Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » News » Info
A+ R A-
Info

Info

E-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

Filmmaker Festival: ecco i vincitori

Domenica 25 Novembre 2018 13:02 Pubblicato in News
Si è chiusa ieri a Milano, l'ultima edizione di FILMMAKER FESTIVAL.
L'edizione 2018 si è svolta dal 16 al 24 novembre, presso lo Spazio Oberdan e l’Arcobaleno Film Center.
Al centro della manifestazione, come sempre, il cinema documentario e – più in generale – “di ricerca”: un’identità netta e riconoscibile che da quasi quarant’anni fa di Filmmaker, all’interno di un panorama nazionale affollato di appuntamenti, un punto di riferimento certo per chi vuole
scoprire e sostenere nuovi autori, nuove forme cinematografiche, nuove relazioni con il pubblico.
E non è un caso che tra i “nuovi” autori portati per la prima volta all’attenzione degli spettatori italiani, figurino nomi diventati col tempo degli autentici “classici”, da Ulrich Seidl a Frederick Wiseman, da Rithy Panh a Errol Morris.
Sette le sezioni in cui si è articolato il programma di quest’anno: Concorso Internazionale, Concorso Prospettive, Fuori concorso, Carta Bianca a Luca Guadagnino, Fuori formato, Filmmaker Moderns, FILMMAKER OFF cui si aggiungono i film di Apertura e Chiusura, per un totale di 82
titoli, di cui 16 in anteprima assoluta e 11 in anteprima italiana.
 
 
Di seguito l'elenco dei vincitori:
 
Concorso Internazionale
 
La giuria composta da Catherine Bizern (direttrice del festival Cinéma du Réel di Parigi), Daniele Incalcaterra (regista) e Marco Scotini (direttore Arti visive e studi curatoriali di NABA) assegna
 
Premio Filmmaker 2018 di 3mila euro a:
THE IMAGE YOU MISSED di Donal Foreman (Irlanda-USA, 2018)
The Image You Missed elegge il cinema a campo di confronto tra padre e figlio, privato e politico, rispetto e profanazione, campo e fuori campo, conflitto e conciliazione.
La Giuria apprezza l'energia, la libertà e la lucidità con cui l'autore persegue la sua impresa e riconosce in Donal Foreman un nuovo cineasta.
 
Premio della Giuria di 675 euro ciascuno a:
DE CHAQUE INSTANT di Nicolas Philibert (Francia, 2018)
ex aequo con
PREMIERES SOLITUDES di Claire Simon (Francia, 2018)
La Giuria ha deciso di premiare ex aequo De chaque instant di Nicolas Philibert e Premières solitudes di Claire Simon, due film che, scegliendo di lavorare in spazi ristretti e su segmenti generazionali ben definiti, riescono a dare conto della realtà multiculturale della società francese.
A partire dalla stessa matrice del cinema diretto, i due cineasti hanno abbracciato vie nuove, diverse tra loro e molto personali.
In De chaque instant e in Premières solitudes si riconoscono distintamente la presenza di Claire e Nicolas e il loro valore di filmmaker.
 
La giuria composta da Marco Anteli, Raymond Barion, Mal Castelnuovo, Jessica Moscaritolo, Sara Paganini, Filippo Tentori, Andrea Testa Herranz, Shuai Yin assegna
 
Premio della Giuria giovani di 1250 euro a:
WALDHEIMS WALZER di Ruth Beckermann (Austria, 2018).
Per la dimensione e lo sguardo soggettivo della regista nel raccontare una verità storica che non si riduce a semplice fatto di cronaca, ma viene indagata come responsabilità collettiva attraverso gli occhi di una sconfitta, la Giuria giovani assegna il premio al miglior film a Waldheims Walzer di Ruth Beckermann.
 
Concorso Prospettive 
 
La giuria composta dai registi Chiara Brambilla, Enrico Maisto e Riccardo Palladino assegna
 
Premio Prospettive 2018 di 1000 euro a:
BAJKONUR, TERRA di Andrea Sorini (Italia, 2018)
Un film che mette in scena una dilatazione del tempo e dello spazio con un incedere narrativo maestoso, raccontando un territorio che è finestra tra cielo e terra con uno sguardo che arriva da un altrove e in constante oscillazione tra epica e nostalgia.
Il film restituisce attraverso immagini suggestive lo splendore figurativo di un futuro che è al tempo stesso passato.
 
Premio della giuria di Prospettive 2018 di 500 euro a:
UN'ESTATE A MILANO di Demetrio Giacomelli (Italia, 2018)
Un autore che conferma una visione personale e solida all'interno di un percorso di ricerca che, partendo da una dimensione narrativa, spinge le forme verso il loro limite con audacia e libertà. Un desiderio filmico che avvicina, in un confronto straniante, echi lontani di tragedie del nostro tempo ad una quotidianità intimistica e malinconica.
 
