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Avengers: Age of Ultron

Martedì 21 Aprile 2015 21:45 Pubblicato in Recensioni
Joss Whedon torna  a dirigere il team di super eroi con super problemi della casa delle idee Marvel, questa volta al completo. Dopo il successo planetario del capitolo del 2012 “The Avengers: Assemble”, che fu il primo blockbuster a riunire tutti i protagonisti in un unico esplosivo team, con ironia e semplicità tenta un approccio più maturo sulla linea di Captain America 2: The Winter Soldier. Ancora una volta troviamo gli stessi volti: La Vedova Nera (Scarlett Johansson) la  femme fatale del gruppo, impegnata a cantare “la ninna nanna a Hulk” per renderlo efficace in battaglia e innocuo alla sua trasformazione nel Dottor Bruce Banner (Mark Ruffalo), di cui si sta inevitabilmente innamorando; Thor (Chris Hemsworth) il semi-dio del Tuono, ufficialmente in ritiro sulla terra con il consenso del “Re di Asgard”; Captain America (Chris Evans), il soldato potenziato ancora fuori dal suo tempo; Occhio di Falco (Jeremy Renner), l’arciere eroe finalmente messo in luce, e l’immancabile Tony Stark (Robert Downey Junior) alias Iron Man, tormentato dal suo mastodontico ego che prende  forma e, involontariamente, diventa “Ultron” un robotico assassino integralista nell'adempimento della sua missione di  pace. Lo SHIELD, l’organizzazione a protezione della terra, anche in questo capitolo è  tenuto in scacco dall'Hydra, l’indipendente divisione filo nazista che opera in segreto dagli anni quaranta, ne fanno parte i due fratelli gemelli potenziati Wanda (Elizabeth Olsen) e Pietro Maximoff  (Aaron Taylor-Johnson), nei comics i figli di Magneto degli X Men, “Lui è veloce, lei è inquietante” così spaventosa da poter alterare la realtà e creare incubi e visioni nella testa di chiunque sia fatto di carne e sangue. Visivamente ineccepibile, l’azione domina il film, lasciando spazio a romanticherie (discutibili) e riflessioni semplici ma efficaci. Le cose belle non sono fatte per durare, il coraggio e la forza si nascondono anche nelle persone più insicure. Nel primo film la battaglia finale si combatteva a New York, questa volta in Russia, in un paese immaginario che (orgoglio nazionale) è in verità la Valle d'Aosta, le comparse sono tutte del posto, al centro della scenografia è il riconoscibilissimo Forte di Bard. Danny Elfman mixa la colonna sonora creando un orecchiabile compromesso tra il tema musicale portante e la musica classica. Il film non è esente da tagli di girato (nei trailer c’è sempre di più) e buchi di trama, il più grosso problema del Marvel Movieverse continua a persistere, ma nel complesso è un film ironico e godibile, la strada è giusta, per comporre il puzzle che la casa delle idee ha in mente da qui al 2018. Non lasciate la sala dopo i titoli di coda e ne avrete una assaggio.  
 
Francesca Tulli

L'altra Heimat - Cronaca di un sogno

Giovedì 09 Aprile 2015 11:00 Pubblicato in Recensioni
Edgar Reitz, fra i maggiori esponenti del Nuovo Cinema Tedesco, all’età di 82 anni mette in scene la genesi della saga epocale cominciata trent’anni fa.
Il primo Heimat, presentato a Venezia nel 1984, è composto da 11 capitoli, ognuno dei quali è praticamente un film a sé, per una durata complessiva di 924 minuti. Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza conta 13 capitoli per 1532 minuti, il film più lungo della storia del cinema, mentre Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale si ferma ai 600. La trilogia, realizzata tra il 1979 e il 2006, è un monumentale affresco della Germania del Novecento, dalle macerie della Grande Guerra all’alba del nuovo millennio, visto attraverso le vicende private della famiglia Simon. L’altra Heimat – Cronaca di un sogno non è strettamente legato al ciclo, è un prequel autonomo e come tale può essere visto anche se non si conosce il resto dell’opera. 
 
