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Sick of Myself

Domenica 24 Settembre 2023 15:14 Pubblicato in Recensioni
Fino a che punto ci si può spingere per ottenere attenzione ed essere considerati dagli altri come noi vorremmo ma soprattutto come riteniamo sia giusto per la nostra storia e il nostro vissuto? “Sick of myself”, nuovo lungometraggio del regista norvegese Kristoffer Borgli, presentato nella sezione “Un certain Regard” al Festival di Cannes del 2022 affronta questa tematica e lo fa in modo irriverente e politicamente scorretto. Thomas e Signe sono una giovane coppia in cerca della propria strada nel mondo. Per farlo sono disposti a tutto. Signe anche a rimetterci la salute. Attraverso tentativi maldestri, strategie balzane, si arriva sempre ad esiti grotteschi e per nulla edificanti. Il loro imperativo categorico è quello di spingersi sempre oltre e soprattutto cercare di colpire l’attenzione degli altri per avere riconoscimenti e sentirsi vincenti in una società che ha sempre più bisogno di inclusività e di storie forti da gettare in pasto all’opinione pubblica.
 
In una personale e strampalata scala di valori entrambi cercano in tutti i modi di far parlare di sé, non importa con quali e quanti mezzi, soprattutto se illeciti e proibiti dalla morale comune. Il fine giustifica i mezzi sempre e comunque per questa coppia di drogati di consenso. Non importa, quindi, se per avere una casa con complementi d’arredo di designer famosi e più in auge l’unica soluzione sia quella di derubare negozi, allestimenti, eventi ai quali ci si imbuca esclusivamente per compiere queste infantili scorribande. Nello stesso modo ogni mezzo è consentito per appropriarsi di bottiglie costose di vino che verranno poi offerte alla cerchia di amici vantandosi dell’impresa compiuta come se si trattasse di una bella azione di cui andare fieri. Un film che incastra come un puzzle vari generi (body horror, grottesco, drammatico, black comedy) per indagare un tema complesso e sempre più urgente nella società attuale dove la forma sembra aver soppiantato la sostanza e dove basta diventare vittime di qualcosa per ottenere consenso e approvazione.  Un gioco pericoloso che spinge chi non è sano ed equilibrato a percorrere un crinale di deriva morale che non ha freni inibitori e conduce sempre ad esiti infausti.
 
La protagonista, interpretata da una superlativa Kristine Kujath Thorp, muta in continuazione atteggiamento, assecondando gli eventi che si manifestano per trarne vantaggio o semplicemente per evitare che il castello di bugie costruito con meticolosa cura crolli all’improvviso schiacciandola sotto il peso delle sue atroci responsabilità.
 
In una escalation che sembra non aver mai fine si assiste ad un peggioramento fisico voluto, cercato con acribia e nascosto con tenacia il più a lungo possibile. Un atto autolesionistico che non teme le conseguenze perché il fine che si prefigge nella mente disturbata di chi lo pone in atto risulta essere più appetibile della vita stessa, che non sembra degna di essere vissuta se non lo è sotto i riflettori e alla mercè di tutti. Una ricerca spasmodica di successo e visibilità che non è avvalorata dal minimo contenuto.
 
Attraverso la trasformazione fisica della protagonista femminile, resa verosimile da un trucco speciale di pregevole fattura, il regista ci ricorda che non basta cercare di ingannare gli altri per avere un ritorno positivo perché si finisce sempre e solo per ingannare se stessi ottenendo in cambio di sopportarne le conseguenze deleterie per il resto dei propri giorni.
 
Un film che esaspera i toni, dalle dinamiche estreme, assurdo, al limite della credibilità ma che instilla nello spettatore il dubbio che la realtà non sia poi così tanto lontana e basti poco perché questa ricerca affannosa di approvazione costante diventi l’unico scopo di vita e scavalchi sentimenti e progetti fino ad arrivare a mettere a rischio la propria incolumità.
 
Un aspetto che sembra essere centrale all’inizio della pellicola ma che piano piano si eclissa per lasciare posto quasi soltanto alla malattia fisica della protagonista che fagocita tutto il resto è la dinamica di coppia. Avrebbe meritato uno sviluppo maggiore e un approfondimento che invece rimane un po' a latere di tutta la vicenda dando, a tratti, l'impressione che il racconto deragli per la tangente.
 
