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Transformers L'Ultimo Cavaliere

Giovedì 22 Giugno 2017 22:34 Pubblicato in Recensioni
Dopo estenuanti battaglie combattute sul pianeta Terra, tornano i Transformers con la regia eplosiva dello statunitense Michael Bay. Spinto dalla sete di conoscenza il buon leader del gruppo degli Autobot, Optimus Prime si spinge verso Cybertron, il pianeta natale della sua razza. Qui viene sfidato da Quintessa, la sua creatrice, una “regina” tiranna che vuole sfruttarlo a suo vantaggio per conquistare la terra. Sul nostro “pianetucolo”, i Transformers decimati, dichiarati illegali, senza distinzione di intenti, vengono cacciati, imprigionati e massacrati. A proteggerli solo Cade Yeager (Mark Wahlberg) il suo team di sgangherati sopravvisuti e una bimba orfana con grandissime conoscenze nel campo della meccanica Izabella (Isabella Moner). Megatron (storico villain della serie) a capo dei micidiali Decepticon, presentati con tanto di nome impresso sullo schermo, come nella la migliore tradizione (lo fece anche Quentin Tarantino per Kill Bill) trama la sua vendetta. Quando la speranza di vincere sembra lontana con il peso di un’azione governativa inutile e imbecille a mettere sempre i bastoni fra le ruote (è il caso di dirlo!) la soluzione ad ogni problema risiede nella magia passato. Sir Edmund Bruton (un generoso Anthony Hopkins che non si è fermato davanti al nome del franchise), custode dei segreti che riguardano un legame mistico tra Re Artù, Merlino e i robot multifunzionali, ’convoca’ la professoressa, filosofo, pressocché ‘onnisciente’ bionda mozzafiato Vivian Wembley (Laura Haddock) nella sua dimora in Inghilterra, per rivelarle più di quanto avrebbe mai immaginato, preparato all’imminente apocalisse. Quinto film della saga, massacrato dalla critica, generalmente severa con il regista, è (come i precedenti) un blockbuster che vanta tra i migliori effetti speciali in circolazione, merito della ILM. Oltre che essere tra i pochi film sui robot sul panorama attuale. Se Pacific Rim (2013) di Guillermo del Toro omaggiava egregiamente i Robot Anime giapponesi (servendosi anche di affasciananti tecniche tradizionali) la saga dei Transformers resta fedele alle sue origini Ibride. Il brand made in USA, inventato per la linea di giocattoli Hasbro nel 1984 è stato successivamente (nello stesso anno) acquisito dalla giapponese Toei Animation per l’omonima serie di cartoni animati. Scavare nella pellicola per cercare una sceneggiatura cervellotica, è un esercizio inutile: fin dal primo capitolo del 2007, il film è stato pensato e voluto per restare “un gioco” rivolto ai ragazzi di oggi e di ieri, che nella semplicità di concetti come “il sacrificio” “l’appartenenza” e “la giustizia” possono provare empatia verso le loro controparti meccaniche. Al contrario l’incapacità del regista di gestire le mille sottotrame e le aspettative sui personaggi sono punti che pendono a suo sfavore. Sfiorato il pericolo di annoiare, con la martellante voglia di mostrare troppo, come si era fatto per “Transformers: Dark of The Moon” (2011) resta una buona esagerata fantastoria dedicata a chi ha ancora una (sana) voglia di sentirsi bambino.
 