Una menzione speciale del concorso prospettive va a:
XX SETTEMBRE di Camilla Salvatore (Italia, 2018)
Una riflessione consapevole che conduce dolcemente a scavare e riscattare immagini e passato, attraverso una costruzione retrospettiva su ciò che rimane della vita, con un approccio stilistico che alterna sapientemente formati, supporti e temporalità.
 
Premio Movie People per il miglior contributo tecnico
 
La giuria composta dai registi Chiara Brambilla, Enrico Maisto e Riccardo Palladino assegna 
 
Premio Movie People per il miglior contributo tecnico (10.000 euro in servizi tecnici offerti da Movie People) a:
DE SANCTO AMBROSIO di Antonio Di Biase (Italia, 2018)
Lo sguardo delicato di un Santo che si posa sulle vicende di un'umanità raccolta ai suoi piedi. Un susseguirsi di quadri che incanta, custodendo il segreto di giochi, affanni e preghiere. Poesia che diventa immagine.
 
 
I Premi del MID - Milano Industry Days 
Per il quarto anno consecutivo, Milano Film Network (MFN) ha rinnovato le sue giornate professionali rivolte al mondo del cinema italiano indipendente. Due giorni di presentazioni (mercoledì 21 e giovedì 22 novembre) di progetti e di copie lavoro di film in lavorazione e networking professionali in cui sono stati presentati i finalisti dei progetti di film  in sviluppo del workshop In Progress MFN e del fondo di sostengo ai film in post produzione di L’Atelier MFN.
 
 
Filmmaker è sostenuto da Comune di Milano, Regione Lombardia, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con la collaborazione di Fondazione Cariplo, Forum Austriaco di Cultura, Goethe-Institut Mailand, Institut français Milano.
 
Maggiori dettagli consultando www.filmmakerfest.com
 

U-July 22

Mercoledì 21 Febbraio 2018 12:42 Pubblicato in Recensioni
Sinceramente non ci si aspettava una tale cannonata, in tutti i sensi, dal film di Erik Poppe. Pugno allo stomaco alle 9 del mattino, che risveglia senza tanti fronzoli la paura del terrore, che troppo volte pensiamo possa riguardare solo gli altri, dando per scontato che il nostro universo sia protetto da chissà quale entità superiore. Utøya –July 22 ci impone di non sottovalutare. L’inferno è più vero di qualsiasi idealizzato paradiso. Il regista norvegese che portò nel 2017, nella sezione Panorama qui alla Berlinale, lo storico The King’s Choice, quest’anno vede il suo U- July 22 concorrere per l’Orso d’Oro. Una pellicola a dir poco micidiale, che racconta del massacro di Utøya in Norvegia il 22 Luglio 2011; lo stesso giorno della bomba alla sede del Governo norvegese. Kaja (Andrea Berntzen), diciannovenne in vacanza con amici, è il boccino di tutta la vicenda, che cerca la via d’uscita in un labirinto colmo di orrore e ansia.
 
Per essere più precisi i fatti si svolgono su un’isola davanti ad Oslo. Il campeggio estivo è molto in uso nei paesi nordici e sull’isola di Utøya si trova l’accampamento organizzato dal partito laburista. E’ mattina e l’intero gruppo di adolescenti si sta preparando per una giornata all’insegna di escursioni e svago. Il risveglio non è dei migliori, visto che si apprende subito delle bombe scoppiate presso il Governo. Dopo le telefonate di rito a genitori e parenti la calma si fa strada tra i giovani, che si sentono protetti visto anche il mare che li separa dalla capitale. Ma degli spari, che provengono dal bosco, interrompono la ritrovata quiete. In un primo momento si pensa ad una esercitazione. Il panico arriva a dosi massicce quando si capisce che siamo in presenza di uno squilibrato con fucile, che sta uccidendo senza pietà chi gli capita davanti. Kaja è la protagonista che cerca di mettere in salvo la sorella minore, ma soprattutto è l’occhio del regista, che tramite la ragazzina ci fa rivivere le angoscianti situazioni, che vive l’intera giovane comunità. 
 