Virna Castiglioni

Dopo il grande successo dell’anteprima tenutasi il 7 Settembre 2023 presso la multisala UCI Cinemas – Porta di Roma con regista e cast presenti in sala, arriva sul grande schermo Phobia, lungometraggio d’esordio di Antonio Abbate.

Una cena di famiglia, un segreto oscuro, un passato che la rincorre. Per Chiara è giunto il momento di affrontare tutto ciò da cui scappava. In un gioco che confonde ciò che è reale da ciò che non lo è, chi sta nascondendo una terribile verità?

 

Su soggetto e sceneggiatura di Giacomo Ferraiuolo Michele StefanilePhobia vede protagonista la popolarissima Jenny De Nucci, la cui già corposa filmografia include Ancora più bello e Sempre più bello di Claudio NorzaRagazzaccio di Paolo RuffiniPrima di andare via di Massimo Cappelli Lo sposo indeciso di Giorgio Amato, oltre alle serie televisive Un passo dal cielo Don Matteo.

 

La affiancano all’interno del ricco cast Federica de Benedettis (Forever young), Eugenio Papalia (Chi m’ha visto), Beatrice Schiaffino (Do Ut Des), Francesca Romana De Martini (Vallanzasca – Gli angeli del male) e Federico Tocci (Suburra – La serie), con la partecipazione di Antonio Catania (Mediterraneo) in un ruolo dalle sfumature horror decisamente inedito per lui.

Chiara (De Nucci) torna dopo molti anni al casale di famiglia insieme all'amica Michela (Schiaffino). Un oscuro incidente l'aveva spinta ad andare via, ma ora i vecchi rancori sembrano finalmente superati. Durante la notte, però, Michela scompare. Chiara chiede aiuto alla sua famiglia: “Chi è Michela?”, le rispondono. La ragazza aveva cenato con loro, eppure tutti dicono di non averla mai vista, Chiara è l'unica a ricordarsi di lei…

Per la prima volta, dunque, la giovane attrice dai milioni di follower sui social si cimenta in un ruolo nell’ambito del genere thriller, tra suspense e colpi di scena destinati a condurre verso un’inaspettata rivelazione finale all’interno di un’operazione a proposito di cui il regista dichiara: “Nonostante i modelli di riferimento di Phobia siano quelli di un cinema thriller di qualche decennio fa, l’obiettivo del film è declinare il genere attraverso una tematica molto attuale e discussa come quella della salute mentale. Un altro proposito importante era evitare l'archetipo cinematografico della ‘scream queen’ o, più in generale, della donna che deve essere salvata, per rifarsi invece a modelli più moderni e tridimensionali”.

Marco Gaudenzi Pierpaolo Marcelli presentano Phobia, una produzione Undicidue3 distribuita nelle sale cinematografiche da Flat Parioli a partire dal 12 Ottobre 2023.

Felicita'

Domenica 17 Settembre 2023 17:16 Pubblicato in Recensioni

Felicità è un miraggio, un’aspirazione, una chimera, un obiettivo, un traguardo ma ha così tante facce e si sposta con fulminea velocità che non è facile individuare cosa sia e nemmeno afferrarla per tenerla con sé il più a lungo possibile.

Desiré è una acconciatrice che lavora come assistente sui set cinematografici e ha alle spalle una vita difficile all’interno della famiglia problematica e disfunzionale che le è toccata in sorte.

Non ha mai ricevuto incoraggiamenti e supporto ma anzi viene ritenuta da entrambi i genitori una donna stupida che ha solo la dote di essere una lavoratrice indefessa che risparmia il più possibile e alla quale poter chiedere soldi, senza alcuna remora o imbarazzo, ogni qual volta capiti qualcosa a cui far fronte.

Desiré non ha altre aspirazioni che quella di essere felice accanto agli affetti più cari. Vive una storia d’amore con un professore più grande di lei ma è solo apparenza, un castello di carte troppo fragile.