Francesca Tulli
 

Spider-man: Homecoming

Giovedì 06 Luglio 2017 22:21 Pubblicato in Recensioni
Il giovane regista statunitense Jon Watts, alle prese con il suo primo film Marvel (prodotto dalla Sony e distribuito da Warner) si cimenta nella terza versione di Spidy al cinema. Dopo lo scontro fratricida tra gli “Eroi di New York” visto in Captain America: Civil War (2016), Peter Parker (Tom Holland) quattordicenne torna a casa (come suggerisce il titolo) dalla cara zia May nel Queens. Dopo essersi sentito indispensabile per Tony Stark (anche conosciuto come Iron Man, intramontabile Robert Downey Junior) grazie ai suoi poteri di Spider-man le sue giornate in vista di essere richiamato per una missione speciale, sembrano non finire mai. Stanco di correre dietro ai ladri di biciclette, aspetta con impazienza che si presenti per lui l’occasione giusta per farsi notare dagli Avengers. La sua monotona vita al college è divisa tra le prove per il Decathlon Accademico con l’inseparabile amico Ned (Jacob Batalon) e le figuracce collezionate nel patetico tentativo di attirare l’attenzione di Liz (Laura Harrier) la bella della scuola. Nessuno è al corrente della sua identità segreta. Nel frattempo, in possesso illegale di tecnologia aliena, trafugata dai resti dell’attacco dei Chituari (Avengers, 2012), Adrian Toomes (Michael Keaton), un ‘povero’ spazzino in cerca del riscatto sociale sostenuto da un gruppo di criminali, crea armi micidiali da vendere sul mercato nero e nelle profondità del suo covo si costruisce un’armatura alata. Destinati a scontrarsi, i due sono legati da un insospettabile epilogo. Fiumi di parole, hanno accompagnato le evoluzioni cartacee e non del’ Uomo Ragno, dalla sua creazione nel 1962, Stan Lee, padre degli eroi, l’unico che potrebbe mettere bocca riguardo gli adattamenti cinematografici delle sue creature, trova tutt’oggi che alla serie tv del 1970, mancassero i giusti effetti speciali per rendere al meglio il personaggio, lacuna che con gli anni, secondo le possibilità, ad ogni rifacimento, è stata colmata. In Homecoming, la ILM ha trattato Peter Parker come ogni altro personaggio, ‘inedito’ o ‘riadattato’ cercando il ‘nuovo’ negli effetti visivi, mantenendo le sue storiche capacità. Tutto l’impianto urla alle nuove generazioni  “dimenticatevi dei recenti ‘Amazing’ e della trilogia di Sam Raimi” ora Peter Parker ha un suo posto nel’MCU, è un personaggio “nuovo” ma non così “diverso” da come lo conoscete. L’enfant prodige fa breccia con i soli due elementi che non dovevano assolutamente mancare alla pellicola :’ironia’ e i super problemi. Il compositore Michael Giacchino riutilizza le note del tema principale, senza peccare di presunzione. Di supporto, il signor. Robert ‘Stark’ Downy Junior non mette in ombra il protagonista, permettendogli un ampio respiro durante l’azione. Iron Man smette di oscurare ogni altro personaggio dietro al suo ego. Geniali le comparse di Chris Evans nei panni del ‘Capitano Ameircano’. Solo un ritmo altalenate, tra cliché e forzature (specialmente riguardo ad un certo ‘famoso’ personaggio femminile) generano dubbi per la riuscita dei seguiti del franchise. Nel film il tutto è controbilanciato anche dalla performance di Keaton, che sembra prendersi gioco del suo ruolo in Birdman (2014). ‘Grandi responsabilità’ , per l’attuale strapotere dell’universo cinematografico della ‘Casa delle Idee’ i fili delle ragnatele non si spezzano in questo film, sperando che restino così salde anche in futuro.
 
Francesca Tulli

Wonder Woman

Giovedì 01 Giugno 2017 14:49 Pubblicato in Recensioni
Nella segreta e remota Isola di Themyscira, la principessa delle amazzoni Diana cresce addestrata a divenire una temibile guerriera, in un ambiente paradisiaco costellato da armonia e pace. Tutto a Themyscira scorre seguendo un preciso ritmo quotidiano fino a quando l’aereo del pilota americano Steve Trevor precipita a largo delle sponde dell’isola, attirando l’attenzione della giovane Diana. La principessa accorre subito in aiuto del ragazzo, salvandolo dall’annegamento. Steve racconterà presso le amazzoni di un conflitto scoppiato nel mondo esterno, una guerra brutale e inarrestabile capace di mietere vittime senza sosta, distruggendo città e villaggi. Diana convinta di poter porre fine a tal ferocia decide di abbandonare l’isola guidata da Steve.  Soltanto combattendo coraggiosamente Diana scoprirà appieno i suoi straordinari poteri, arrivando a scontrarsi con una forza oscura, la più pericolosa di tutte.  Basato sui personaggi della DC, Wonder Woman è un film diretto dalla carismatica Patty Jenkis (Monster, The killing), primo lavoro per il grande schermo sulla Superoina ideata da William Moulton Marston. Accanto alla Jenkins un team di tutto rispetto all’interno del quale spiccano nomi come Matthew Jensen Direttore della fotografia (Chronicle, Il trono di spade), la scenografa Aline Bonetto (Il favoloso mondo di Amelie) e il premio Oscar Martin Walsh (Chicago, Jack Ryan). Lunga attesa e aspettative piuttosto alte nei confronti di un film che aveva tutte le carte in regola per risultare epico e coinvolgente, e che aveva come cardine lo splendore e il magnetismo di una Gal Gadot più in forma che mai. Purtroppo come sovente accade nel cinema più recente, la prova non è stata superata. La promessa di un’avventura appetitosa per gli appassionati e non, è stata sfortunatamente disattesa.  Il film diretto da Patty Jenkins riesce a coinvolgere solamente nella prima parte, dove lo spettatore si trova immerso nel prodigioso mondo delle amazzoni. 
Dopo questa iniziale ed interessante parentesi, l’intensità e la qualità della storia iniziano a cedere il passo ad una costante mancanza di materia, o per essere più precisi, penuria di accadimenti esaltanti.  Le abbondanti (ed eccessive) due ore di film si snodano attorno a dialoghi tiepidi, personaggi con cui si empatizza troppo poco, e scontri costellati da una lunghezza temporale eccedente, che finisce coll’indebolire la già oscillante concentrazione. La Wonder Woman interpretata da Gal Gadot è incantevole, giusta e determinata, ma anch’essa non convince appieno per l’eccessiva mitezza, le manca quella dose di aggressività che bene si accompagna ad un personaggio tenace e fiero come Diana. 
Quello nelle sale dall’ 1 giugno è un film che tradirà in buona parte dei casi le aspettative degli appassionati, incapace nell’adempiere all’agognato compito di intrattenere. 
 
