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Freemont

Giovedì 27 Giugno 2024 13:28 Pubblicato in Recensioni
Donya è sola in nuovo Stato, quell’America che le ha concesso il visto per espatriare dall’Afghanistan grazie al suo lavoro di traduttrice prestato presso le sue basi militari.  
Fremont è il nome della località che ospita la comunità afghana in territorio californiano. Chiamata anche "Little Kabul" è un microcosmo chiuso che poco si integra con il resto del Paese. Donya, invece, esce da quell’angolo di mondo per recarsi tutti giorni al lavoro.
Fa l’operaia presso un’azienda cinese che produce e confeziona i celeberrimi biscotti della fortuna. Lega molto con una collega e cerca una soluzione ad un problema di insonnia che sta diventando sempre più serio prendendo il posto di un vicino con un appuntamento già fissato con uno psicoterapeuta.
Fremont è un film che già dall’uso sapiente del bianco e nero ci trasporta in un’altra dimensione. Lo fa con estremo garbo e delicatezza e ci impone più di una riflessione.  
A poco a poco conosciamo questa giovane donna così fragile ma nel contempo forte come l’acciaio e determinata a costruire una personale felicità senza necessariamente correre dietro ad una generica forma condivisa.
Si muove fra due mondi. Quello della comunità afghana che la guarda con sospetto per il suo lavoro prestato per l’esercito americano e la conseguente fuga dopo l’arrivo dei talebani ad occupare ancora la sua terra e quello della fabbrica.
Proprio qui ha un’occasione per dare una svolta al suo destino che sembra già segnato in modo indelebile compresso tra una vita solitaria e i turni lavorativi ripetitivi e monotoni. Invece la possibilità di diventare scrittrice di quei biglietti della fortuna che sono contenuti all’interno dei biscotti sarà il bivio che farà prendere alla sua giovane vita una piega del tutto inaspettata ma migliore di quello che si prefigurava.
Gli interpreti sono bravissimi a lavorare in sottrazione, a muoversi solo quanto basta, a calibrare ogni gesto e a parlare soprattutto attraverso gesti e sguardi. A farci capire cosa sta per succedere attraverso quello che osservano ma prevalentemente per come e quanto lo osservano. La regia è attenta a catturare attraverso primi piani intensi ogni minima espressione. Una costruzione perfetta di azioni e reazioni che ci conducono passo passo verso un nuovo inaspettato snodo narrativo per un finale aperto che racchiude in sé tutta la dolcezza della speranza.
 
Virna Castiglioni

Paradise is burning

Giovedì 29 Agosto 2024 13:21 Pubblicato in Recensioni
In “Paradise is burning” tre ragazzine sole si assumono compiti che sarebbero appannaggio degli adulti. La maggiore delle tre (Laura) fin troppo responsabile cerca in tutti i modi di supplire al vuoto che ha intorno come può e come pensa sia giusto fare per non far intervenire la spietata macchina dell’assistenza sociale che anche quando si muove con il solo scopo di fare del bene provoca sempre anche qualche danno collaterale.
 
La regista svedese si concentra molto sulle case. In primis quella delle tre protagoniste che è più una tana e un luogo dove rifugiarsi dall’esterno che è un posto ostile e dal quale sempre tenersi in guardia.
 
E’ interessante l’esplorazione che la sorella maggiore compie in abitazioni di estranei temporaneamente vuote dove è possibile assaporare l’intimità di un luogo che protegge, scherma, accudisce e non è solo fortino dove nascondersi per non venire braccati da chi è preposto al controllo ma con la sua azione può inevitabilmente anche compromettere quel barlume di normalità come la complicità e la vicinanza di tre sorelle costrette dalla vita a cavarsela senza genitori che sono assenti e non possono o non vogliono fare da guida ai figli che hanno messo al mondo.
 
Un altro elemento di riflessione che pone il film è l’età scelta per rappresentare le tre giovani. Laura Mira e Steffi hanno tre età di passaggio. Sono alla soglia di un varco che le vedrà abbandonare comportamenti tipici di una certa fase di crescita per abbracciarne altri più consoni ad un altro ciclo di vita. I sedici anni di Laura incarnano la voglia di libertà, il sentirsi grandi e anche responsabili per i fratelli più piccoli, investiti di potere sulle decisioni da adottare per chi ha meno anni di loro e sui quali vigilano senza potersi sottrarre per troppo tempo a questo ingrato e delicato compito. I dodici anni di Mira sono l’ultimo stadio dell’essere bambina con i capricci, la voglia sfrenata di prendere le prime decisioni in autonomia in bilico tra la voglia di giocare sempre e il desiderio di occuparsi di faccende adulte per sentirsi già grandi. Infine, la cucciola Steffi di soli sette anni, alla rincorsa delle due sorelle più grandi smaniosa di abbandonare i giochi infantili e confrontarsi con i coetanei in prove di forza e coraggio per dimostrare di essere più forte e più brava. Non è neppure casuale che la storia sia ambientata in estate, stagione per eccellenza priva di regole e dove tutto è possibile. Un tempo sospeso in attesa che qualcosa di nuovo si concretizzi. Un tempo mite prima che il freddo sopraggiunga.
 