Siamo nel 1843, sempre nell’immaginario villaggio di Schabbach, nell’Hunsrück, la regione dove Reitz è nato nel 1932. Qui ci vengono presentati gli antenati della famiglia Simon, artigiani sottoproletari, che, giorno dopo giorno, combattono contro la miseria e le ambizioni del figlio minore Jakob, illuminato dal sogno di abbandonare la piccola patria per fuggire in Sudamerica. Maldestro e vergognoso, Jakob passa le sue giornate immerso nei libri, a studiare lingue e idiomi degli indiani d’America. Come l’albatros di Baudelaire, è esule in terra fra gli scherni, che gli impediscono di volar via con le sue ali di gigante. Il ritorno dal fronte prussiano del fratello maggiore Gustav comprometterà gradualmente la sua smania di emancipazione.
 
La genesi della famiglia Simon è anche quella dello stesso termine “heimat”, che non ha un vero corrispettivo nelle lingue anglofone e neolatine, ma può essere tradotto con casa, patria, luogo natio. Privo del significato nazionalistico, ma con una forte connotazione melanconica, il concetto di heimat è comparso nella cultura tedesca proprio nel XIX secolo, in seguito all’esodo massiccio di popolazioni dalle aree rurali alle grandi città, con il dissolvimento dei piccoli stati in un unico nuovo stato tedesco a egemonia prussiana.
Quella raccontata da Reitz è la Germania rurale e arretrata, che sogna il nuovo mondo, “dove non c’è mai l’inverno”, ovvero, l’idillio a colori scolpito nel frammento di gemma che il taciturno Fürchtegott regala alla bella figlia Jettchen. Una Germania quindi completamente diversa da quella di oggi, florida e meta di immigrazione per eccellenza. 
 
Il tema, spiega Reitz, ospite dell'ultima edizione del Festival internazionale del film di Bari, "è naturalmente quello dell'immigrazione, il senso di dolore che c'è nel cuore delle persone che lasciano la propria terra. All'epoca eravamo un paese di emigranti, oggi siamo terra d'immigrazione".
 
Reitz rappresenta la quotidianità dei suoi protagonisti nel duro lavoro e negli affetti familiari, restituendo con realismo lo spirito e i crescenti mutamenti di un periodo storico che oggi sembra rimosso dalla memoria collettiva europea. 
Quando “eravamo noi a emigrare per cercare fortuna”, sopiti nel sogno e ancora incoscienti degli orrori che avrebbe riservato il secolo successivo.  
Il realismo della ricostruzione è quasi maniacale; le case di Schabbach sono state costruite di sana pianta, i costumi di Eshter Amuser tutti filati a mano e le fonti luminose sono state il più possibile restituite al naturale grazie all’uso delle riprese in digitale, che alternano un nitido bianco e nero e singoli elementi sporadicamente a colori (piante, fiamme, sole, sangue e denaro). 
Grande narrazione e forte impatto visivo firmati da un maestro del cinema tedesco. 
 
Angelo Santini
 

Humandroid

Giovedì 09 Aprile 2015 10:21 Pubblicato in Recensioni
Poliziotti Robot e gangster tatuati  nel  futuro prossimo immaginato dal regista sudafricano Neil Blomkamp già nel cortometraggio Tetra Vaal del 2004, ora soggetto di Chappie (in Italia Humandroid), che ripercorre i temi della fantascienza dopo District 9 e Elysium. Jhoannesburg, una città caotica dove la pace viene mantenuta grazie ai nuovi acquisti della polizia, i Robot senzienti ideati dal giovane nerd indiano Deon (Dev Patel). Inconsapevolmente il ragazzo ruba il lavoro a Vincent Moore (Hugh Jackman) creatore di macchine da guerra letali ma ingombranti, guidate a distanza da militari in carne e ossa. Stimolato dalla riuscita del suo prodotto Deon progetta nel suo garage una nuova intelligenza artificiale, una in grado di apprendere, conoscere, crescere, apprezzare l'arte e la  natura, sviluppare capacità cognitive, dipingere quadri e comporre poesie, ma al capo dipartimento della polizia Michelle Bradley (chi se non Sigourney Weaver ?) interessano solo Robot in grado di sparare quando è necessario. La pensano così anche i fuorilegge. Ninja e Yolandi  (che nella vita reale sono una coppia di rapper con gli stessi pseudonimi) sono  a capo di uno sgangherato trio di spacciatori "tamarri" finito con l'indebitarsi fino al collo con il boss più potente della città. Un solo modo per loro di sopravvivere e vincere la guerra tra bande: convertire un androide poliziotto alla loro causa trasformandolo in un gangster.
Deon in segreto prende la carcassa di un robot  da rottamare per il suo progetto ma si imbatte nei tre che lo derubano e lo spingono con la forza a farlo funzionare. La nuova creatura di metallo accende gli  occhi su un nuovo mondo. Come un bambino dall'apprendimento veloce, dice le sue prime parole, si spaventa per qualsiasi rumore, cerca e trova in Deon una figura paterna retta e consapevole, e senza pregiudizi vede in  Yolandi una "mami" , la ragazza divertita decide il suo nome "Chappie". Nessuno immagina cosa Deon abbia veramente creato. Fucili colorati, magliette kawaii e murales con il gusto giapponese, la musica pop che incontra il compositore Hans Zimmer per fondersi con il rave dirompente dei Die Antwoord (i rapper protagonisti del film) per una pellicola che oltre il rumore è una metafora sulla bellezza della diversità. Come in Frankestein, la crescita di Chappie è l' inevitabile contatto con la crudeltà nella vita di ogni bambino umano coccolato dalla famiglia nei primi anni e poi gettato in un mondo volgare dove è difficile distinguere il bene dal male, gli amici dai nemici, dove imparare una parolaccia è più facile che ascoltare un genitore. Favoletta tenera, ma mai superata in una scenografia con costumi anni ottanta alla Mad Max. Citazione di altri e di se stesso il regista fa quello che sa fare meglio: fa indignare il pubblico bigotto ancorato a cercare una spiegazione oltre le infinite possibilità e le risposte che la fantascienza può dare all'esistenza dell'anima e alla creazione della vita.Una riflessione già sfruttata da molti altri registi ma tratta con ironia e gusto.
 