Giada Farrace

The Square

Lunedì 29 Maggio 2017 14:12 Pubblicato in Recensioni
The Square, in concorso al Festival di Cannes 2017, si svolge perlopiù, all’interno del Palazzo Reale di Stoccolma. Edificio ora adibito a museo di arte contemporanea, dopo la scelta della Svezia di abrogare la monarchia. Curatore della galleria è Christian (Claes Bang), padre separato con due figli al seguito. Una nuova installazione è pronta per stupire il pubblico, il suo nome è The Square. Un quadrato luminoso, all’interno del quale, vige l’altruismo e il rispetto del prossimo. Il distinto amministratore delega le pubbliche relazioni ad una stimata compagnia del settore. La pubblicità deve stupire ed attirare un pubblico di tutte le età. Qualcosa però va storto, innescando delle situazioni imbarazzanti e sregolate. Christian, messo pesantemente in discussione, vive una crisi personale colma di dubbi, che fanno vacillare il suo regolare universo.
All’interno del suo quadrato, il regista e sceneggiatore Ruben Ostlund (Forza Maggiore, 2014), ci mette davvero tutto. Supportato dalla sua distinta originalità, ci regala un sorta di cinema 2.0. La sceneggiatura è contraddistinta da innumerevoli mini sequenze con al loro interno altrettanti macro argomenti. Dispersivo? Forse un filo, ma questa sua eccessiva voglia di mettere è sinonimo di un cinema autoriale che non segue una linearità o una figura che si chiude (che contrasta volutamente con la figura geometrica del titolo), ma che vuole puntare il dito sulle incontrollabili e illogiche vite moderne. Prive di una logica densità. Ne conseguono potenti riflessioni, che rendono il film smisuratamente interessante. 
La Palma d’oro 2017 si fa beffe delle ipocrisie della borghesia, deride l’arte contemporanea, alzando, con tanto di fiero sventolio, la bandiera del politicamente scorretto fino alla cima del pennone (e forse ne avevamo veramente bisogno).
Ostlund dimostra maestria con la macchina da presa, la sua è una regia sferzante, fatta di primi piani con voci fuori piano, che costringono lo spettatore a fare focus sul volto del personaggio in questione. Uno sguardo incessante, diretto a mettere a nudo l’individuo. Privarlo della sua intimità.
Evidenti e poderosi sono anche i cambi di registro: si passa dall’esilarante al severo più cupo, come un termometro che da 30 gradi cade repentinamente a meno 20. The Square è un film che estremamente diverte e scuote, e questa forte oscillazione avviene nel tempo di pochi frames. 
Per non parlare di diverse scene che lasciano il segno, tramortiscono le menti con la loro forza devastante. 
Sarebbe un sacrilegio anche solo accennarle, lasciamo a voi il piacere di scoprirle una ad una.
 
Il regista svedese spedisce all’interno del suo cavallo di Troia un Claes Bang in grandissima forma, vero mattatore di tutta questa giostra impazzita. La sua è una recitazione sentita, formale e scombinata all’occorrenza. Argilla che si plasma perfettamente nelle mani/esigenze dell’autore. Christian è sommerso da un’ondata di incertezze. Gli errori sono all’ordine del giorno. E più cade e più non trova la strada del ritorno. Questa débacle è portata sullo schermo con ironia, via preferenziale usata dall’autore per lasciare il segno, senza appesantire.
 
Ora non resta che attendere l’uscita nelle sale italiane di quest’opera caustica e filo esistenzialista, uscita dal Festival più prestigioso al mondo con il premio più ambito. Vince lo scherno made in Svezia, che meritatamente ci connette con noi stessi.
 
David Siena