Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » Interviste » Info
A+ R A-
Info

Info

E-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

N-Capace

Sabato 29 Novembre 2014 21:22 Pubblicato in Recensioni
Esterno giorno. Spiaggia. Eleonora Danco indossa un pigiama bianco. Impertinente e lagnosa come una bimba che aspetta con ansia il corso della digestione per tornare a fare il bagno. Poco più in là sua madre bardata di nero è in piedi sotto l’ombrellone. Una figura autoritaria ingenuamente minacciosa e ingombrante, come solo l’amore di una madre sa essere. 
 
Nella ricerca personale di un contatto con la madre morta, l’autrice e regista teatrale Eleonora Danco cerca di attingere da diversi sottosuoli umani per smentire o confermare sé stessa. Dalla natia Terracina a Ostia, passando per Tor Bella Monaca e San Lorenzo, intervista giovani o giovanissimi e anziani o anzianissimi, escludendo volontariamente la generazione di mezzo – la sua.
“Mi interessava lavorare sul vuoto” spiega la Danco “nel senso che sia i ragazzi che gli anziani non sono produttivi: i primi non ancora, i secondi hanno già dato. Noi invece siamo ancora dentro al vortice del fare, del realizzare, delle bollette”
Le indagini di Eleonora Danco ricordano in parte il viaggio pasoliniano di Comizi d’amore. In N-Capace però l’inchiesta paragiornalistica lascia spazio all’intimismo dell’autrice, che si mette letteralmente a nudo nel suo percorso per svegliarsi dal dolce sonno esistenziale.
L’uso extra-quotidiano che fa del suo corpo è spesso al centro di visioni contrappuntistiche, come il letto sfatto sulla banchina di una stazione ferroviaria o il bagno nella vasca piena di biscotti Gentilini.
Si ritaglia un personaggio, battezzato ironicamente Anima in pena, con indosso quasi sempre lo stesso pigiama bianco della scena iniziale; un po’ per rimarcare il tepore della sua condizione di immobilità e, allo stesso tempo, una neutralità nei confronti delle testimonianze raccolte nel suo viaggio.
Tra i molti intervistati c’è anche suo padre. L’uomo intimidisce, soprattutto di fronte alle domande sul sesso. Borbotta. Si rifiuta di rispondere. 
Ma quanto sono cambiate le abitudini sessuali negli ultimi 40 anni? 
Gli anziani della Danco potrebbero essere stati quei giovani intervistati da Pasolini nel ’65. Nonnine reduci da un passato patriarcale accettato passivamente (perché ai tempi era così) e autentici geni nazionalpopolari ingenuamente comici attingono dalla memoria del tempo perduto e si aprono con l’autrice come in una seduta di psicoanalisi. Persone semplici, come anche i giovani di borgata - pizzettari, aspiranti idrauilici e parrucchiere - che su determinati argomenti sembrano dimostrare lo stesso qualunquismo di quelli pasoliniani - le donne sono tutte troie o se mi nasce un figlio gay mi ammazzo -, questa volta però tutti accomunati da un categorico rifiuto dello studio e della cultura parruccona. La Danco rimane alla loro altezza, senza innalzarsi su un piedistallo di narcisismo intellettuale. Gioca con la loro fisicità in partiture sceniche determinate. Mette in risalto i loro piccoli tentennamenti in un inno alla naturalezza. Monta anche le riprese sbagliate, come in una sorta di backstage, per ripudiare ogni aspetto formalmente cinematografico. N-Capace è quasi un anti-film per la regista debuttante, che concepisce la sua opera prima più come un diario scritto di getto, pieno di appunti sparsi e cancellature. “Infatti io non ho pensato alle regole cinema” dice “non ho pensato a stare dentro qualcosa, ho solo pensato ad esprimermi come penso di saper fare attraverso un mezzo a me inedito”
 
Prodotto da Angelo Barbagallo - storico collaboratore di Nanni Moretti -, N-Capace è il primo film italiano in concorso nella sezione ufficiale del 32° Torino Film Festival, ma per adesso ancora in attesa di una distribuzione. 
 