Poppe parla diretto allo spettatore, lo porta dentro al massacro, in piena zona di guerra. Con la potenza verista delle immagini e grazie al piano sequenza in tempo reale, che dura esattamente quanto l’intera operazione del folle terrorista, rende vividi gli stati d’animo dei ragazzi. E’ estremamente consapevole del suo girato e lo dimostra non lasciando nulla al caso. Il suo è un virtuosismo bello e buono, ma non fine a se stesso. La paura, la disperazione e l’oppressione rivivono senza filtri e lo stress che invade il pubblico diventa parte stessa della narrazione. Si perché si entra in quei maledetti boschi e la discesa all’inferno è purtroppo senza ritorno.
U -July 22 ricorda Elephant di Gus Van Sant, Palma d’Oro 2003 al Festival di Cannes. Lì però i punti di vista erano diversi. Gli avvenimenti narrati erano visti non da una sola persona, ma da più protagonisti. Ma il senso di impotenza è il medesimo.
 
C’è anche un altro aspetto che ha farà molto discutere: la dura frecciata verso chi comandava all’epoca dei tragici eventi. La pellicola di Poppe è assolutamente un’aspra critica verso le istituzioni, non preparate e smarrite. Ci volle un’ora e mezza per intravedere i primi soccorsi. Questo non trascurabile sotto testo etichetta U-July 22 come film politico. Biglietto da visita forse non troppo gradito in previsione dei premi, ma se ci concentriamo unicamente sul valore assoluto del film, della politica non c’è più traccia. Indimenticabile.
 
David Siena

Eva

Domenica 25 Febbraio 2018 12:36 Pubblicato in Recensioni
Ci ha preso gusto Isabelle Huppert a scegliere ruoli da femme fatale. L’ultimo, per intenderci quello in Elle di Paul Verhoeven, gli aveva procurato una meritata candidatura agli Oscar 2017. Allora perché non riprovarci. Il progetto di Benoît Jacquot però, senza minimizzare le doti di seduttrice dell’attrice francese, meritava un’ammaliatrice (Eva che dà il titolo al film) più junior e più improntata a trasudare carnalità. E’ probabile che fin già dal casting, anche il Bertrand Valade di Gaspard Ulliel (E’ solo la fine del mondo – 2016) è troppo imbambolato e sinceramente fuori parte, il film si porti dietro dei deficit non recuperabili. E se il buongiorno si vede dal mattino, qui siamo di fronte ad un far del giorno dai tratti chiaramente temporaleschi. Burrasca nella quale si trova per tangibili colpe il regista/sceneggiatore Benoît Jacquot (dell’autore si ricorda il recente e non esaltante Tre Cuori, in concorso a Venezia 2014). La sua Eva richiedeva una drammaturgia spinta verso l’ambiguità, con subdoli slanci verso l’immoralità. Questo è alla base del romanzo di James Hadley Chase del 1945. In Eva troviamo solo i tratti distintivi del noir (e neanche troppo riusciti). Le linee guida all’interno della narrazione sono sbilanciate, ahimè, verso aspetti psicologici spicci, che non offrono veri punti di riferimento. Basandosi su queste personalità (per intenderci quelle dei due protagonisti sopra citati), alle quali viene affibbiata solo debolezza e nessuna particolare dote narrativa, non si riesce mai a chiudere un cerchio. Tutto abbozzato e mai veramente concretizzato. La fascinazione non sale mai e qui dovrebbe essere la madre di tutto. 
 
Eva è in concorso alla Berlinale edizione 68. Il film aveva avuto una prima trasposizione nel lontano 1962 diretta da Joseph Losey, con la nostra splendida Virna Lisi. Il ruolo di Eva fu affidato a Jeanne Moreau e quello del malcapitato Bertrand Valade a Stanley Baker. Il film di Losey ottenne una critica positiva; la versione 2018, come già accennato sopra, risulta la brutta copia della pellicola del 1962. La bocciatura non è completamente categorica solo perché la storia riesce a trasmettere curiosità nello spettatore. Peccato perché il regista fa di tutto per far perdere questo appeal.
 
Le intriganti vicende scaturite in immagini vedono un aitante giovanotto, che di nome fa Bertrand, alle prese con il sogno di una vita: diventare un famoso scrittore, in modo da potersi garantire un futuro prosperoso e di successo. L’occasione rende l’uomo ladro e quando Bertrand si trova tra le mani un inedito manoscritto di uno stimato romanziere morto davanti a suoi occhi per cause naturali, non esita a farlo diventare suo. La fama e la gloria arrivano copiose. Ora deve mantenere questo livello qualitativo di scrittura e non sa proprio come farlo. Improvvisamente entra nella sua vita Eva, Escort d’alta società. Il giovane ne rimane stregato e decide di conquistarla ad ogni costo. Userà questa sua torbida liaison come base del suo prossimo romanzo. Ma non ha fatto i conti con Eva, per nulla propensa a concedersi senza riserve. Bertrand entra così in un vortice di tentazione e bramosia, che mette a rischio il suo fidanzamento con l’innocente e pura Caroline (Julia Roy). Il suo editore aspetta con ansia il nuovo libro, da tutti preannunciato come l’ennesimo capolavoro. Malauguratamente l’immaturo Bertrand diventa lui succube del gioco di Eva. Cede così tutto se stesso ed entra, senza ritorno, in un artificio oscuro fitto di falsità ed inganni.
 
