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Le Deluge

Giovedì 21 Novembre 2024 16:18 Pubblicato in Recensioni
Jodice in questo secondo lungometraggio sceglie di raccontare un momento inesplorato dalla cinematografia. I film sullo stesso argomento che lo hanno preceduto hanno prediletto vicende riguardanti la nascita, la gloria ma mai fin’ora la parte più oscura e infelice della vicenda terrena degli ultimi regnanti di Francia. In "Deluge" il cui titolo mutua la celeberrima frase pronunciata da Luigi XV (dopo di me sarà il diluvio) si accompagnano Luigi Capeto (Luigi XVI) e la consorte Maria Antonietta D'Asburgo-Lorena alle soglie del patibolo che reciderà le loro teste ponendo fine all’ancien regime e spalancando le porte alla Repubblica Francese. Un film intenso che si ammanta di silenzio e si circonda di buio per raccontare la fine di un sogno, di un ideale, di un’epoca, di un destino. I regnanti francesi catturati mentre cercavano la fuga dopo i primi moti rivoluzionari e condotti in prigionia presso il castello Tour de Temple in attesa del processo. Quello che poteva essere solo una parentesi, un momento di stasi divenne invece il preludio della fine. Il film si avvale di un apparato tecnico di eccellente bravura. La fotografia intensa di Daniele Ciprì, i costumi accurati di Massimo Cantini Parrini, le acconciature aderenti alla realtà del tempo di Aldo Signoretti, così come il trucco affidato ad Alessandra Vita e Valentina Visintine, e le musiche affidate al raffinato compositore Fabio Massimo Capogrosso completano un quadro di sofisticata bellezza e armonia. Gli interpreti principali sono perfetti nel mostrare sui propri corpi il passaggio della tempesta in corso. Si abbruttiscono, si deformano, diventano sciatti e volgari come lo stesso volgo dal quale si tenevano a debita distanza come se non fosse responsabilità loro quello che stava avvenendo in silenzio da troppo tempo. Nelle prigioni del castello si fanno sorci che ingurgitano il cibo con le mani scoprendo anzi che possono fare a meno delle posate perché il cibo in questo modo diventa più buono. In un crescendo di climax drammatico si spogliano di tutte le comodità fino a rimanere nudi come vermi di fronte a Dio che li giudicherà per mano violenta degli uomini ribelli ad un destino impostogli per inettitudine e cupidigia senza ripensamenti e cedimenti.
 
 
Nemmeno la bellezza algida ed eterea di Maria Antonietta, l'austriaca, può servire per migliorare o alleviare per un breve tratto le loro pene e quelle dei loro due figli. Il corpo ancora giovane e statuario non riesce neppure ad essere moneta di scambio per ottenere un beneficio come tante volte è stato in passato. E’ semplicemente merce avariata che si svende in cambio di promesse che non verranno mantenute. Un film cupo, lugubre, che mostra il male facendolo sentire attraverso le privazioni e le umiliazioni che si infliggono a coloro che sono stati capaci di ballare quando il loro popolo soffriva, di mangiare prelibatezze quando il loro popolo moriva di fame. Gli ultimi reali francesi incapaci di vedere oltre i loro immensi giardini, egoisti, interessati solo alla propria felicità senza intuire il dolore che aleggiava loro intorno.
 
Ambientato quasi interamente all’interno, in spazi angusti che si fanno via via asfittici, "Deluge" mostra rari momenti in esterna. Gli spazi aperti quando ci sono sono il preludio e il commiato alla tragedia che si sta mettendo in atto. L’arrivo sotto il sole li svela prigionieri anche se loro continuano a sentirsi regnanti mentre il temporale sarà un lavaggio metaforico della sporcizia accumulata e messa per troppo tempo a proliferare sotto tappeti e dietro arazzi.  
 
Un film che con coraggio non fa sconti scegliendo di mostrare il lato più vile e sporco di personaggi che hanno cambiato, loro malgrado, la Storia di un Paese.  "Deluge" restituisce un ritratto spietato e crudele di una coppia convinta di essere predestinata e scelta direttamente da Dio per quel compito e di poterlo fare contro tutto e tutti senza subirne mai le inevitabili conseguenze.
 