Angelo Santini

Mademoiselle C

Venerdì 28 Novembre 2014 15:28 Pubblicato in Recensioni
Per capire tutta l'ambiguità del mondo della moda si deve iniziare parlando di ciò che il film, volontariamente, non racconta. Mademoiselle C è Carine Roitfeld,  e sotto la sigla CR i francesi e gli appassionati di tutto il mondo dell'alta moda l'hanno potuta seguire negli editoriali di Vogue Paris degli ultimi dieci anni. Fino al 2012, anno in cui Carine viene deposta da quello che lei stessa definisce il trono di regina del giornalismo fashion. Quello che il documentario, film, biopic, o comunque si voglia chiamare un collage di riprese in stile MTV dal sentore agiografico, non dice è il motivo per cui l'inventrice del porno chic degli anni '90 è stata sostituita. Scompare di colpo, perciò, l'assordante tempesta di polemiche suscitate da un suo servizio che vedeva delle bambine in pose troppo provocanti.
 
Porno chic, d'altronde, è una parola che ricorre spesso, ma più per essere esorcizzata e subito corretta in erotic chic, con siparietti che lasciano intravedere il disincanto e la malizia di un mondo effimero, che di fronte alla telecamera si scambia abilmente la palla come il gatto e la volpe. I discorsi fittizi e il vuoto pneumatico delle problematiche che porta avanti il film si trascinano avanti in un susseguirsi di set fotografici, riunioni d'ufficio, presentazioni, ricevimenti, sfilate, inutili interviste di mezzo minuto con aneddoti su caviglie, trucco e vestiti indossati due volte. 
Nel magma lavorativo di una nuova esperienza - il regista Fabien Constant racconta la creazione della nuova rivista della Roitfeld "CR Fashion Book" - viene dipinta la sua influenza nel mondo della moda come quella di una musa punk e ribelle, che si districa sempre a suo modo nelle scelte estetiche della femminilità, tra sfacciataggine ed eleganza. Esemplare è la scelta di stampare un neonato nella sua prima copertina, come a rispondere allo scandalo che l'ha preceduta. L'impressione di voler rifarsi il trucco sembra ancor più palese quando l'obbiettivo si sposta sulla Caterine nonna e mamma in carriera, ma tutt'ora in grado di condizionare le scelte del lusso di mezzo mondo.
 
Non mancano incursioni di altri grandi protagonisti della moda, come Tom Ford, Karl Lagerfeld, Donatella Versace, in una condivisione di intenti che dà la misura di come le grandi firme per emergere abbiano accantonato la sobrietà che fino agli anni '80 aveva dominato le passerelle di tutto il mondo, per lasciare il passo allo shock della sessualità esposta, e la spettacolarizzazione del corpo. La provocazione come chiave per mantenere accesi i riflettori dell'opinione pubblica, in un'escalation mediatica di cui questo stesso documentario ne è conseguenza naturale. Purtroppo quello che quest'ora e mezza di "cinema" non fa è raccontare, perchè si limita a sfiorarne la superficie glamour, ad abbozzare le personalità che l'hanno reso una fetta importante dell'economia globale, restando a metà tra una notizia di gossip e un catalogo di Gucci. Pubblicità.
 
Pollo Scatenato 

La Buca

Venerdì 28 Novembre 2014 15:00 Pubblicato in Recensioni
Armando (Rocco Papaleo) è appena uscito di prigione dopo aver scontato 27 anni per omicidio e rapina a mano armata. Oscar (Sergio Castellitto) è un avvocato misantropo e truffaldino, che vive facendo la cresta sulle pensioni dei suoi assistiti finti invalidi. 
In un giorno di pioggia, le loro strade si incrociano nel bar gestito da Carmen (Valeria Bruni Tedeschi). Quando Armando racconta a Oscar di essersi preso la colpa per un crimine che non ha mai commesso, l’avvocato capisce subito di aver incontrato una gallina dalle uova d’oro; il suo piano, infatti, consiste nel far riaprire il caso di Armando, dimostrare la sua innocenza e fargli ottenere il massimo del risarcimento per gli anni passati in carcere, solo per pretendere da lui una cospicua percentuale. 
 