La storia è stuzzicante, ma qui proprio non ci siamo. Il film del regista francese a tratti sembra un telenovela impazzita. Protagonisti troppo finti, che non sembrano esseri appartenenti alla società descritta. Confinati in un limbo tragicomico, che non ha ragione di essere per un film del genere. 
 
David Siena
 

Black 47

Sabato 24 Febbraio 2018 12:29 Pubblicato in Recensioni
Black 47 racconta, senza tanti fronzoli, della “Grande fame” che attanagliò l’Irlanda a metà del diciannovesimo secolo. La terra del trifoglio è stata sfruttata nei secoli soprattutto dalla tirannia britannica, che nel 1847 (anno che dà il titolo al film), contribuii con brutale vigore a rendere quell’anno uno tra i più neri della storia irlandese. Le vicende della pellicola diretta da Lance Daly sono focalizzate sull’inverno, il periodo più rigido, dove la drammaticità degli eventi tocca il suo apice. Stagione in cui fa il suo ritorno a Connemare il soldato Michael Feeney (James Frecheville). Il reduce, che si è fatto valere in difesa dell’esercito inglese, non vede l’ora di riabbracciare la sua famiglia. Ma a casa lo aspetta una brutta sorpresa. I suoi cari, la madre ed il fratello, sono periti in situazioni misere. E anche la moglie Ellie (Sarah Greene) ed i figli sono in condizioni disperate. Di lì a poco non avranno più un tetto sotto il quale proteggersi, in quanto cacciati dalla proprio baracca, moriranno assiderati senza alcuna pietà. Ora il sogno di Fenney, portare la sua famiglia in America alla ricerca di benessere, si infrange contro la Union Jack, che ha difeso con onore. In questo clima rabbioso, dove non solo la sua famiglia è scomparsa, ma anche tutto il suo popolo arranca gravemente (morirono un milione di irlandesi), Fenney impugna una violenta vendetta senza esclusione di colpi contro gli usurpatori inglesi. Ne nasce un revenge movie in salsa western, con luci ed ombre, che ha il pregio di sviscerare una storia mai raccontata. Black 47 è anche un viaggio nella coscienza di Hannah (Hugo Weaving), mutevole carnefice che riflette sull’importanza di chiamarsi uomo in difesa del giusto, nel suo significato più profondo.
 
Irlandese fino al midollo (in parte in lingua gaelica), il film del regista Lance Daly, presentato fuori concorso al Festival di Berlino 2018, ha nel suo DNA il coraggio di Braveheart e la sete di punizione del Giustiziere della notte. A parte la storia inedita, il resto è già tutto visto. Rimane comunque un discreto lavoro, che alterna fasi da film televisivo a momenti più dinamici (seconda parte) e indiscutibilmente più riusciti. Qui la regia esce dal proprio imbambolamento e regala una drammaticità più vera e genuina. Scene contraddistinte dalla ribellione, ritmate e dalla forte intensità che scuotono e ravvivano l’appeal verso il film, indirizzando così la drammaturgia in acque ad essa più famigliari. Anche il finale aperto, con una più ampia visione sulle intenzioni, riesce a conferire alla pellicola un inaspettato valore aggiunto. Peccato che in precedenza l’autore cada nella trappola manierista di mettere in vetrina la morte di Ellie con il figlioletto in braccio come se fosse la marmorea Pietà di Michelangelo. Sentiero virtuoso troppo fine a se stesso. 
 
Da segnalare un’ottima fotografia che esalta gli splendidi paesaggi irlandesi. Le luce desaturata si accomoda perfettamente anche al senso di povertà, che impera in tutto il film. Anche il casting è azzeccato. Il volto assente di James Frecheville e il suo ferreo mutismo conferiscono a Fenney l’appropriato grado di drammaticità. Rabbia e amarezza non potevano trovare miglior modo di esprimersi. Anche la trasformazione e la consapevolezza del cattivo Hannah, intensamente incarnate da Hugo Weaving, fanno fare un saltino di qualità al film.
Comparsate che lasciano un’impronta deboluccia sono quelle di due stimati attori come: Jim Broadbent e Stephen Rea.
 
In Black 47 la strada della giustizia era un sentiero sconnesso ed oscuro, l’unica via d’uscita si chiamava America.  
 
David Siena