Micaela Ramazzotti, anche regista di questo lungometraggio, si ritaglia e cuce addosso un personaggio perfettamente nelle sue corde, la sua Desirè (con l’accento) ha molteplici sfaccettature e ognuna di queste è messa in luce da una interpretazione senza sbavature, sempre centrata, mai sopra le righe. Micaela dona al suo personaggio tutto quello che le serve per essere funzionale al racconto e per far sì che lo spettatore si immedesimi con questa donna bella, gentile, generosa e disponibile con tutti nonostante riceva solo umiliazioni, angherie, molestie e sia costantemente manipolata da chi dovrebbe invece proteggerla e amarla.

L’unico affetto sincero e puro risiede nel rapporto con Claudio, il fratello minore rimasto a vivere con i genitori e in preda a crisi depressive violente che gli impediscono di ribellarsi all’amore soffocante dei genitori, che lo trattano come un minorato impedendogli di emanciparsi e spiccare il volo da quel nido così opprimente. Micaela Ramazzotti ci racconta un microcosmo familiare ristretto e asfittico fatto di piccoli soprusi perpetrati da genitori gretti che non sanno donare amore nel modo giusto ma costringono i figli ad accettare situazioni scomode e anche pericolose pur di scansare problemi e vivere egoisticamente le loro giornate fatte di niente.

La madre (una perfetta Anna Galiena) rancorosa della carriera della figlia che, a parer suo, ha contribuito a creare, le recrimina anche di essere uscita dal nucleo familiare troppo presto lasciandola sola mentre il padre (un Max Tortora che ci regala una performance molto colorita) si crede uno show-man incompreso e insegue sogni di gloria nelle piccole tv private accettando anche di scendere a squallidi compromessi sessuali pur di avere uno spazio tutto suo. In questo contesto la figura di Desiré appare un angelo biondo tra demoni neri e, sebbene porti sulle spalle tanti e troppi dolori, non perde mai la sua ingenua e infantile bontà e la sua generosa disponibilità che le consentono di intervenire sempre in maniera forte e decisa per salvare chi ama. Non si arrende e ne avrebbe tutte le ragioni ma, come una leonessa, travestita da pulcino bagnato, cerca di difendere chi non può farlo da solo.

L’unica pecca del film è il trascinamento di un finale che avrebbe potuto arrivare prima e invece, come se tutto il marcio che si è visto non fosse ancora sufficiente, si scava ancora più nel profondo come a voler dire che i dolori vanno vissuti tutti fino in fondo senza sconti e solo alla fine, forse, si ha diritto ad avere un premio per gli sforzi fatti.

Il congedo, finalmente, è rassicurante. Lasciamo Desirè sempre scarmigliata e trafelata eppure bellissima mentre il suo specchio è un fratello che invece appare guarito e in procinto di affrontare da solo il mondo esterno. I meravigliosi occhi di ghiaccio di Claudio (intepretato dal bravo Matteo Olivetti) non sono più vuoti ma finalmente vividi, il suo sorriso è ora spontaneo e non più acceso dietro comando, i capelli non son più quelli acconciati secondo il gusto della madre e tutto acquista il sapore di un riscatto e di un nuovo inizio che lo spettatore si augura sia duraturo e fulgido per entrambi.

Micaela Ramazzotti confeziona un ritratto impietoso di una famiglia meschina, indagando anche il tema delicato della malattia mentale, calando il tutto in un contesto periferico ricostruito negli scenari, nei costumi e nell'uso del parlato in modo dettagliato.
Si avvale della bella fotografia di Luca Bigazzi, del montaggio efficace di Jacopo Quadri che rende tutto fluido e scorrevole e una colonna sonora confezionata da Carlo Virzì che sottolinea sia le parti più cupe e tensive che quelle più leggere e grottesche in modo puntuale.
Una prima prova registica che viene superata a pieni voti. Presentato nella sezione Orizzonti Extra all' ultima edizione del Festival di Venezia ha vinto meritatamente il premio degli spettatori Armani beauty.