Se il paradiso sta bruciando bisogna cercare di arrivarci in tempo per godere appieno delle meraviglie che contiene. Il film è una rincorsa a tutto quello che si può fare di proibito e di pericoloso in attesa che qualcosa avvenga.  Non sappiamo se questa libertà verrà arginata dall’intervento dell’autorità statale con un controllo che pende come una spada di Damocle sulle teste delle tre sorelle e potrebbe implicare un provvedimento drastico ma si ha la sensazione netta che si debba vivere tutto in fretta prima che lo scenario inevitabilmente cambi.
 
Le tre attrici che interpretano le tre sorelle sono affiatate e credibili in un ruolo complesso che le mette alla prova su vari aspetti continuamente. Alla prima prova registica Mika Gustafson si è aggiudicata meritatamente il premio Orizzonti alla ottantesima edizione del Festival di Venezia e si aspetta con trepidazione di venire ancora sorpresi dalla sua cinematografia così straripante di energia.  
 
Virna Castiglioni
 
 
 
 

Bosco Grande

Martedì 17 Settembre 2024 18:29 Pubblicato in Recensioni

L'obesità è una malattia che genera altre patologie. A cinquant'anni Salvatore Spatola detto "Sergione" è arrivato ad un punto di svolta o, per meglio dire, di non ritorno. Ha capito che per salvarsi deve prendere in mano la sua vita, fin troppo bistrattata, e direzionarla il più lontano possibile dal luogo nel quale l'ha condotta ma anche dal quale non l'ha mai definitivamente staccata. Scelte ma soprattutto non scelte lo hanno portato a raschiare il fondo del barile. L'ultima speranza da cogliere è una clinica specializzata in disturbi alimentari che possa aiutarlo nel processo di disintossicazione da quei comportamenti lesivi che lo hanno condotto sul ciglio di un baratro altissimo e nero. Il cibo è una dipendenza al pari di ogni altra sostanza, un bene rifugio che può diventare il male assoluto. La condotta alimentare guidata dalla voracità e dall'insaziabilità sta traghettando "Sergione" verso la morte certa.

Il film documentario prende per mano questo giovane uomo e lo segue nel suo desiderio di raggiungere una nuova vita, passo dopo passo, rinuncia dopo rinuncia. 

Un racconto corale popolato da tanti personaggi che fanno da corollario alla vita infelice di questo uomo sofferente provato dagli eccessi, che lotta contro se stesso per non soccombere. In una Palermo fatta di bellezze antiche e abusi recenti circondata da un mare limpido che è meta delle speranze umane anche per chi ha il destino più crudele e caino che si possa immaginare.

Sergio è il catalizzatore del quartiere nel quale è sempre vissuto, quel Bosco Grande che è tutto il suo piccolo asfittico mondo, un'anima buona a cui tutti vogliono bene e che cercano di aiutare in qualche modo, a loro modo, nella dura quotidianità fatta di quasi nulla.

Una corte dei miracoli che venera il suo "Dio" e tutto gli perdona e tutto gli concede anche se sa perfettamente di sbagliare registro.

"Sergione" sconta un rapporto complicato con il padre ormai defunto e la madre presenza ingombrante, legato ad entrambi da un legame viscerale e in lotta perenne per emanciparsi e riuscire a camminare finalmente senza più appoggi. Stampelle fisiche che gli servono per poter fare anche quei pochi passi quotidiani per uscire dal letto che è diventato il suo personale calvario ma soprattutto appigli psicologici che lo mantengono eterno bambino.

Una testimonianza vera e sincera di una solitudine che si fa spazio fino a fagocitare materialmente e metaforicamente tutto quello che ha intorno a sé. 

Il documentario è anche uno spaccato di una città che vive di forti contraddizioni, che è rimasta arcaica nei comportamenti, che vive prevalentemente in strada e nella strada trova i suoi codici di sopravvivenza fra tradizione e modernità.

