimo film, con la sua attrice feticcio (una Jane Fonda involgarita per l'occasione) ormai divenuta sorta di felliniana musa e il suo entourage composto da intraprendenti astrusi sceneggiatori, completando così il suo definitivo testamento stilistico. Ballinger, dal canto suo, pur tenendosi ben lontano dai divismi per i quali è conosciuto,  non può  esimersi dal fare ciò che fa da una vita e continua a dirigere qualsiasi rumore possa trovare nella quotidianità di una ormai poco dinamica esistenza. Stropicciando la carta di una Rossana ne produce il  suono come fossero note, dirige un coro di mucche nel pascolo adiacente al centro benessere che lo ospita, ogni cosa, anche la più insignificante, produce accordi modulati in sequenza. La sua giovane e bella figlia Lena (Rachel Weisz) piange la perdita del suo grande amore che la cornifica con una volgare pop star (una Paloma Faith burlona nei suoi stessi panni). Ma come se non bastasse nel variegato quadro sorrentiniano trova luogo anche il dramma familiare e l'approfondimento psicanalico, quando Fred viene accusato dalla figlia di essere stato irresponsabile, mai presente, sempre e solo concentrato sulla sua musica e il suo lavoro, rapito da passioni sessuali libertine a danno della sua angelicata madre che, solo alla fine si scoprirà essere rinchiusa in una clinica per malati mentali.  Boyle, senza pace, ironizzando sulla sua prostata, cerca un suo finale, ed è forse lo specchio del regista stesso, che ammantandosi di meriti del passato non trova una chiusura degna. Così il film nel film prosegue come ciò che ci scorre davanti, aprendo e chiudendo, richiudendo e riaprendo altri tremila quadri, dilatando nel tempo ogni singolo avvenimento, anche il meno importante, conferendogli un valore che si rispecchia in tutto e per tutto nella propria specifica superficialità. Una serie di immagini che vogliono essere colme di senso ma che un senso profondo non hanno, o forse sì, ed è proprio questo che Sorrentino vuole farci credere: ogni singolo istante è determinante a tal punto che non può essere negato all'occhio ingordo e passivo dello spettatore. Ma Sorrentino non è Federico Fellini, egli si perde in uno stile non più codificato secondo dei parametri personali ma volendo forzosamente abbracciare i gusti di tutti. Il pubblico a cui deve necessariamente piacere è vasto e deve avere anche l'illusione di credersi unico e fuori dal coro, quindi un pubblico borghese, o almeno che si ritiene tale, pseudointellettuale e molto molto radical chic. Questo a nostro avviso il più grande errore commesso dal regista, la cifra stilistica che meravigliosamente aveva caratterizzato le prime opere e i suoi interpreti viene a mancare a favore del cliché di uno spettacolo prolisso, molto noioso,  con ritmi sospesi e dilatati, senza mai un vero e proprio climax. Tutto si regge, per fortuna, su dei mostri sacri come Caine e Keitel, che sempre per fortuna niente hanno a che vedere con il “Mosè” Servillo degli ultimi anni, ma che bucano lo schermo entrandoci dentro con un solo battito di ciglia. Senza loro, il baratro. Una storia senza una vera storia, una regia senza un regista che preferisca se stesso alla sua ombra mediatica, un montaggio con un montatore sotto tavor quando non latitante. Un’orgia di musica classica, pop, corpi nudi e sgraziati a bagno, gente dipinta negli stereotipi naïf: una ragazza del centro massaggi con la faccia da puttana, una puttana con evidenti problemi psichici, una miss universo che oltre ad essere perfetta e “tanta” è pure intelligente (Madalina Ghenea, la Smutandissima nel film dei “ Soliti idioti”) e il cui lato b campeggia su tutte le locandine del film, un bravo attore giovane (Paul Dano) che aspira ad un ruolo potente (quello del Mein Furer Hitler!) perché viene solo ricordato per aver interpretato un Robot con un'altra faccia, il calciatore copia di Maradona e, per finire, la spiritualità orientale tanto cool negli ultimi anni trova spazio con il monaco buddista che cerca di levitare. Ossimori viventi nel tentativo di emulare un cinema che c'è stato e non c'è più, come già si era provato con La grande bellezza. Faticoso da digerire e di risata facile in alcune battute, altre tristemente involontarie, è una riflessione sullo scorrere del tempo che non si può controllare. La vita non finisce quando lo decidiamo noi, o a volte sì come ci viene mostrato, la salute viene data a chi  vuole farla finita  e la voglia di morie, oltre che allo spettatore disincantato, a chi al contrario non smette di provare emozioni anche superata la soglia degli 80 anni. Fischiato o amato arrivare al languido finale è estenuante. Ricco di pretese è godibile per chi cerca un tipo di intrattenimento realmente senza alcuna pretesa, e soprattutto, come qualcuno diceva, con un open bar ad ingresso sala.  
 
Chiara Nucera Francesca Tulli