Virna Castiglioni
 

The Beast

Giovedì 21 Novembre 2024 16:14 Pubblicato in Recensioni

In un futuro prossimo che si avvicina a grandi falcate, già ora preannunciando quale sarà la sua cifra, completamente comandato dall'intelligenza artificiale che avrà spodestato il lato umano e, rinchiuso per debellarlo, il substrato emotivo. Gabrielle Monnier che ha il volto eterno ed etereo di una splendida Lea Seydoux è la protagonista di una storia futuristica ma non troppo distante dai giorni nostri. Ambientata in un ipotetico 2044 lei è una giovane donna intenta a sottoporsi ad un trattamento che avrà l' obiettivo di purificarle il DNA ma facendolo la priverà di tutte le emozioni provate e vissute.

Bonello prende spunto dalla novella di Henry James "The Beast in the jungle" e ne ricava un film coraggioso e complesso.
In quest' opera mescola vari generi e confeziona per il suo pubblico un caleidoscopio cangiante, predispone un racconto multiforme, straniante e distopico dove niente è mai come sembra in un gioco affascinante di specchi deformanti che stordisce e inebria.
Un'ossessivo e anche un po' inquietante passaggio tra epoche diverse con date storiche che sono diventate celebri per accadimenti particolari come l' alluvione che travolse Parigi nel 1910 o il terremoto in America del 2014. Un film che non segue mai un percorso logico e non è mai lineare. Non c'è mai un prima a cui fa seguito un dopo, un antefatto che precede una determinata azione, una causa che determina un sicuro effetto ma è un' altalena che va avanti e poi torna indietro, dal futuro si ritorna al passato in un girotondo di dimensioni parallele ma sempre comunicanti. Lo spettatore cercherà, forse, all'inizio di trovare una chiave di lettura, un passepartout che apra tutte le porte, un fil rouge che colleghi i capitoli ma nel breve spazio di qualche scena sarà costretto a rassegnarsi a seguire il flusso delle immagini facendosi trasportare dalla corrente perché avrà capito che cercare di opporre resistenza e cercare un senso sarebbe soltanto fatica sprecata.
Il senso, sembra volerci dire Bonello, è stato ampiamente smarrito o messo deliberatamente in stand-by se acriticamente stiamo andando verso una società fatta e promossa dall'intelligenza artificiale rassegnandoci ad un mondo dove conta solo la performance, il risultato finale ma non può e non deve esserci spazio per la benché minima emozione che rischi di inficiare il disegno e possa fare deragliare il progetto iniziale.
Uomini e donne destinati a diventare sempre più esseri perfetti ma senz'anima come bambole senza espressione o al limite con espressione neutra, buona per tutti e adattabile a tutti i tempi.
Un film sicuramente intrigante nell'impianto che richiede la massima attenzione da parte dello spettatore, che non è facile da seguire ma regala spunti di riflessione e, con originalità e cura al dettaglio, affronta un tema molto caldo e sempre più dibattuto.

Virna Castiglioni

La stanza accanto

Venerdì 29 Novembre 2024 16:06 Pubblicato in Recensioni
Almodovar per il suo nuovo progetto sceglie due attrici di immensa bravura e le pone al centro di un dramma privato che accomuna l’intero genere umano. Affrontare la morte di chi amiamo e prepararci a vivere la nostra che ad un certo punto arriverà ad interrompere la festa è uno dei compiti più difficili e per i quali abbiamo ancora pochi strumenti.
 
Martha è una malata oncologica terminale e Ingrid è un’amica ritrovata proprio in questa ultima fase di vita dopo che il lavoro e le rispettive carriere di giornalista di guerra e di scrittrice le hanno assorbite completamente finendo per allontanarle. Martha non è sola, ha una figlia ma per sua stessa ammissione, è stata una madre assente e non se la sente di chiedere quello che invece cerca di ottenere dalla sua cerchia ristretta di amicizie femminili. Ha comprato nel dark web una pillola illegale che può procurarle una dolce morte ed è intenzionata ad usarla quando sentirà di essersi stancata troppo e vorrà abbandonare il ballo della vita anzitempo. Ingrid che è stata per tanto tempo lontana sembra essere la scelta migliore dopo che le altre amiche hanno categoricamente rifiutato di diventare complici di quel piano criminale.
 