Francesca Tulli
 

Wild

Giovedì 02 Aprile 2015 10:42 Pubblicato in Recensioni
Nella vita capita spesso di pensare con leggerezza di lasciare tutti e andare a vivere nel deserto. Cheryl Straied, ora scrittrice americana di successo, lo ha fatto.  La sua incredibile storia raccontata nel libro  autobiografico Wild: from lost to found on the Pacific Crest Trail, best seller in cima alla classifica del New York Times, con la regia di Jean-Marc Vallée e il beneplacito della scrittrice,  ora è un film che nel 2014 ha ottenuto ben due nomination agli oscar. Una curiosa coincidenza vuole che Cheryl  di cognome faccia “Straied” che tradotto significa “deviata” ma anche  “vagabonda”. La ragazza per sfuggire al dolore causato dalla drammatica perdita della madre, distrugge il suo matrimonio idilliaco, vivendo tra la cocaina e il sesso occasionale, perde se stessa ma non la volontà di reagire  e dopo aver toccato il fondo, cerca una via di redenzione per tornare ad essere la persona che sua madre avrebbe sempre voluto che fosse, decide di affrontare il Sentiero delle creste del Pacifico, senza una precedente esperienza di trekking. Il suo viaggio dal deserto del Mojave verso l’Oregon  è un’odissea di solitudine dove i ricordi e gli spettri del passato non la lasciano mai in pace, le cene a base di orzo freddo le scarpe strette e il peso dello zaino la mettono a durissima prova, ma non bastano a spezzare la sua determinazione a continuare né a sollevarla  dai  sensi di colpa. Per mille e cento miglia, gli incontri sul  cammino, gli animali indiscreti, il confronto con gli altri viaggiatori le citazioni di altri scrittori da lei  lasciate nelle cassette ad ogni tappa sono metafora e prova tangibile dell’esistenza di un dio, un qualunque dio, quel dio “bastardo e senza cuore” che si diverte a giocare con lei per poi sollevarla e farle ritrovare la strada “verso la bellezza”. Emblematica è la figura della madre, un esempio positivo, una donna raggiante e piena di vita, stroncata troppo presto da un tumore, è lei che le soleva ripetere “Ogni giorno c’è un alba e un tramonto e puoi decidere di guardarli e seguire la via della bellezza”. Inconsapevolmente è lei che mette Cheryl su quel sentiero, che davanti a sé abbia un deserto, un’ “altra roccia del cazzo”o la neve invalicabile, tutto fa parte di quell'unica e speciale esperienza che farà di lei una persona nuova. La fotografia è ottima, ogni panorama fa sentire la sete del deserto e la presenza della natura. Reese Witherspoon l’attrice scelta per interpretare la protagonista somiglia moltissimo alla scrittrice, le due hanno lavorato insieme in un raro caso di collaborazione riuscita senza polemiche.  Tra gli altri riconoscimenti una nomination ai Golden Globle e una ai Bafta del 2015. 
 
Francesca Tulli