Il regista Daniele Ciprì, al secondo lungometraggio senza la collaborazione di Franco Maresco, mette in scena il suo personale omaggio alla Hollywood classica, fra gli sfondi artificiosi degli storici studi di Cinecittà. Quella Hollywood di cui ne aveva descritto l’altra faccia siciliana in Il ritorno di Cagliostro (Ciprì e Maresco, 2003).
“Mi sono sporcato le mani con il cinema che amo” dichiara Ciprì. I riferimenti al cinema americano, infatti, sono molteplici e apertamente dichiarati: dalle commedie di Billy Wilder a Orson Welles, “ma anche un po' di Woody Allen, senza lasciarsi mancare Chi ha incastrato Roger Rabbit, con una Valeria Bruni Tedeschi che ricorda la Dolores del famoso film animato”.
Papaleo e Castellitto ricalcano fin da subito i meccanismi della strana coppia Lemon-Mattauh; il primo è un inadeguato, timoroso di non essere mai all’altezza della situazione, mentre il secondo è il cinico programmatore di quello che dovrà fare la coppia. 
Ognuno dei due,a suo modo, rappresenta la figura del perdente, che si arrangia come può per conquistarsi un posto nel mondo, come gli sventurati fratelli La Marca de Il ritorno di Cagliostro. 
Armando, bollato come assassino e ripudiato dalla famiglia, non ha un lavoro né una casa dove stare e viene ospitato svogliatamente da Oscar. Da questa convivenza forzata e dal carattere contrapposto dei due nascono una girandola di trovate tipiche del buddy movie.
 
Mentre Franco Maresco (recentemente al cinema con Belluscone) è rimasto più o meno fedele allo stile che caratterizzò la loro collaborazione dai tempi della Cinico Tv, Ciprì si emancipa radicalmente da quella ricercatezza estetica, in favore di un’atmosfera più favolistica. Scompaiono i paesaggi desolati della loro Sicilia post-apocalittica e i “poveri cristi” grotteschi e blasfemi del cult Totò che vise due volte. Ma scompare anche la ferocia di È stato il figlio con Toni Servillo, primo lungometraggio di Ciprì senza la spalla Maresco. In poche parole, scompare quella voglia di scandalizzare, di Pasoliniana memoria, che ha sempre caratterizzato le opere più interessanti del regista palerminato. 
Quello rappresentato in La buca è sì un mondo grigio di nepotismo e prevaricazione, ma anche un luogo estemporaneo fatto di cameriere dagli occhi dolci e di burberi dal cuore d’oro, in cui la redenzione, in un modo o nell’altro, è qualcosa di possibile per tutti. 
Se Wilder incarnava nei personaggi femminili delle sue commedie le caratteristiche etniche, culturali e sociali dell’America di quegli anni, Ciprì usa l’innocenza e  il candore  di Carmen/Bruni Tedeschi per rappresentare proprio quella speranza di redenzione per entrambi i protagonisti, attraverso l’intramontabile figura della donna salvifica. Carmen, infatti, ha avuto un flirt con Oscar in passato, ma si sente attratta anche da Armando. 
Il racconto stesso e i suoi toni farseschi diventano un mezzo di evasione dal grigiore del mondo reale e dalla ferocia dilaniante tipica della precedente filmografia del regista.
 
La Buca non è certo un film condannabile, a parte per le grossolane animazioni nei titoli di testa. 
Ma un omaggio al cinema classico era veramente necessario? La domanda sorge quasi spontanea, proprio perché a realizzarlo è uno come Ciprì, che ha rotto gli schemi dell’imperante povertà linguistica del cinema italiano degli anni ‘90, proponendo film diametralmente opposti alla “norma”, sia per la messa in scena che per i concetti espressi. 
La deviazione di Ciprì denota la scomparsa degli stimoli che animavano le sue superbe capacità di sperimentazione, in favore di un revival nostalgico dell’ottimismo alla Frank Capra e, in parte, della scanzonatezza della commedia all’italiana. 
Tuttavia, fare un processo all’evoluzione mancata di Ciprì è del tutto sterile. I film che tende a omaggiare nella sua ultima opera, paradossalmente, rappresentano proprio quella stessa “norma”, che ha caratterizzato la storia del cinema, almeno fino all’avvento dello stile moderno, all’alba degli anni ’60, ma il regista, dal canto suo, ne arricchisce l’evocazione di preziosismi stilistici, tipici di un cinema cronologicamente posteriore: dai fluidi movimenti di steadycam ai frequenti cambi di fuoco.
 