Senza giudizio ma anche senza appoggiare in toto la scelta dell’amica. Semplicemente assecondando il desiderio legittimo di una persona a cui si vuole bene, Ingrid decide di prendere posto in quella stanza accanto per poter essere presente nel momento del trapasso esaudendo il desiderio dell’amica di potersene andare da sola ma con qualcuno di amico vicino.
Il film ha un impianto rigoroso, risulta asciutto ed essenziale. La regia cerca costantemente di togliere il superfluo lasciando i fatti scarni delegando tutto all’intensità delle due splendide attrici che compongono un affresco di vita normale e straordinario nel medesimo tempo.
Se Martha ha il volto altero e spigoloso di una Tilda Swinton in stato di grazia che interpreta una donna coraggiosa, lucida, determinata, razionale, Julianne Moore incarna invece la dolcezza, la comprensione, la leggerezza e il rispetto dovuto nei confronti di scelte che non si possono capire mai fino in fondo e che, pertanto, non possono essere tacciate di essere sbagliate aprioristicamente ma soprattutto essere demonizzate e osteggiate in forza di principi che non valgono per tutti allo stesso modo. Il tema dell’eutanasia così caldo e spinoso è affrontato in questo film senza trascinarsi dietro quel velo pesante di cupezza e terrore.
 
Si può dare appuntamento alla morte anche indossando il vestito migliore, del colore più sgargiante, mettersi il belletto sul viso e attendere che la neve scenda a cancellare quello che è stato ma anche ad abbellire tutto ciò che ricopre.
 
Come nel quadro di Hopper (People in the sun) che fa bella mostra di sé in quella casa affittata appositamente per mettere in atto quel piano finale si è vivi ma in perenne attesa. La morte ci prende la mano appena nasciamo, rimane ombra discreta e silente ma ad un certo punto si fa presenza insistente, invadente, prepotente e non si può, a lungo, declinare il suo invito a seguirla.
 
Il lungometraggio è tratto dal testo letterario “Attraverso la vita” dell’autrice Sigrid Nunez. Presentato all’ultimo Festival del cinema di Venezia ha, meritatamente, conquistato la statuetta più ambita confermando Almodovar un cineasta sensibile, attento ai temi attuali e di grandi qualità artistiche.
 
Virna Castiglioni
 

La nostra terra

Venerdì 29 Novembre 2024 16:02 Pubblicato in Recensioni
Ambientato in un villaggio rurale della Polonia nell’800 il film ruota intorno alla figura bella e ingenua di Jagna, una giovane contadina povera. Ormai in età da marito viene spinta tra le braccia del ricco possidente terriero del Paese, vedovo e anziano, ma in grado con le sue tenute di garantire prosperità e benessere. Succube del volere dell’anziana madre con cui vive e incapace di imporsi o ribellarsi per poter vivere il suo vero sogno d’amore acconsente ad andare in sposa al vecchio Bolyna, anche se contro voglia.  Da sempre innamorata del figlio di quest’ultimo cercherà di vivere i suoi veri sentimenti nonostante il vincolo contratto per dovere ma sopprattutto sfidando le leggi non scritte della comunità chiusa e ristretta dove vive. Quello che colpisce del film è la tecnica visiva utilizzata per la sua realizzazione. I coniugi Welchman avevano già sperimentato con successo questa tecnica di animazione anni fa con la pellicola "Loving Vincent" incentrata sulla figura del genio della pittura impressionista Vincent Van Gogh. Come fosse un dipinto, come se la storia venisse raccontata per quadri pittorici, lo spettatore è ammaliato dalla vividezza delle pennellate e assiste alla narrazione al pari di un visitatore in una pinacoteca dove sfilano quadri che si susseguono con continuità in un crescendo di emozioni.
 
La trama è molto elementare e anche poco avvincente e scompare totalmente dietro ai disegni. Siamo rapiti dai colori, dalle pennellate, dai movimenti fluidi che generano altre rappresentazioni pittoriche di grande effetto. Il racconto è scarno e molto elementare, quasi una novella verghiana dove si riflette sull’importanza dei sentimenti, sull’appartenere ad una determinata classe sociale ma soprattutto si concentra sulla terra e sul valore che ha in termini di prestigio, potere e attaccamento. L’intreccio dei vari personaggi è tutto in funzione della terra che si fa desiderio, si tramuta in obiettivo, diventa condanna, si trasforma in trappola e ossessione. 
 
Il film è l’adattamento del libro "I contadini" di Wladyslaw Reymont, vincitore del premio Nobel per la letteratura in Polonia ed è la base su cui lavora con grande perizia dopo il primo esperimento il rotoscopio utilizzato dalla coppia di registi. 
 
Virna Castiglioni