Molto efficace la fotografia che, affilata come lama d'acciaio, restituisce il volto crudo di una tristezza ai margini, in uno spazio di naturale bellezza decadente.

 

Virna Castiglioni 

L'ultima settimana di settembre

Domenica 15 Settembre 2024 18:20 Pubblicato in Recensioni
Pietro Rinaldi è un ex scrittore di successo, un uomo solo che il giorno del suo compleanno, anche per prendersi beffa del destino, decide di togliersi la vita. I suoi nefasti piani, per fortuna, sono destinati a non trovare l'epilogo cercato. Già intorpidito dai sonniferi mischiati ad abbondante alcool viene destato dall'arrivo di alcuni poliziotti che gli notificano l'incidente stradale occorso a figlia e genero e che li ha uccisi sul colpo. Si ritrova, pertanto e suo malgrado, a dover prendere in carico l'unico nipote adolescente rimasto orfano. I rapporti fra i due sono sempre stati pressoché inesistenti tanto che il ragazzo non lo chiama neppure con l'appellativo affettuoso di nonno ma per nome, forse anche per rimarcare una certa distanza di sicurezza emotiva da quel parente estraneo. 
Pietro, diventato tristemente tutore del minore Mattia, finalmente inizia la vera conoscenza del nipote. Anche se la decisione finale sarà comunque quella di affidarlo alle cure dello zio paterno Marcello, resosi disponibile nell'immediato ad accoglierlo nella sua famiglia, da questo momento sarà tutto nuovo e diverso.  Il viaggio per raggiungere questo parente affidatario sarà per entrambi l'occasione per crescere, maturare, imparare a volersi bene come è naturale che sia fra un nonno e un nipote. Dopo questo viaggio niente sarà più come prima per entrambi. Pietro avrà imparato che la vita ha in serbo regali e gioie, che è in grado di dispensare favori fino all'ultimo respiro e che bisogna assecondare gli eventi anche quando di primo acchito ci sembrano solo forieri di dolore. Un film che parla di sentimenti genuini, di rapporto fra le generazioni, di momenti della vita diversi ma complici, la fase adolescenziale piena di dubbi e paure e quella senile che sembra essere solo un fastidio da scacciare ma che può dimostrarsi invece ricca e piena, ancora proficua per se stessi e chi ci gravita intorno.
 
Nell'interpretare questa coppia troviamo un duo attoriale che si dimostra affiatato e vincente fin dalle prime battute. Diego Abatantuono (Pietro) ci regala un ritratto di uomo apparentemente tutto d'un pezzo, burbero, poco incline a smancerie ma che riserva nel profondo un animo gentile e un cuore tenero. D'altro canto, contraltare perfetto, un giovane timido e ben educato, giudizioso e rispettoso delle figure di riferimento, viene interpretato con naturalezza da un bravo Biagio Venditti. Questo incontro di solitudini che sboccia in un legame sempre più solido ci fa riflettere sull'importanza di avere affianco qualcuno che, nella sofferenza, ci aiuti nel concreto e non solo a parole, di cui sono tutti fin troppo capaci, a non affondare nelle sabbie mobili del dispiacere. Il film è tratto dall'omonimo libro di Lorenzo Licalzi edito da Rizzoli e si rivolge con garbo ad una platea prevalentemente familiare. In questo gradevole road movie si riconosceranno sia i ragazzi che si affacciano alla vita adulta con i primi innamoramenti, le prime delusioni e la voglia di farcela come tutti a diventare autonomi e indipendenti e gli anziani alla fine della vita con un bagaglio di esperienze da condividere e con un animo predisposto ad insegnare come cavarsela in qualsiasi tranello della vita nella quale possa capitare di imbattersi.
 
Un film delicato, mai urlato o sopra le righe, credibile e generoso nel mostrare una storia triste che può essere il principio per un nuovo inizio. 
 
Un tema difficile da esplorare ma tradotto con la giusta dose di riservatezza e sensibilità. La morte di entrambi i genitori proietta con un triplo salto mortale senza rete nell'età adulta e senza avere mai tutti gli strumenti per affrontare un simile dolore, a maggior ragione se si è colpiti da questa sciagura in giovane età. Eppure, con un tono mai cupo, la regia di Gianni De Blasi, convincente alla sua prima prova registica in un lungometraggio, riesce a raccontare una storia di smarrimento infondendo, al contempo, fiducia e speranza. La presenza di qualcuno anche quando lo credevamo lontano o del quale ignoravamo totalmente l'esistenza può inaspettatamente tenerci la mano per condurci ad un nuovo approdo.
 
Virna Castiglioni