Un approccio personale al cinema classico, da Lubitsch a Dino Risi. Godibile, ma non all’altezza del Ciprì che abbiamo imparato ad apprezzare. 
 
Angelo Santini
 

Altman

Lunedì 24 Novembre 2014 17:00 Pubblicato in Recensioni
Altmaniano. "Giocare il colpo grosso" (Sally Kellerman); "Aspettarsi l'inaspettato" (Robin Williams); "Decidere le proprie regole" (James Caan); "Quanto siamo vulnerabili" (Julianne Moore"). Altmaniano, soprattutto, secondo Keith Carradine è la capacità di "far vedere agli americani chi siamo". E in questa ordinaria carrellata di definizioni, utilizzate a mo' di dissolvenze per legare i vari capitoli della carriera di Robert Altman, di fronte alla risposta di Carradine c'è da alzare le mani  e fermarsi un momento a riflettere.
Tra una buona dose di leziosa retorica - che brav'uomo Bob, che gran padre di famiglia anche se non c'era mai - ed un pizzico di autocompiacimento da parte dello stesso protagonista nelle interviste, il documentario riesce a creare un curioso spunto di riflessione: perché non ci sono dei Fellini o dei Bergman americani? C'è da chiedersi quanta verità nasconda una domanda come questa e quanto si possa essere oggettivi nel rispondersi. 
Mann ricostruisce la storia di Altman uomo ed artista lasciando l'originalità fuori dalla lista dei buoni propositi ed adagiandosi su un'elencazione semplicistica. Sfrutta infatti una coralità fittizia che si accontenta di dar voce a qualche familiare e raggruppare un po' della buona Hollywood davanti ad un fondale nero, nel commosso ma incerto tentativo di definire un aggettivo: altmaniano. Quella che avrebbe potuto essere una ricerca trainata da un coraggioso punto di vista, è più vicina ad un progetto che non riesce a scavare sotto la superificie del luogo comune; un omaggio troppo enciclopedico alla memoria di Altman, che gira attorno alla tanto agognata definizione di "altmaniano" senza mai afferrarla davvero eccetto, forse inconsapevolmente, che nello sguardo dello stesso Altman malizioso ed allusivo, a tratti saccente, indubbiamente sarcastico e provocatorio. 
Difficile dire se sia stato Altman a "fare il culo ad Hollywood" (Bruce Willis) o se siano stati gli studios a farlo uscire a testa bassa dell'eterno scontro - a conti fatti, tralasciando la prevedibile pacca sulla spalla dell'Oscar alla carriera. A giudicare dal materiale presentato nel documentario, il distacco sfacciato degli anni in fiore cede il passo, negli anni della vecchiaia, ad un alone di tristezza. Altman si butta nel teatro, sconfigge un micro ictus, perde peso per guadagnare salute, ritrova se stesso in un progetto di tv sperimentale; ma l'ombra di amarezza con cui afferma che non avrebbe potuto far nulla per gli studios se non cambiarli, e che loro non lo hanno voluto, ha il peso della delusione di chi ha accusato il colpo. Nel fare il culo ad  Hollywood e alla sua coerente avidità, Altman si è dimostrato fantasioso ma poco costante, mosso da una rabbia instancabile e dalla comprensibile esigenza di trovare un posto, mentre Hollywood gli impediva l'accesso sia alla setta del blockbuster che a quella del cinema d'autore. 
Emblematico è il racconto sullo screening di M*A*S*H col produttore della Fox convinto da due belle ragazze europee a non tagliare le scene del film, nell'ottica di un Paese e di un sistema produttivo che molte volte è mosso dalla casualità e da circostanze fortuite, più che da uno sguardo lungimirante. Quella che diventerà la "migliore commedia bellica americana dall'avvento del sonoro" segnando la storia del war movie, deve molto non alla Hollywood pioniera, ma ad un Altman pionere. Un pioniere che ha arricchito il cinema americano senza mai davvero arricchirsi grazie ad esso, che si è fatto strada come un virus autoimmune, attaccando dall'interno, alimentandosi dei deficit del proprio habitat, ridicolizzandone i grandi principi in maniera troppo intelligente per essere ingenua come tenta di farci credere lui stesso: "se è ripugnante, vuol dire che lo è ciò che vedo".
 
Chiara Del Zanno