Virna Castiglioni

Assassinio a Venezia

Giovedì 14 Settembre 2023 17:05 Pubblicato in Recensioni

C’è una frase pronunciata da Poirot poco prima della fine di Assassinio a Venezia che racchiude l’essenza del film, toccando nel profondo tutti gli spettatori. E’ un invito a non fuggire, a non rifiutare i propri fantasmi interiori, ma ad accettarli senza remore. Soltanto in questo modo l’essere umano riesce ad oltrepassare i momenti di paura e smarrimento, ritrovando la fiducia in sé stesso. Per una mente illuminata e razionale come quella di Hercule Poirot si tratta di una presa di posizione molto audace, quasi ascetica, capace di sintetizzare bene gli intenti di questo terzo capitolo dedicato all’investigatore più acuto di sempre, firmato ancora una volta dalla raffinatezza stilistica di Kenneth Branagh. Venezia, vigilia di Ognissanti, la città inizia a prepararsi per celebrare la macabra festa di Halloween. Poirot, ormai ritiratosi dalla scena investigativa, vive le sue giornate di pensionamento evitando ogni genere di contatto con il prossimo. Sebbene la sua presenza a Venezia sia motivo di grande curiosità e continue richieste d’aiuto, le pressioni esterne vengono tempestivamente contrastate dalla brutalità quanto mai fisica della sua fedele guardia del corpo (interpretata da un inedito Riccardo Scamarcio). Tutto sembra scorrere su binari imperturbabili, quando un giorno a casa di Poirot irrompe una vecchia amica Ariadne Oliver (interpretata da una strepitosissima Tina Fey), divenuta una celebre scrittrice di gialli, la quale tenta in ogni modo di convincere Poirot ad assistere ad una seduta spiritica che avverrà proprio quella sera stessa, nella funesta dimora di una vecchia gloria della lirica, Rowena Drake (Kelly Reilly). Nonostante la caparbia riluttanza, Hercule alla fine cederà il passo alla curiosità nonché alla volontà di smascherare qualche impostore. Ma durante la sessione avviene un tragico evento: una persona viene uccisa in modo macabro e sanguinoso. Soltanto l’infallibile intuito di Poirot potrà rimettere al loro posto i tasselli di un puzzle lugubre che trascinerà nelle nebbie della paura anche una mente razionale come la sua. Siamo piuttosto lontani dalle atmosfere sfarzose e un po’ pacchiane del precedente Assassinio sul Nilo, di cui forse ricordiamo ben poco se non un modesto tentativo d’indagine popolato da personaggi troppo epidermici e privi di fascino. Branagh ora decide di spiazzare tutti, raccontando una storia che originariamente ha ben poco a vedere con spiriti e terrore. Infatti, sebbene il film rientri nel genere investigativo con un’impronta horror molto radicata, il libro a cui si ispira invece, Poirot e la strage degli Innocenti scritto nel 1969,ricalca il classico schema del giallo senza alcun tipo di cenno all’universo del soprannaturale. Il regista quindi si ispira liberamente all’opera della Christie, realizzando volutamente un capitolo differente da tutti gli altri, capace di distinguersi non solo per il genere scelto, ma soprattutto per il fascino di una narrazione impeccabile e a più livelli. Partendo da quel sentimento angosciante che alberga chiaramente nell’animo di tutti i protagonisti della storia, ci si immerge in un ambiente oscuro, ambiguo e spettrale circondato dal violento fragore delle onde di un mare nero come il buio degli interni. La fotografia in questo senso restituisce un quadro perfetto di analogie cromatiche e spirituali: le fitte tenebre degli ambienti interni sembrano rincorrere uno ad uno i volti degli astanti, finendo spesso per abbracciarli fatalmente. L’entusiasmo di Branagh si percepisce da tanti piccoli dettagli appassionati, come alcuni magnifici esercizi di stile quali angolazioni distorte, fish-eye e quei claustrofobici piani inclinati dal basso e dall’alto volti ad intensificare l’effetto conturbante. Detto questo, siamo di fronte ad un film che va visto al cinema per godere appieno del suo impatto sia sul piano stilistico sia su quello più emozionale. Kenneth Branagh si riconferma un ottimo regista oltre che un brillante interprete, squisitamente legato ad un personaggio che indossa meglio di un cappotto e che difficilmente abbandonerà.

 

Giada Farrace